Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  gennaio 08 Mercoledì calendario

Notizie tratte da: Simon Garfield, L’arte perduta di scrivere le lettere (e come ritrovarla), Ponte alle Grazie 2013

Notizie tratte da: Simon Garfield, L’arte perduta di scrivere le lettere (e come ritrovarla), Ponte alle Grazie 2013.

• Le prime lettere scritte con inchiostro rinvenute in Gran Bretagna sono quelle scoperte a Vindolanda, località dell’Inghilterra settentrionale sede di un importante forte romano: un migliaio di tavolette risalenti al primo periodo dell’occupazione, tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., che documentano con semplicità e immediatezza la vita quotidiana della guarnigione romana. Si scopre, per esempio, che la coorte era generalmente ben nutrita: la dispensa ospitava «zampetti di maiale, caprioli, oche, pasta d’aglio, soluzione per la conservazione sottaceto, anice, salsa di pesce, timo, carvi, cumino, barbabietole rosse, olive, birra e vino (oltre agli alimenti di base: frumento, cereali, burro, orzo, uova e mele)». Anche il guardaroba dei soldati era molto ricco e curato: «conteneva una notevole serie di indumenti e sandali di tutti i pesi e per tutte le condizioni climatiche (galliculae, abolla, tunicae cenatoriae – una calzatura gallica, uno spesso mantello, una tunica di lana pregiata), oltre a tessuti decorativi, coperte e cubitoria, un elegante completo da sera. Si riscontra indubbiamente una certa attenzione alla moda: l’uso del termine de synthesi indica l’esistenza di capi d’abbigliamento che facevano parte di una collezione, vestiti che si potevano indossare separatamente o come coordinati».

• Circa duemila sono le lettere giunte fino a noi dall’antica Grecia, su frammenti di papiro. Il loro contenuto ci risulta familiare: «Ci sono richieste di informazioni, solitamente ottimistiche, sullo stato di salute del destinatario, seguite da notizie sulle condizioni del mittente, perlopiù positive. […] Quindi si confermava la ricezione delle missive precedenti oppure si rimproverava il destinatario per non aver dato sue notizie. Si aggiungevano i saluti per tutti i membri della famiglia, menzionati ciascuno per nome, e spesso anche per gli animali domestici». Assai rare però sono le informazioni sulle esperienze personali: «Quasi tutte le lettere venivano scritte per essere lette ad alta voce; persino quelle private venivano perlopiù dettate agli scribi e lette a bassa voce quando arrivavano a destinazione. Ci sono rari esempi di sfoghi emotivi in Socrate e in Platone, ma la maggioranza dei carteggi è priva di emozioni personali, e l’eredità oratoria conferisce loro una formalità appariscente». Se i messaggi di cordoglio per un lutto sono rarissimi, addirittura inesistenti sono le lettere d’amore: o perché sistematicamente distrutte dalle parti in causa o, più probabilmente, perché alle missive era allora di norma assegnato uno scopo pratico, alieno a esternazioni sentimentali.

• «L’individualità e l’autenticità – una lettera che fosse insieme personale e informativa – iniziano davvero solo con i Romani, i primi veri autori di missive e i primi a inaugurare la tradizione delle lettere intese sia come materiale biografico originale sia come letteratura da raccogliere e da apprezzare a tutti gli effetti. […] Per il lettore moderno, le lettere latine tendono ad avere un altro pregio rispetto a quelle greche: la semplicità. Sono intelligenti senza essere pretenziose, più dirette che fantasiose, più modeste che presuntuose. Se le missive greche affondano le radici nel teatro, quelle romane hanno origine nella taverna».

• Cicerone (106-43 a.C.) scrisse oltre novecento lettere, la maggior parte delle quali fu scoperta nel 1345 da Petrarca nella cattedrale di Verona. «La sua corrispondenza permanente con l’amico Attico è tronfia, giocosa e varia, e la sua natura prolifica e sequenziale ci permette, come nessun altro carteggio precedente, di ricostruire l’intima immagine biografica di un politico. In altre missive, Cicerone è convincente soprattutto perché è spontaneo, vulnerabile e incline all’euforia iperbolica, e perché il suo successo politico è alimentato dall’ambizione, dalla vanità e dalla debolezza. […] Cicerone, tuttavia, ricorre anche a un altro trucco: una grandiosa deformazione epistolare. La sua è la più antica collezione autonoma che mostra come il politico navigato usi le lusinghe per ingannare gli altri; le confidenze apparenti servono invariabilmente a raggiungere i suoi scopi e ad accrescere la sua reputazione».

