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 2014  gennaio 20 Lunedì calendario

IL PROGETTO PER LA NUOVA ILVA BONDI A CACCIA DI 3 MILIARDI


Un’ altra Ilva è possibile. Forse. Il "siderurgico" di Taranto disteso su 15 milioni di metri quadri può trasformarsi in un impianto moderno, con produzioni sofisticate a basso impatto ambientale per competere con colossi come ThyssenKrupp o ArcelorMittal. Ma servono soldi, tanti. Serve una proprietà solida. E serve tempo. Sono le incognite che pesano sulla fattibilità del piano industriale che il commissario straordinario Enrico Bondi ha cominciato a mettere a punto. Piano suggestivo, ma troppo gracile perché ancora senza fondamenta. Un gigante d’ argilla, per ora. segue a pagina 8 con un articolo di Antonio Cianciullo segue dalla prima Bondi ne ha parlato con il governo, ovviamente. In primis con il presidente del Consiglio, Enrico Letta, visto che il futuro della nostra manifattura dipende anche da chi produce l’ acciaio. E che il futuro del nostro Pil è ancora legato all’ industria, alle sue fabbriche e ai suoi operai, come dimostrano gli ultimi dati, confortanti, dell’ export tricolore, tanto più che circa il 47 per cento di ciò che vendiamo all’ estero contiene acciaio e quasi il 40 di questo arriva da Taranto. E Bondi ne ha parlato, per quanto abbia con loro rapporti a dir poco freddi, con i Riva (circa il 62 per cento del gruppo è ancora loro) ma che sono ormai finiti nell’ angolo, per usare un eufemismo, con poca voce in capitolo. Ne ha parlato con le grandi banche (Unicredit e Intesa oltreché il Banco Popolare), con la Cassa Depositi e Prestiti e con la sua controllata Fintecna di Massimo Varazzani; infine con i sindacati. Prima, però, arriverà il piano ambientale (si veda l’ articolo qui sotto, ndr ), poi quello industriale. Perché i due piani sono interdipendenti per definire la metamorfosi di Taranto. A fine febbraio il turnaround ambientale, entro la metà di marzo quello produttivo. Anche Bondi è cambiato: da risanatore di aziende decotte, a ristrutturatore industriale. Perché il piano per l’ Ilva appare davvero un progetto di politica industriale in un settore (quello dell’ acciaio) che nel 2013 ha visto la produzione scendere del 12,2 per cento con una punta del 19 per cento nel segmento dei laminati piani proprio dov’ è prevalente la presenza dell’ Ilva. Che - a sua volta - ha visto nel 2013 (sono ancora stime) crollare le vendite a 6 milioni e 300 mila tonnellate contro le 8 milioni e 300 mila tonnellate del 2012: due mila tonnellate in meno. Vendute dai concorrenti, tedeschi e turchi in particolare, che hanno tolto quote all’ Ilva malata. Perché c’ entrano le vicende giudiziarie tarantine, certo. C’ entra la crisi di domanda, ma c’ entra anche l’ obsolescenza dell’ impianto con la vecchia centrale termoelettrica, con quei vecchi treni nastri che trasportano i materiali e che incidono in maniera negativa sulle performance dello stabilimento, realizzando diseconomie che pesano sui conti. Ma non basta una profonda, ancorché costosa, manutenzione che comunque è già servita a ridurre gli infortuni e, in fondo, anche a cacciare le ditte d’ appalto che ancora non rispettano gli standard di sicurezza. Bondi sa che va mutato il processo produttivo, passando ad una sorta di "just in time". In siderurgia si chiama "flusso teso", vuole dire l’ azzeramento delle scorte di magazzino, produrre, secondo i canoni del toyotismo, sulla base degli ordini dei clienti. Per farlo bisogna alzare la qualità. Quello che i Riva non hanno mai fatto. Anzi. Il prodotto era qualitativamente superiore quando il "rottamaio" lombardo Emilio Riva nel 1995 comprò l’ Ilva Laminati Piani dall’ Iri per solo 700 miliardi di lire. I Riva hanno puntato alla quantità, mai alla qualità. Lasciandola ai concorrenti. Che però sono aumentati: cinesi, indiani, coreani, turchi, brasiliani. Non più solo i tedeschi. Alzare la qualità del prodotto