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 2014  gennaio 19 Domenica calendario

RAPHAEL GUALAZZI – [NON MI PIACE PARLARE SE NON HO NIENTE DA DIRE PREFERISCO CASOMAI FARE UN BRANO IN PIÙ]


Immaginate, nella galassia dello show business, il punto più lontano da Amici, X-Factor e compagnia. Bene: per arrivare sul pianeta Gualazzi, siete solo a metà strada. Avessero voluto costruirlo apposta in laboratorio, un personaggio così antitetico al talentismo televisivo imperante, non sarebbe venuto così. È un incrocio tra Yoghi e Superpippo, è un boy scout del jazz, ha il fascino dannato del secchione che passava i compiti a scuola. Ma i suoi concerti sono di un’allegria travolgente e contagiosa, il suo ritmo irresistibile fa zompare in platea nonni, zie, mamme e ragazzini. Virtuoso al pianoforte e sofisticatissimo nel miscelare swing, soul, blues, rag time, mambo, gospel, country o folk sviscerandone il cuore pop, il suo suono è quello solare del pianista che strimpella gobbo nel saloon o nel bordello o nella villa di Gatsby, sperando di essere invisibile. «La musica nasce da due esigenze principali: una di natura mistico-spirituale e l’altra di intrattenimento. Lo scopo dunque è trasmettere divertimento e spirito».
Niente a che vedere neanche con lo stereotipo del jazzista snob, tormentato ed esistenzialista: la paillard di pollo ai ferri nel suo piatto, nella trattoria romana dove lo incontriamo, è emblematica. Niente vino, niente caffè, niente tabacco. Era un bambino che collezionava francobolli, ecco tutto. Oggi colleziona bustine di tè e dà l’idea che, spente le luci della scena, riaccompagnerebbe a casa gli spettatori più anziani uno a uno con la sua macchina. Raphael Gualazzi, trentadue anni da Urbino, ha segnato come il passaggio di un Ufo gli ultimi due Festival di Sanremo (dove tornerà ora in coppia col dj techno The Bloody Beetroots) e da due anni vive praticamente in tournée riempiendo i teatri italiani, francesi, tedeschi, canadesi o giapponesi. Porta la sua musica in giro, con l’ostinazione gioviale di un missionario, anche nelle stazioni della metro parigina, sotto la Tour Eiffel, in cima al Monte Rosa, al Louvre, ovunque ci sia un piano. È capace di suonare all’alba a Rimini e a Nantes la sera stessa. In questo, non è cambiato dai tempi del suo primo concerto a un raduno open, bastava iscriversi, sull’Appenino romagnolo: «Scivolammo un po’ in là con la scaletta: salimmo sul palco alle tre e mezza di notte, un freddo bestia, senza nemmeno il conforto dell’alcol perché davano uno di quei rossi imbevibili che fanno lo schiumone nella bottiglia... Ho suonato dappertutto, anche in una gelateria: ci andammo perché il sassofonista aveva un interesse per una commessa, lo capii dopo».
Figlio di due impiegati statali, il padre Velio fondò negli anni Sessanta con Ivan Graziani gli Anonima Sound. «Ivan mi sentì cantare che avevo otto o nove anni e disse che avevo qualcosa di particolare. Cos’altro poteva dire al figlio di un amico? A quell’età ebbi il mio primo pianoforte elettronico, regalo per la prima comunione: era mostruoso. A quattordici il primo acustico, un’altra ciofeca. Mio padre me li ha fatti sudare. C’erano altri compagni che avevano il pianoforte a coda al secondo anno di conservatorio, io ho avuto il primo verticale Yamaha usato all’università, quando frequentavo Conservazione dei beni mobili e artistici». Era uno di quei bambini che, non solo sognava un Gronchi rosa, ma nemmeno vedeva la televisione (e continua a non possederla). «Mi ricordo gli Aristogatti, Bianca e Bernie o La carica dei 101perché ce li facevano vedere a scuola». In camera non aveva poster alle pareti «ma una maglietta di Bob Marley che mi portò una zia». Giocava a basket, finché lussarsi un dito non diventò incompatibile con gli studi da pianista. Ascoltava i Led Zeppelin, poi incontrò il blues. «La zona del pesarese era stata ribattezzata il Delta del Metauro, facendo il verso al Delta del Mississippi, culla del blues. Cominciai ad ascoltare di tutto e a leggere le biografie dei grandi bluesman, gente che raccoglieva il cotone o faceva il pugile prima di diventare qualcuno. Compresi i miracoli che la musica può fare. E capii che la matrice di tutta la musica moderna era lì dentro. Così iniziai a documentarmi, a contaminare e portare quei suoni nelle mie canzoni dandogli un sound più moderno. Il soul è divertimento, emozione e anima». È una visione che non si pone il problema dell’originalità né della coerenza. «La coerenza non esiste in musica. Devi essere solo coerente con l’amore che hai per lei. Macinare chilometri ogni giorno senza preoccuparti dei cliché, abbattere le barriere tra i generi senza puzza sotto il naso. La bellezza sta proprio nell’affluire a diversi generi musicali: perché precludersi delle possibilità? La musica è una luce che sprigiona tutta la sua energia attraverso i colori, ma tutti in un disco non ci stanno: ogni canzone però ha una sfumatura diversa. Bisogna tenere tutte le porte aperte. Tutto quello di cui abbiamo bisogno l’abbiamo già. Libertà e tradizione: l’originalità è già insita in questi due elementi. La composizione è confidenza e scioltezza: ci si deve liberare da qualsiasi struttura e far confluire la propria interpretazione della realtà, rispettando e celebrando la tradizione. Se non conosci la tradizione, non sai dove andare. Un musicista suona per se stesso, per l’arte e per il pubblico. Fattore estetico, personale e commerciale devono dunque armonizzarsi: se non riesci a combinare questi tre aspetti, allora devi cambiare direzione e sperimentare altro. Il messaggio se arriva, arriva anche attraverso la leggerezza. Se vuoi condividerlo col maggior numero di persone possibile, non puoi rivolgerlo solo a una nicchia».