• Centoventiquattro sono le lettere di Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) a noi giunte. «Tutte indirizzate verso la fine della sua vita all’amico e scrittore Lucilio, sono una via di mezzo tra un trattato filosofico e una guida spirituale, e la lettera viene considerata un veicolo idoneo per la trasmissione di consigli saggi e seri, dati in modo garbato. […] I testi contengono molti ragionamenti moderni e affrontano gli argomenti più disparati: dalle riflessioni sui rispettivi meriti della forza fisica e dell’intelligenza alla vecchiaia e alla senilità; dal valore dei viaggi alla disperazione dell’ubriachezza; dalla futilità delle azioni lasciate a metà alle virtù dell’autocontrollo; da specifiche questioni etiche ad argomenti generali di fisica. Non mancano mai di essere avvincenti».

• «Il tuo spirito devi mutare, non il cielo sotto cui vivi. […] Che giovamento può darti la varietà dei paesaggi o la conoscenza di città e luoghi nuovi? Tale sballottamento non serve a nulla. Chiedi perché tu non trovi sollievo nella fuga? Perché tu fuggi sempre in compagnia di te stesso. Nessun luogo ti piacerà finché non avrai abbandonato il peso che hai nell’animo» (Seneca a Lucilio).

• «Siamo andati avanti, o Lucilio, nella navigazione della vita […] così in questo rapido correre del tempo noi abbiamo visto sparire all’orizzonte prima la nostra fanciullezza, poi la gioventù, poi quel periodo intermedio fra la gioventù e la vecchiaia; infine i più begli anni della vecchiaia stessa; ed ecco che comincia ad apparire il termine comune del genere umano. Noi uomini, nella nostra grande demenza, lo consideriamo uno scoglio. In realtà è un porto che si deve talvolta desiderare, mai rifiutare. […] Ognuno deve rendere conto della vita anche agli altri. Ma per la morte non occorre che il proprio consenso» (Seneca).

• Di Plinio il Giovane (61-113 d.C.) possediamo duecentoquarantasette lettere personali e professionali e un carteggio con l’imperatore Traiano comprendente centoventuno epistole ufficiali. «Egli scrive profusamente e coltiva lunghe amicizie, e le sue lettere riflettono interessi culturali eterogenei. Per noi, il suo valore principale è di carattere storico, come testimone di quel periodo».

• «Ohibò, tu accetti un invito a cena e non ti fai vedere! Ecco la condanna: pagherai le spese fino all’ultimo soldo (e non saran piccole). Era stata preparata una lattuga per ciascuno, tre lumache, due uova, una torta d’orzo con vino melato e neve (conterai anche quest’ultima, anzi per la prima, perché s’è perduta sui piatti), olive, barbabietole, zucche, cipolle e mille altre cose non meno raffinate. Avresti ascoltato un attore o un lettore o un suonatore di lira o, vedi la mia magnificenza, tutti e tre. Ma tu hai preferito, in casa di non so chi, ostriche, ventresca di maiale, frutti di mare, e danzatrici di Cadice. Sarai punito, non dico come» (Plinio il Giovane all’amico Setticio Claro, prefetto del pretorio all’inizio del II secolo).

• «Una nube si formava, il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. […] A tratti bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. […] Lo zio [Plinio il Vecchio] si affretta là donde gli altri fuggono, va diritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciottoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi, al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: “La fortuna aiuta gli audaci”. […] Già faceva giorno ovunque, ma colà regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancor che mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli volle uscire sulla spiaggia e veder da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell’acqua fresca e la bevve avidamente. Ma poi le fiamme e il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde. […] Quando ritornò il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo), il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l’aspetto più simile a un uomo che dorme che a un morto» (Plinio il Giovane allo storico Tacito, una ventina d’anni dopo l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.).

