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 2014  gennaio 19 Domenica calendario

STUDIO SAN FRANCESCO E HO PORTATO IL CILICIO,MA LE SUORE SONO STATE LA MIA SCUOLA DI ATEISMO


[Chiara Frugoni]

Da quale angolo o buco del Medioevo è balzata fuori questa donna insieme affabile e intelligente, la cui lieve rassegnazione, in certi momenti della nostra conversazione, sfiora il martirio? Me lo chiedo dopo aver ascoltato il lungo racconto di Chiara Frugoni. Un sentimento di calma avvolge le sue parole e una distratta bellezza nutre il volto franco e dolce. Non c’è convenzionalità nei suoi pensieri che vivono, mi sembra, di una sottaciuta divergenza con la vita. Cosa li muove? Da quale fuoco arcano provengono? Una medievista di rango, apprezzata in tutto il mondo per i suoi studi su San Francesco, srotola il proprio tempo con la precisione di una miniatura, invitandoci a scendere fino al punto in cui felicità e infelicità si toccano in certi dettagli o strade aliene che lei ha percorso. A cominciare dall’infanzia, sulla quale la Frugoni ha recentemente scritto un libro (Perfino le stelle devono separarsi, Feltrinelli), carico di reticente commozione. È lì, in quel luogo irrisolto, che prende corpo qualcosa di strano e di doloroso: «Sì, la mia infanzia compendia la stranezza e il dolore, il sacrificio e la crudeltà. E forse questo piccolo libro, nel quale mi racconto grazie alle figure che hanno attraversato la mia prima vita, desidero pensarlo come una forma di congedo. L’ho scritto cercando una certa pace».
E l’ha trovata?
«La pace? Diciamo che ritornare sui luoghi della mia infanzia ha lenito la mia angoscia».
Quali luoghi?
«Solto, innanzitutto e poi Brescia. Tutto quello che mi è accaduto fino ai dieci anni si è svolto in quella cornice. Tra il paradiso e l’inferno».
Due mondi opposti, come li conciliava?
«Non c’era conciliazione tra le due “società”. Tra quella dei nonni materni, la parte ricca, e quella dei nonni paterni: povera, indigente, dignitosa. Le due famiglie non si sono mai toccate. Mai un abbraccio, una festa celebrata in comune. Mai niente che le mescolasse».
E lei come reagì?
«Con rassegnazione. Erano mondi codificati, difficili da aggredire o cambiare. Il babbo era a Roma per studio e lavoro. Con la mamma vivevamo in un bel palazzo nel centro di Brescia. Occupavamo una stanza come dei rifugiati. Il giorno a scuola dalle suore. La sera insieme a cena con i nonni. Di solito c’era il classico piatto di minestra. Finito il quale la mamma tirava fuori da un sacchetto una fetta di stracchino».
Come spiega tanta austerità?
«Era il loro tratto crudele. Ma anche il modo di interpretare un’idea di bene, tanto assurda quanto impervia. Il nonno materno, molto bigotto, diceva che sarei diventata una badessa».
E per questo la fece studiare dalla suore?
«L’intenzione fu quella. Ma mi trovai in una scuola assurda e folle».
Folle?
«Sì, quelle suore - ossessionate dal sesso e dalla vita - volevano che avessimo delle visioni. Ci dicevano che se non avessimo visto l’ostia animarsi saremmo state dannate. Passavo il mio tempo nella penitenza e nella preghiera. Portavo il cilicio a insaputa dei miei».
I suoi genitori non ne erano a conoscenza?
«No. Le suore non volevano che raccontassimo in famiglia ciò che accadeva a scuola. Ci minacciavano e al tempo stesso ci dicevano che eravamo delle elette. A sette anni conoscevo il significato del peccato mortale e veniale, cos’era sacrilego e cosa non lo fosse».
Che ordine era?
«Erano suore canossiane. Vivevo quel mondo con una profonda angoscia. Ricordo che un giorno giunsi sulla piazza del Duo-mo di Brescia. Completamente vuota. Alle due sarei dovuta rientrare a scuola. Ero sola con una cartella pesantissima e, in quel momento, pensai che la mia infanzia era finita».
Perché lo pensò?
«Perché sentii montare in me una disperazione fortissima e al tempo stesso un senso di ineluttabilità per ciò che stava accadendo».
Ma i suoi non ne ebbero la percezione?
