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 2014  gennaio 20 Lunedì calendario

ROTTAMATI DAL CALCIO AD APPENA TRENT’ANNI


Se non hai studiato, sei fottuto. Se non hai messo dei soldi da parte, sei fottuto. Se poi hai più di trent’anni, e sei senza lavoro, sei fottuto per il mondo in assoluto, per il calcio in particolare. E quelle che prima erano certezze, ora sono solo ricordi che rendono ancor più duro il presente. Basta macchine di lusso, lo champagne è un’eco frizzante, i vestiti non te li regalano più, al ristorante il conto arriva, non sei ospite. Chi ti ha conosciuto da una parte gongola (ahi, l’invidia), dall’altra marca il suo disinteresse. “Mi scusi, non ho niente da offrirle, al massimo un po’ d’acqua, o i biscotti della bambina”, ci accoglie così Jaroslav Sedivec. Per lui è tripletta: nessuna laurea, euro sputtanati negli anni della presunta certezza sul futuro, senza squadra da questa estate. Vive a Maccarese, litorale romano, ma per poco “ho rescisso il contratto, dobbiamo lasciare l’appartamento. Andremo qualche giorno dalla zia di mia moglie, poi non so”. Dei topoi da calciatore gli sono rimasti solo quattro indizi: una bella auto, una bella moglie, un orecchino di brillanti e un fisico asciutto con cosce fuori media. Basta. Per il resto Jaroslav fa parte di quel dieci per cento di calciatori professionisti stritolati dalla crisi, dai fallimenti improvvisi di squadre e imprenditori, dal taglio del numero di giocatori a disposizione degli allenatori, dalle regole della Lega calcio dove “per ottenere dei contributi a fine anno tra i Pro (ex serie C) devi mantenere l’età media della squadra nei 26 anni in prima divisione, 25 in seconda”, spiegano all’Aic (Associazione italiana calciatori). Tradotto: gli over trenta sono zavorra, meglio disfarsene, anche se in ballo girano appena 200 mila euro a club, non molto più. Per questo l’estate scorsa nel ritiro per disoccupati si sono presentati oltre 100 giocatori, alcuni con curricula da A come l’albanese Bogdani o il brasiliano Jeda, altri con una buona permanenza in B come lo stesso Sedivec, 250 presenze per lui e la benedizione di Pavel Nedved. “È lui ad avermi portato in Italia quando avevo diciannove anni, contratto con la Juventus, poi in prestito per crescere”.

I favolosi anni Novanta
Quindi soldi, non pochi, soprattutto per un ragazzo ceco degli anni Novanta nato e cresciuto in una famiglia modesta “alla quale non è mai interessato dove ero o stavo arrivando. Non mi hanno mai chiesto niente, persone semplici, meravigliose. Mentre io mi sono divertito. Attento sul campo e negli allenamenti, per carità. Però mi sono divertito”. Lo champagne, appunto. Le feste. Andare una sera a Milano solo per far baldoria, roba da rotocalchi, da film alla Vanzina, cambiare auto, spider, un’altra spider; “sì, ho comprato prima una Porsche, poi un’Aston Martin, giravano bei contratti. Sembra un secolo fa”. Non un secolo, pochi anni.
“Vuole sapere quanto guadagnavo in lire? A venti anni, in serie C, ho firmato un contratto a crescere: 50, 60, infine 70 milioni. A ventitrè sono arrivato a 120 l’anno”, racconta Filippo Pensalfini, centrocampista classe 1977, alto, magro, viso spigoloso, voce e atteggiamenti pacati (“Lo ammetto, non conosco il Fatto. La dotta in casa è mia moglie, io capisco e mi interesso solo di pallone). Ha giocato con Novara, Cesena e Sassuolo, “ma per fortuna mio padre mi prese da parte e mi disse ‘oh, cosa vuoi fare? Forse è il caso che li investi, compra casa di nonna’, così ho fatto. Ora ho qualcosa da parte, non esagero, ma va benissimo così, mi sento comunque un privilegiato. Che macchina ho? (Sorride) Non ho mai ecceduto, adesso giro con un’Audi A3. Il problema è che si sono ridotti gli spazi e molti guardano, o sognano l’estero, mentre in Italia gli imprenditori.... ”, falliscono o non sono strutturati, “o investono per secondi motivi – interviene Damiano Tommasi, da quasi tre anni al vertice dell’Aic – Possedere una squadra di calcio serve per acquisire potere sociale e politico, una sorta di certificazione per accreditarsi verso certi referenti. Poi ecco i ‘rossi’, gli scarsi investimenti, la perdita di qualità e la fuga verso altre realtà”. Dati alla mano dal 2012 sono fallite tre società (Pergocrema, Piacenza e Triestina); quattro hanno rinunciato al campionato di competenza (Giulianova, Taranto, Borgo a Buggiano e Andria) e ben sette non sono state ammesse al campionato di competenza (Campobasso, Portogruaro, Sambenedettese, Treviso, Foggia, Siracusa e Spal). Retrocesse d’ufficio. “Non prendo lo stipendio da quasi tre anni – continua Sedivec – perché sono incappato nel fallimento di Perugia e Salernitana. Aspetto i soldi, ma chissà quando. Nel frattempo mi accontento di quel che trovo in qualunque categoria”. Non solo lui. Rispetto alla lunga lista di quest’estate, la maggior parte ha notevolmente ridimensionato sogni e aspettative pur di non restare a bordo campo, quindi una panchina per seguire i ragazzi, magari gli Allievi (come Pensalfini al Sassuolo), o campionati minori da l’Eccellenza (vedi Joachim De Gasperi, ora al St. Georgen).