• «Era già la prima ora del giorno, eppure la luce era ancora incerta e quasi languida. Gli edifici attorno erano squassati. […] I veicoli, che avevamo fatti predisporre, benché il terreno fosse piano, rinculavano e neppure con il sostegno di pietre rimanevano al loro posto. Pareva inoltre che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremar della terra. Certamente la spiaggia s’era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco. Dal lato opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco, si apriva in vasti bagliori di incendio: erano essi simili a folgori, ma ancor più estesi. […] Dopo non molto quella nube si abbassò verso terra e coprì il mare: avvolse e nascose Capri, tolse di vista il promontorio di Miseno. […] Ci eravamo appena seduti, che scese la notte, non come quando non v’è luna o il cielo è nuvoloso, ma come quando ci si trova in un locale chiuso a lumi spenti. Udivi i gemiti delle donne, i gridi dei fanciulli, il clamore degli uomini. […] Potrei vantarmi di non aver lasciato sfuggire in così pericolosi frangenti né un lamento né una espressione men che virile, se non avessi trovato un disperato eppur grande conforto alla morte nel pensiero che io perivo insieme a tutti e con me il mondo. Alfine quella caligine si attenuò e svanì in una specie di fumo o di nebbia: quindi fece proprio giorno, anche il sole apparve, ma livido, come quando è in eclisse. Agli sguardi ancor trepidanti il paesaggio appariva mutato e ricoperto da una spessa coltre di cenere, come fosse nevicato» (da un’altra lettera di Plinio il Giovane a Tacito, anch’essa riferita all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.).

• «Io trascorro gran parte della notte da sveglio a pensare a te, poi, in pieno giorno, nelle ore in cui ero solito venirti a trovare, le mie stesse gambe, posso dirlo in senso letterale, mi conducono al tuo quartiere e me ne ritorno dalle vuote stanze triste, dolente e quasi ne fossi stato scacciato» (Plinio il Giovane alla terza moglie Calpurnia, nel 102 d.C.: una delle prime lettere d’amore pervenuteci).

• «Ti amerò più di quanto qualsiasi altro uomo ti ami, anzi, più di quanto tu ami te stesso» (il futuro imperatore Marco Aurelio (121-180 d.C.) al suo precettore, il grande oratore Marco Cornelio Frontone: una delle prime attestazioni epistolari di amore omosessuale).

• Mille anni dopo, altra appassionata relazione maestro-allievo fu quella che si svolse a Parigi tra il filosofo e teologo Pietro Abelardo (1079-1142) e la sua giovane allieva Eloisa, poco più che diciassettenne. «Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente all’amore: erano più numerosi i baci che le frasi, la mano correva più spesso al suo seno che ai libri. […] Il nostro desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore: ogni volta che la nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo» (Abelardo a un amico anonimo, anni dopo). Una volta scoperta, la loro relazione si concluse drammaticamente: Eloisa finì in convento, mentre Astrolabio, il figlio nato dal loro amore, fu affidato a sua sorella; in quanto ad Abelardo, «una notte, mentre dormivo in una camera appartata della mia casa, dopo aver corrotto uno dei miei servi con del denaro, mi punirono infliggendomi una vendetta crudelissima e vergognosissima. Il mondo accolse questa notizia con sommo stupore: quegli uomini amputarono la parte del mio corpo con cui avevo commesso l’ingiuria che offese i parenti di Eloisa». Evirato, Abelardo si fece monaco, votandosi all’amore di Dio e alle scritture. La sua lettera all’amico capitò però tra le mani di Eloisa reclusa in convento: ciò fece rinascere la loro relazione, sotto forma epistolare. Eloisa: «Persino durante la solennità della messa, quando la preghiera deve essere più pura, le immagini oscene di quelle voluttà si impossessano della mia infelicissima anima al punto che penso più ai piaceri sensuali che alla preghiera. […] Nemmeno dormendo questi ricordi mi danno tregua». Molto più pacate e razionali le parole di Abelardo, ormai devoto e pentito al punto di dirsi grato della «giusta e clemente» punizione subita: «Fui mutilato di quella parte del mio corpo nella quale dominava la lussuria e si trovava la causa di tutti i miei desideri carnali. […] In questo modo fu anche giustamente punito il membro con il quale peccai e io espiai con la sofferenza le colpe che commisi nel piacere. Così, inoltre, Dio circoncise sia dall’anima sia dal corpo il fango nel quale ero tutto immerso. Mi ha reso tanto più degno degli altari sacri proprio perché nessun contagio carnale mi potrà più inquinare e allontanare da essi».