«I bambini mascherano bene. Papà veniva a trovarci raramente. Raccontava di questi suoi interminabili viaggi in treno, in terza classe, da Roma a Brescia. Poi, finite le elementari, mia madre si ribellò e decise di avvicinarsi a Roma. Andammo a vivere a Ostia, dove le case d’inverno costavano pochissimo. Alla domenica il babbo ci portava in pineta o a vedere il mare. A me, che il mare lo vedevo tutto i giorni, sembrava una punizione».
Come erano i suoi genitori?
«Mia madre era una casalinga felice del suo mondo. Disprezzava cordialmente il lavoro intellettuale del babbo».
Suo padre è stato il grande Arsenio Frugoni, illustre medievista.
«Era un personaggio affascinante con un totale disprezzo per le cose. Da me, ma non da mio fratello, pretese la perfezione assoluta e ciò scatenò una certa insicurezza malgrado fossi la più brava a scuola. Poi mi iscrissi al liceo Virgilio. Fu un periodo felice. Papà lavorava alla Treccani. Sembravamo, improvvisamente, una famiglia normale. Quando arrivò l’università, ripresero le angosce. Pensavo di non farcela. Interruppi. Cercai un lavoro come commessa in un grande magazzino. I miei erano allibiti. Il babbo nel frattempo era diventato professore alla Normale di Pisa».
E lei riprese i suoi studi?
«Sì, provai ad entrare alla Normale. Ma ben presto capii che non potevo avvicinarmici».
Cosa lo impediva?
«Mio padre, cosa se no? Scrisse una lettera al direttore della Normale dicendo che ero inadatta alla ricerca. La verità è che non voleva che si pensasse che godessi di favori familiari. Terminai l’università a Roma e feci il concorso come bibliotecaria a Pisa. Lo vinsi. Una biblioteca magnifica, oggi diventata l’assurdo contenzioso di politici incapaci».
Descrive un padre terribile.
«Fu uno dei volti di quest’uomo».
Non teme che ne sia stata in qualche modo vittima?
«Forse sì. Mi ritenevo una ribelle perdente. Soggiogata dal suo fascino. Ricordo che solo dopo la sua morte ho cominciato a scrivere, a pubblicare e a insegnare».
Come è morto?
«In un incidente di macchina, nei pressi di Bolgheri. Morirono lui e mio fratello. La mamma restò a lungo in coma».
Cosa accadde quando apprese la notizia?
«Fu tremendo. Mi precipitai all’ospedale. Arrivai che era pomeriggio. Feci le scale. Incrociai il primario di ortopedia. Gli chiesi notizie. Mi scrutò con fastidio: il vecchio è morto. Il giovane non passerà la notte, disse allontanandosi. Solo la mamma trascorse un anno in ospedale a ricomporre i pezzi».
Eppure quella morte in un certo senso l’ha liberata.
«Ha cancellato l’immagine che restituiva di me: la perfetta cretina».
C’è una vicenda misteriosa che riguarda suo padre: la sua apparente adesione a Salò. So che lei se ne è interessata a fondo. Con quali risultati?
«Papà, che conosceva perfettamente il tedesco - passammo anche un periodo a Vienna dove lavorava per l’Istituto italiano di cultura - fu chiamato a dare lezioni di italiano al tenente colonnello Jandl. Che poi verrà giustiziato a Norimberga».
Mi scusi, non era facile entrare in quella cerchia senza qualche credenziale politica.
«È vero. Oltretutto lì c’erano anche Mussolini, i gerarchi, le SS. Il peggio del fascismo e del nazismo. Di questo non seppi mai nulla fino al giorno del funerale di mio padre. Durante la cerimonia si presentò un signore che era stato capitano delle SS. Mi disse che papà aveva fatto il doppio gioco. Che era un partigiano infiltrato. Andai a trovarlo a Berlino, sperando che avesse dei documenti. Niente. In seguito mi scrisse una lunga lettera, con il vincolo di non diffonderla, in cui mi diceva come papà era riuscito a evitare l’arresto e la fucilazione scappando dalla finestra».
Come è possibile che suo padre su tutto questo abbia taciuto?
«Non lo so. Credo facesse parte della sua personalità misteriosa. Una sola volta reagì con molto fastidio contro quella gente che si vantava di aver fatto la Resistenza. In seguito ho cercato documenti, rovistato in archivi. Niente. È saltata fuori solo una tessera in cui si diceva che era stato un partigiano di brigata».
Ma qualcuno deve averlo mandato a Salò.
«Credo siano stati i servizi segreti inglesi. E forse ci fu anche il coinvolgimento di Montini, il futuro papa, allora molto impegnato nel gioco della resistenza».
Cosa deve a quest’uomo?