I paletti in Lega Pro
“In queste categorie il problema è garantire uno stipendio, perché accade di tutto”, spiega Tommasi. Accade di promesse fuori registro, di contratti stipulati con una stretta di mano, di euro in nero, di pagamenti effettuati con buoni benzina o affitti di appartamento senza contratto. Un giorno uno pseudo-imprenditore si sveglia, costruisce una squadra, stipula contratti di un anno, solo di un anno, poi ci ripensa e il “sapone” diventa bolla. “Una delle questioni più controverse – spiegano dall’Aic – è quella dell’età media in Pro voluta dalla Lega. Da quando è stata votata giocano ragazzini totalmente impreparati, oserei dire scarsi. Gli allenatori li piazzano tutti ai lati della manovra, li promuovono terzini, al massimo come ali, dove il danno è ridotto. Nulla più. Questi giovani per due anni si sentono arrivati, protagonisti, ma appena sono over, appena la loro età non è più funzionale, scoprono qual è la realtà”. Scoprono cosa significa vivere ai margini.
“Probabilmente torno in Albania, magari lascio il calcio – racconta Erijon Bogdani, ex attaccante di Reggina, Livorno, Siena, Chievo e Cesena – Non c’è più spazio. Per fortuna negli anni ho investito nel mio paese, poi mi sono laureato in Economia e commercio. Sì, magari mollo anche se sono ancora in forma, mi alleno tutti i giorni. Ma come è cambiato tutto! Sono riuscito a mettermi in salvo, per altri è andata diversamente. Una volta giocare in Italia era il massimo, giravano proprio tanti soldi. Forse troppi. E la serie A era centrale, con Inter e Milan protagoniste, quando si giocava il derby della Madonnina in campo c’erano tre o quattro Palloni d’oro. Mentre oggi?”. Inghilterra, Spagna e Germania , con la Francia poco sotto l’Italia: questo recita il bollettino sul giro di affari. Negli Anni Novanta eravamo protagonisti, durante gli Zero ci siamo difesi, ora conteniamo la crisi. E ci vuole testa, tanta. Così al ritiro dell’Aic, oltre ad allenatori, massaggiatori, personale medico, c’è sempre uno psicanalista, la stabilità mentale è fondamentale per non mollare, per adattarsi, resettare, ripartire. Lo sa bene un ex talento come Samuele Dalla Bona, anche lui classe 1981, passato dai fasti del Chelsea (dal 1998 al 2002) alla Seconda divisione due anni fa con il Mantova, ora non pervenuto. E ancora nomi come Buscè, Pieri, Migliaccio, Grandoni, Sto-vini, Damiano Zenoni, Cirillo (sì, quello del cazzotto di Materazzi al termine di Inter-Reggina). Tutti insieme compongono una formazione dignitosa. Tutti passati dalle figurine Panini alla foto formato tessera da attaccare su un curriculum.

Estero ultima chance
“Ribadisco, altrimenti c’è l’estero – consiglia Tommasi – Io ho giocato un anno in Cina”. Non è così semplice. In questo caso il problema sono i contatti, la chance arriva se conosci, non è scontata. “E ora siamo a gennaio, con febbraio parte la roulette degli svincolati, i calciatori con contratto in scadenza a giugno”, concludono dall’Aic. Una riflessione che sottintende una proiezione: quanti saranno i disoccupati prima dell’inizio della prossima stagione? Presto per dirlo. “Io intanto aspetto delle offerte. Mi ha chiamato una formazione marocchina – continua Sedivec – e mi hanno offerto 25 mila euro. Ma lo ammetto, in questo caso il problema non sono i soldi, solo la paura di attentati. Sono un po’ fifone. E da quando è nata mia figlia mi sento ancor più responsabilizzato”. Jaro ci saluta. Ci stringe la mano. Poi aggiunge: “Se sente qualcosa mi chiama? Qualunque lavoro, ci mancherebbe. L’importante è la mia famiglia”. A Maccarese piove, è mezzogiorno ma c’è poca luce, il mare si confonde con il cielo, lampioni semi-accesi, il portiere dello stabile dove ancora vive Sedivec alza la sbarra e con una smorfia aggiunge: “Non sa quanti calciatori ho visto passare in questo condominio. Tutti di passaggio”. Qui la vita non è più a colori, ma è un film in bianco e nero visto alla tv.
Twitter: @A_Ferrucci