• Celeberrimo pure l’epistolario in lingua latina di Petrarca (1304-1374), il cui nucleo principale è costituito da quasi cinquecento lettere tra Epistolae familiares (sui suoi numerosi viaggi) ed Epistolae seniles (sul tema della vecchiaia). «Le missive sono eterogenee nel contenuto, contraddittorie, sicure di sé, elitarie ed erudite. […] Il poeta scrisse a molti amici e anche ad alcuni personaggi immaginari, come Cicerone e Omero. Gli argomenti spaziano dalla politica alla biografia, dalla poesia classica alla letteratura contemporanea, ma uno degli elementi essenziali che contraddistingue le lettere sono le osservazioni sui viaggi. Petrarca rivendica lo status di primo turista del mondo. […] Le sue lettere agli amici non sono altro che cartoline di pergamena spedite in patria, ed egli non scrive come una persona che osserva usanze sconosciute mentre gira per l’Europa, bensì come un uomo in cerca di svaghi, un vacanziere, un flâneur. Visita Parigi, i Paesi Bassi e il Reno, scala montagne e riferisce ciò che ha visto. L’unica cosa che gli impedisce di partire alla volta di mete più lontane – Gerusalemme, per esempio – è il terribile mal di mare di cui soffre».

• «Chi scrive dee sopra tutto considerare qual sia quegli cui scrive: e solo da questo prender norma per la materia, per i modi e per le altre circostanze della sua lettera. Ché in forme al tutto diverse e’ si conviene parlare al valoroso ed al vile, al giovine inesperto e al vecchio che tutti ebbe adempiti gli uffici della vita, a chi per prosperi eventi si gonfia, e a chi per gli avversi quasi tutto in sé si restringe, al letterato di nome e d’ingegno chiarissimo, e all’idiota che non giungerebbe ad intendere ciò che tu gli dicessi in uno stile alquanto elevato. Infinite sono degli uomini le varietà: né più della mente che della faccia sono eguali fra loro» (Petrarca all’amico Ludovico, soprannominato Socrate).

• Petrarca desiderava che chi, tra i contemporanei o tra i posteri, legge le sue lettere «pensi a me solo, non alle nozze della figlia o alla notte con l’amante o alle insidie del nemico o al processo o alla casa o al podere o al tesoro: e almeno finché legge voglio che sia con me. Se è preoccupato dei suoi affari, differisca la lettura; quando si avvicinerà ad essa, getti lontano da sé il peso degli affari e la cura del patrimonio… Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto».

• Opera medievale insostituibile è il Boncompagnonus (o Boncompagnus), manuale in sei volumi composto nel 1215 dal maestro di retorica Boncompagno da Signa: dava puntuali istruzioni sul modo migliore per comporre una lettera in ogni possibile circostanza della vita quotidiana. «Una specialità del Boncompagnus erano le lettere di condoglianze: i modelli di questo tipo di missive sono così esaustivi da non lasciare spazio a possibili errori. L’autore prende in considerazione le pratiche specifiche in caso di lutto di ungheresi, siciliani, slavi, boemi e tedeschi, nonché i modi differenti di interpretare la “felicità di preti e chierici” e i costumi di “certuni provincialotti”».

• «Nel tredicesimo secolo, quando Boncompagno scrisse il suo manuale, i modelli di lettere erano ormai numerosissimi. Tale abbondanza rispondeva a un’esigenza precisa: scrivere una lettera non era una capacità innata. […] Così c’erano due possibilità: pagare uno scrivano professionista che allestiva il proprio banco al mercato come se vendesse patate e verdure, oppure rivolgersi all’ars dictaminis e ai manuali. Ben presto all’ars dictaminis si affiancò l’ars notariae, specializzata nella stesura di argomenti legali e notarili, ma il cui scopo principale era quello di fornire suggerimenti per scrivere lettere “familiari”, più personali o generiche, seppur fedeli alla tradizione retorica (e adatte a essere declamate in presenza del destinatario al momento della consegna). Italia e Francia dominavano questo genere di manuali, seguite dall’Inghilterra. […] Ben presto le città universitarie come Bologna e Orleans furono in grado di offrire un numero così elevato di guide che i loro autori, i maestri épistoliers, vennero chiamati dictatori, un termine che ne sottolineava la notevole influenza politica. Molti erano membri del clero, alcuni occupavano una cattedra negli atenei. All’epoca i loro nomi erano celebri: Goffredo di Vinsauf, Arnolfo di Orléans, Pietro di Blois, Ludolfo di Hildescheim e Corrado di Zurigo».