vuol dire andare a fare i conti con il "sistema Riva", fino in fondo. Vuol dire anche sfidare quell’ area delle prime linee di dirigenti che oggi fanno resistenza, nostalgici del vecchio corso. «Discontinuità», la definisce Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim-Cisl, sostenitore convinto dell’ azione del commissario straordinario. Ce la farà Bondi? Ma soprattutto ce la farà (è questa la grande scommessa) a spostare la produzione anche per fornire settori come quello dell’ automotive e del ferroviario, dove senza la qualità, per via di una serie di certificazioni, non si entra? Bondi vorrebbe provarci. Pensa alla nuova Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne, ma pensa pure ai marchi tedeschi (Mercedes e Bmw, perché no?) che da sempre si forniscono dagli altri a cominciare da Thyssen. «Per riuscirci ci vogliono decenni», osserva scettico Antonio Gozzi, presidente della Federacciai, l’ associazione degli imprenditori del settore. Scettico e molto preoccupato «per la finanziabilità del progetto». «Più che di piano parlerei di intenzioni. Perché - spiega - per passare ai livelli superiori occorrono tanti miliardi in investimenti e skill adeguati, della proprietà, dei manager e dei dipendenti». L’ Ilva avrebbe bisogno di nuovi soci industriali disposti a metterci i soldi. «Ma io all’ orizzonte - aggiunge Gozzi - non vedo nessuno». Non ci sono infatti compratori per questa Ilva. E l’ idea della Fiom di Maurizio Landini e di altri a sinistra di un ritorno alle partecipazioni statali appare effettivamente velleitaria. Indietro non si torna. Bondi ha bisogno complessivamente di 3 miliardi: 1,8 miliardi per l’ attuazione dell’ Aia, l’ autorizzazione integrale ambientale, 1,2 per il possibile piano industriale. Dove prenderli? Dai Riva? La famiglia tace ma è difficile che mettano mano al portafogli essendo stati esautorati dalla governance dell’ azienda dopo che l’ hanno condotta al tracollo. E che ha visto azzerare la liquidità, ridurre il fatturato e lievitare il debito: era intorno al miliardo nel 2011, raggiunge ora i 2,5 miliardi. Le banche, però, devono sapere qual è il ruolo che i Riva intendono giocare nella ricapitalizzazione del gruppo. Per quanto l’ ultimo "decreto Ilva" all’ esame del Parlamento preveda esplicitamente la possibilità che il commissario Bondi possa chiedere alla magistratura lo svincolo di 1,9 miliardi sequestrati alla famiglia dalla procura di Milano, per aver commesso reati ambientali e finanziari, proprio per investirli nel risanamento dell’ impianto tarantino. Federico Ghizzoni (Unicredit), Gaetano Miccicchè (Intesa) e Pierfrancesco Saviotti (Popolare) chiedono garanzie certe per intervenire. È la condizione che hanno posto al governo. Lo hanno detto chiaramente a Letta che spinge per un’ operazione di sistema. Anche per questo si è affacciata l’ ipotesi (ne ha scritto il Sole 24 Ore ) di affidare alla Cassa Depositi e Prestiti la garanzia per le nuove eventuali linee di credito. Tra l’ altro sembra che Bondi abbia chiesto un intervento diretto a Fintecna perché mettesse in campo i fondi in bilancio destinati al risanamento ambientale, ricevendo però un no secco da Varazzani. Una carta si potrebbe giocare anche in Europa. Ci sono i finanziamenti a bassi tassi di interesse destinati dalla Bei (la Banca Europea per gli Investimenti) alle imprese siderurgiche che raggiungano entro il 2016 i previsti target di sostenibilità ambientale. Risorse che fanno gola, tanto che le aziende tedesche hanno chiesto di allungare i tempi di due anni, fino al 2018. Bentivogli sostiene che tutta questa sia una sfida complessa ma che si debba accettare. «Per cambiare la faccia dell’ Ilva, per una metamorfosi industriale e culturale. E anche per disinnescare la bomba sociale tarantina, dove intorno all’ Ilva sta morendo tutto, generando oltre 100 mila disoccupati». Ma resta la domanda senza risposta: chi guiderà o comprerà la Nuova Ilva?