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 2014  febbraio 22 Sabato calendario

LE PAROLACCE È MEGLIO IMPARARLE DA PICCOLI


La nostra squadra era in furiosa rimonta, quando l’arbitro decise di interromperla. Tra le proteste dei nostri eroi, un piccolo branco di coraggiosi brocchetti che avevano ormai il vento alle spalle e sentivano il profumo della vittoria nei nasini, la partita di baseball dovette finire. Il regolamento era il regolamento e gli incontri per bambini di otto anni a quell’ora della sera devono finire.
Non te la prendere, cercai di consolare il nipotino (fermi, calma, rilassatevi, fidatevi, non è una rubrica sul nipotino, continuate a leggere sereni) che camminava con la testolona bassa, hai fatto quello hai potuto. «Non è quello, nonno, è che il risultato.... - cercò per un attimo le parole giuste e le trovò - è che la partita è stata così frustrante, così insoddisfacente».
Rimasi stupefatto. Da mestierante delle parole quale sono, le parole sono per me importanti e una simile proprietà e precisione di linguaggio, in un bambino all’inizio della terza elementare, mi sorprese. Se avessi dovuto scrivere un pezzo per Repubblica su quella partitella di bambini, non avrei saputo fare meglio. Non rabbia, ma «insoddisfazione e frustrazione», il senso amaro dell’ incompiuto.
Il bambino non è un futuro Nobel per la letteratura, anche se noi parenti, e soprattutto nonni, abbiamo la tendenza a pensarlo. Più semplicemente, è uno di quei fortunati che crescono in case dove i genitori non soltanto hanno un vocabolario ricco e corretto, ma, soprattutto, lo usano nella vita quotidiana nei rapporti coi figli.
Il vantaggio sociale, o se preferite l’ingiustizia, di crescere in una casa dove si parli correttamente, si affrontino i congiuntivi senza svenire, si rispetti la sintassi, è qualcosa che ogni insegnante delle elementari verifica nel lavoro e che la scuola non sempre riesce a ridurre. Quelle buone espressioni resteranno incollate nella loro memoria, fresca come la carta moschicida.
Ma esprimersi con un vocabolario “da grandi” rivolgendosi ai bambini, evitando troppi bamboleggiamenti, passato il tempo della popò e della pappa, ha un ovvio risvolto. Tutti noi adulti usiamo fra di noi le “parolacce”, anche quando la loro popolarità sembra averle depotenziate del contenuto volgare. Basti pensare agli ormai banalzzati “fregare” o “sfigato”.
Ci sono padri e madri che s’infuriano quando i figli usano le parole “di quattro lettere” come si dice nel mondo dell’inglese, nel quale quasi tutte le parole più grevi sono, chissà perchè, appunto di quattro lettere. Nella tradizione lontana, a chi usava la “potty mouth”, la bocca come un vasino da notte e pronunciava l’impronunciabile, si faceva lavare la bocca con il nauseante sapone.
Per esperienza personale, appartengo alla scuola di coloro che ammettono, con le dovute eccezioni e i limiti del buon gusto, l’uso delle brutte parole in presenza di bambini, per ragioni che mi paiono ovvie. Come, di nuovo, ogni maestro sa, i nostri virgulti parlano come scaricatori di porto fin dalla più tenera età e ormai persino la massima espressione teorica di civiltà e di civismo, la vita della “polis”, la politica, è, più che una “bocca da vasino”, un gabinetto pubblico.
In più, come diceva mio padre sotto lo sguardo corrucciato di nostra madre, se i figli le sentono dire in casa non resteranno impressionati e affascinati dal primo compagno di scuola che le usa.
E aggiungo una terza ragione: l’ipocrisia. I bambini non sono, se fortunatamente sani, né sordi né stupidi. Sentiranno benissimo la mamma, il papà, i nonni che, credendo di non essere ascoltati, parlano con amici al telefono, o discutendo fra di loro, facendo ampio uso di quelle stesse parolacce che a loro costerebbe un castigo. Perché?
Mentre seguivo una partita alla tv, con un nipotino (un altro, non quello sconfitto a baseball, non ho tradito la promessa iniziale), di fronte alla immancabile scandalosa decisone arbitrale contro la nostra squadra, mi scappò un “eccheccazzo” del quale mi pentii subito. Scusami, dissi al piccino, mi è scappata una parolaccia. Non ti preoccupare, nonno, mi rassicurò paterno lui battendomi la manina sulla spalla. La mamma lo dice sempre quando è incazzata con noi.