• «I manuali di scrittura subirono una radicale trasformazione nel corso del Rinascimento, sotto l’influsso dell’umanesimo di Petrarca e, ovviamente, di Cicerone. All’inizio del Cinquecento si era già diffuso il genere di guida a cui saremmo ricorsi anche noi fino a una ventina d’anni fa, il methodus conscribendi epistolis. Il massimo esponente di questa arte fu Erasmo da Rotterdam [1466/1469-1536], uno degli umanisti e studiosi più famosi dell’epoca. […] Le sue lettere, di cui sono sopravvissute circa milleseicento (Erasmo sosteneva di aver trascorso grossomodo metà della sua vita a scrivere epistole), spaziano dalla difesa razionale della propria posizione contro le nuove dottrine cattoliche alla traduzione dei classici fino a questioni più personali, come la qualità scadente dei vini locali, dannosi per le sue finanze e la sua salute».

• «Ti sei del tutto sbarazzato dei tuoi sentimenti fraterni, oppure il tuo cuore si è completamente dimenticato del tuo Erasmo? Scrivo e spedisco lettere in continuazione, chiedo tue notizie, non faccio che domandare ai tuoi amici quando li incontro, ma non portano mai uno straccio di lettera o messaggio: dicono solo che stai bene. Certamente è un’ottima notizia, ma questo non ti rende più coscienzioso. Per quanto tu possa essere ostinato, penso sarebbe più facile cavare sangue da una pietra che ricevere una lettera da te!» (Erasmo al fratello maggiore Pietro). [Secondo me, a senso e non conoscendo l’originale, andrebbe piuttosto tradotto «Per quanto tu puoi essere ostinato»: mi sembra abbia molto più senso una causale che una concessiva, qui, e l’obliquitas non regge.]

• «A chi gode di uno status superiore al nostro dovremmo scrivere nel lato destro e inferiore del foglio, dicendo: “Da parte del vostro umile e obbediente servitore…”. Ai nostri pari dovremmo scrivere al centro del foglio, dicendo: “Da parte del vostro per sempre fedele amico…”. A chi gode di uno status inferiore al nostro dovremmo scrivere in alto a sinistra» (da The Enimie of Idlenesse, manuale per la composizione delle lettere pubblicato dall’inglese William Fulwood nel 1568).

• «Secondo lo storico James Daybell, migliaia di lettere dimostrerebbero quanto profondo fosse il rispetto per quella che lui chiama “politica sociale dello spazio nei manoscritti”. Quando John Donne si rivolgeva con estrema umiltà al suocero nonostante i cattivi rapporti con lui, si firmava nell’angolo in basso a destra del foglio, confermando e sottolineando così la propria irrilevanza, come in un ossequioso ripensamento. Questa pratica era particolarmente evidente nelle lettere inviate dai sudditi ai monarchi. Nel Seicento le donne che scrivevano agli uomini firmavano nell’estremità in basso a destra, segno infamante e inequivocabile di sottomissione sociale. Il caso opposto era altrettanto chiaro. Quando il secondo conte di Essex inviò una lettera al cugino Edward Seymour nel 1598, firmava volutamente in cima al foglio. Il breve testo, appena sei righe, lasciava il foglio pressoché intonso. Era un modo per affermare la propria ricchezza; la carta era costosa, e il messaggio significava senza dubbio: “Di questa carta, ne ho risme intere, io”».

• «Vi scongiuro con tutto il mio cuore di lasciarmi conoscere appieno le vostre intenzioni sul nostro amore; la necessità mi costringe a ottenere da voi una risposta, essendo stato colpito da più di un anno dal dardo dell’amore, e non sapendo se ho fallito oppure ho trovato un posto nel vostro cuore e nei vostri affetti. […] Se vi piace assolvere al dovere di una vera, leale amante e amica, e darvi anima e corpo a me, […] vi prometto […] che vi prenderò come mia unica amante, allontanando tutte le altre salvo voi stessa dal mio cuore e dalla mia mente, che servirà voi sola» (Enrico VIII re d’Inghilterra ad Anna Bolena, sua futura seconda moglie, ai tempi del corteggiamento, tra il 1527 e il 1528).