«L’onestà e il senso del dovere. Al prezzo di una grande infelicità. Certo non ho educato i miei figli allo stesso modo».
Forse gli deve anche la passione per il Medioevo?
«Sì, ricordo certi viaggi in lambretta - io alla guida e lui dietro - con cui si andavano a vedere gli affreschi di Clusone sulla “danza macabra” e il “trionfo della morte”. Temi su cui mi sarei laureata. Non ho avuto dei maestri. Ma lui, anche se in modo distorto, lo è stato. Ho percorso una strada che papà aveva solo cominciato: l’attenzione all’immagine come fonte storica. Ma lei non ci crederà».
Non crederò a cosa?
«Che la passione per le immagini si chiarì nel periodo che passai in sanatorio».
Lei è una continua sorpresa!
«Da piccola contrassi la tubercolosi. Fu durante l’università che la malattia divenne insidiosa. Tanto che pensarono di ricoverarmi in un sanatorio in Valtellina. Sebbene fosse concepito come una prigione, quel luogo non era privo di fascino. Avevano sequestrato il nostro tempo. C’era proibito leggere e incontrare, soprattutto all’inizio, i parenti e gli amici».
Perché?
«Si credeva, e penso sia vero, che i sentimenti influissero sull’organismo. Le emozioni alzavano la febbre. Occorreva lasciarsi invadere da una calma interiore. Che rompevamo solo durante la cena. Ogni sera ci si cambiava per andare a tavola. Eleganti scambiavano occhiate e palpiti. Nascevano a volte amori furiosi, destinati a infrangersi nella normalità del giorno. D’inverno, l’importante che non ci fosse vento, ci obbligavano a stare sul balcone o in terrazza per ore. Guardavo, come ipnotizzata, la montagna registrando i più piccoli spostamenti della neve. O nel cielo le nuvole. È stata un’educazione all’osservazione, un allenamento alla pazienza. Che ho poi trasferito nel mio lavoro. Soprattutto nell’esplorazione delle immagini come documenti della storia».
Al centro del suo lavoro di studiosa c’è la figura di San Francesco. Oggi tornata in auge. Cosa rappresenta?
«Intanto è meno scontata di quel che sembra. Ha creato un ordine, ha rivoluzionato il rapporto con la società e rivisto le relazioni con la Chiesa. Ha reso praticabile il dialogo tra le religioni ed effettuale la parola del Vangelo e questo già in pieno Medioevo».
Si è sempre pensato al Medioevo come a un’epoca arretrata, buia, oltranzista, dogmatica.
«Sono felice di aver contribuito a sfatare questa immagine. Pensi a certi oggetti che sono stati inventati allora: gli occhiali, i bottoni che hanno fondato la moda, il mulino a vento, la forchetta, la forma del libro, i vetri, gli assegni, le note musicali. Sono le prime cose che mi vengono in mente. Potrei continuare. E poi c’è l’arte. Sto scrivendo un libro, che sarà l’ultimo, sugli affreschi della basilica superiore di Assisi. Con molte novità interpretative dentro».
Perché dice che sarà l’ultimo?
«Perché non ne scriverò altri».
È un’affermazione singolare. Lei parlava all’inizio di un “congedo”. Cosa intendeva?
«Segnalare che una vita volge a termine. Ho 74 anni. Sono in buona salute. Eppure è un pensiero che torna sovente. Lo so, c’è qualcosa di irrazionale in ciò che dico. Ma non mi libero dall’idea di non avere più molto tempo. L’accolgo con serenità. Senza drammi. Mio padre avrebbe quest’anno compiuto cent’anni. È morto a 56. Sono nata lo stesso mese e giorno in cui era nato lui: 4 di febbraio. Si scrisse la sua epigrafe che concludeva con una frase molto francescana: ricordatemi ancora, volendovi bene».
Posso chiedere se crede in Dio?
«Dovrei? Dopo quello che mi è accaduto penso che le suore furono un’eccellente scuola di ateismo. Ho smesso di credere verso i 15 anni».
E con chi o con cosa l’ha sostituito?
«La pratica francescana o le parole del Vangelo non hanno bisogno dell’aldilà. Valgono per noi, per il nostro mondo. Per me sono dei buoni modelli, come la capacità di introspezione e la fantasia. Lo zio Gianni - un uomo che rimpianse per tutta la vita di non aver sposato una violinista - mi regalava per le feste dei piccolissimi giocattoli. Diceva che non avevano avuto il tempo di crescere. E che io avrei dovuto prendermene cura. Ecco, mi piace pensare che quella bambina di allora abbia imparato ad applicare quella piccola lezione su tutto».