Il primo brano che incise, a ventun anni, si chiamava Sweet Fuckin’Blues («Quando cominciai a prendermi sul serio») e prima di esibirsi andò in chiesa a chieder perdono per quella deriva peccaminosa. «Il blues è la musica del diavolo, si narra che Robert Johnson andasse ad attendere il demonio di notte in un crocicchio di campagna. Come diceva un mio amico, “io in campagna di notte ci sono andato, ma ho beccato solo i carabinieri”. Il rapporto tra il blues e il Male si annulla nella musica, che è la lingua universale del futuro. E per questo ne sono innamorato e voglio scoprirla ogni giorno. Il bene e il male non esistono: esiste il bello». Dal 2005 inizia a girare per festival jazz e nel 2009 Caterina Caselli lo vuole nella sua scuderia, la Sugar. Il primo colpo che piazza è la musica per uno spot della Eni, una cover di Don’t Stop dei Fleetwood Mac. Poi arriva il cosiddetto successo sanremese, nel 2011 con Follia d’amore che vince la sezione giovani e fa man bassa di premi della critica e l’anno scorso con Sai (Ci basta un sogno). La sua Reality and Fantasy remixata da Gilles Peterson sfonda le classifiche. La sua Rainbows è il motivetto-jingle che Fazio ha scelto per questa edizione di Che tempo che fa. E arrivano anche i soldi, grazie ai quali è andato a vivere in affitto a Londra per motivi artistici, non fiscali. «L’unico lusso che mi sono concesso è un pianoforte C3 Yamaha da ventimila sterline e una vacanza in America dopo Natale, non ero mai stato a New Orleans. Non si fa musica per i soldi, tantomeno ora che, rispetto a dieci o vent’anni fa, in proporzione butta malissimo. Finché non sfondi un muro, vai solo a perdere. Ma non me ne importa niente, finché la salute mi regge e ho la forza di suonare sono l’uomo più ricco del mondo. I più grandi musicisti che ho conosciuto erano fatti solo di musica». E snocciola, anche qui, teorie di nomi che a un profano dicono ben poco, con gli occhi illuminati di un bambino che recita la formazione della Juve. Se gli chiedi con chi sogna di duettare, mica ti dice Bono o Tom Waits. Risponde Kurt Elling, Camilla, Esperanza Spalding. «Le collaborazioni migliori nascono quando lasci la fase del controllo e vai libero. Bisogna essere aperti, non devi essere geloso nel donare ciò che hai appreso. Londra è un crocevia di culture musicali unico, la frontiera dove s’incontrano il mondo afroamericano e quello europeo. Quando sono là vado a sentire concerti nei localini, partecipo alle jam session, incontro artisti. Peccato che in due anni a Londra ci sarò stato sì e no un mese».
Ogni giorno che il Dio della musica manda in terra, Gualazzi suona quattro o cinque ore. Se è in tour, al concerto aggiunge un’ora di prove e un paio di composizione in albergo o in camerino. Ha una fidanzata che fa taekwondo, unico spiraglio che lascia aperto sul privato sentimentale. E sul comodino sempre biografie di musicisti, però dalla tasca del cappotto estrae un libretto che gli hanno appena donato: L’arte di insultare di Schopenauer. Lo maneggia con lieve imbarazzo e curiosità, ordigno attraente per lui che già fatica a parlare, figuriamoci a insultare. Apposta gliel’avranno regalato. Sul palco di solito non spiccica parola: larghi sorrisi impacciati e qualche grazie. E se invece è proprio in vena, qualche spiritosaggine da sagrestia. «Qualche volta mi piace scherzare, ma mai parlare a vuoto. È tutto tempo tolto allo spettacolo, preferisco semmai fare un brano in più. È un obbligo morale dare attenzione solo alla musica». Casomai non si fosse capito.