• «Sire, il dispiacere di Vostra Grazia, e la mia incarcerazione, mi sono a tal punto incomprensibili da ignorare del tutto ciò che devo scrivere, o di che cosa devo scusarmi. […] A dire il vero, mai Principe ha avuto moglie più leale, riguardo ai propri doveri e ai veri affetti, di quella che voi avete sempre trovato in Anna Bolena. […] Ma se avete già deciso di me, e che non solo la mia morte, ma anche un’infame calunnia deve portarvi il godimento della felicità desiderata, allora prego Iddio che perdoni il vostro immenso peccato, e parimenti i miei nemici, strumenti di tale peccato, e non vi chiami severamente a rispondere del vostro trattamento crudele e poco principesco nei mei confronti al giudizio universale, dove sia voi sia io dovremo presto comparire, e davanti al quale giudizio non dubito (qualunque cosa pensi di me il mondo) che la mia innocenza verrà apertamente e adeguatamente chiarita» (dall’ultima lettera a Enrico VIII di Anna Bolena, inviata nel 1536 dalla Torre di Londra, ove era stata rinchiusa con le imputazioni di adulterio e alto tradimento; molti storici moderni la ritengono però un falso d’epoca).

• Il primo, embrionale servizio postale inglese, la Royal Mail, fu istituito nella prima metà del Cinquecento da Enrico VIII al fine di garantire la riservatezza della corrispondenza di corte, mettendola al riparo da eventuali spie e cospiratori.

• «Fu solo con l’“Act for the Setting of the Postage in England, Scotland and Ireland” di Oliver Cromwell del 1657 che venne istituito il primo General Post Office, dedicato alla corrispondenza interna e con l’estero. Il primo Penny Post londinese nacque qualche anno dopo, fissando una tariffa (un penny, appunto) uniforme in tutta la capitale, permettendo alle lettere di essere inviate e ricevute diverse volte nel corso della giornata».

• «Il merito per il primo servizio postale va riconosciuto alla dinastia olandese dei Taxis, che nel 1600, con il beneplacito della Chiesa, istituirono un servizio postale gratuito per la corrispondenza privata».

• In Gran Bretagna, «alla fine del Seicento il costo delle lettere veniva sostenuto dal destinatario e non dal mittente (il che induceva alcuni a chiedere il permesso prima di iniziare una corrispondenza), e al di fuori della capitale le tariffe erano ampiamente variabili: l’invio di un unico foglio a meno di dieci chilometri di distanza costava 2 penny; il prezzo raddoppiava per due fogli. L’affrancatura per distanze più lunghe poteva costare fino a 4 penny per foglio, ma vi sono numerose testimonianze secondo cui le lettere potevano costare al destinatario anche almeno 8 penny. […] Nel 1698 la Penny Post recapitò oltre 790.000 tra lettere e pacchetti nella sola capitale, e 77.500 al di fuori dei suoi confini; cinque anni dopo queste cifre toccarono il milione di unità».

• Fino a metà Ottocento, in Gran Bretagna i funzionari del servizio postale nazionale esercitarono anche attività di spionaggio, vagliando, selezionando e intercettando nottetempo nell’ufficio centrale di Londra le lettere inviate in ogni parte del regno. Per eludere tali controlli, furono presto ideati codici segreti e altri stratagemmi più o meno sofisticati. «I codici cifrati erano uno strumento essenziale nell’armamentario degli ambasciatori, e spesso includevano crittografie numeriche o alfabetiche prestabilite note solo al destinatario. Questi sistemi erano diffusi anche tra i commercianti che non volevano rivelare notizie su nuovi mercati, per cui svilupparono una propria forma di stenografia. […] Molto diffuse erano anche le parole in codice. Alla corte di Maria Stuarda lavorava un segretario, Gilbert Curle, il quale utilizzava codici che sarebbero divenuti familiari con le grandi guerre del Novecento: alla regina d’Inghilterra ci si riferiva come al “mercante di Londra”; la regina di Scozia era il “mercante di Newcastle”. Infine esisteva un altro trucco, fra i preferiti degli studenti: l’inchiostro simpatico. […] Venivano utilizzati aceto e urina, ma anche allume in polvere, latte, cipolla, succo d’arancia o di limone. Il suo uso più celebre risale alla cosiddetta “congiura delle polveri” del 1605, durante la quale un gruppo di sacerdoti gesuiti teneva una corrispondenza regolare su fogli in cui apparentemente erano stati lasciati degli spazi vuoti. In seguito uno dei cospiratori, John Gerard, scrisse a proposito delle sue attività dal carcere, confessando di aver utilizzato “fra le righe” il succo degli agrumi: “Nelle lettere scritte a matita ho racchiuso i miei argomenti spirituali, ma negli spazi bianchi fra le linee ho lasciato istruzioni dettagliate destinate a vari amici all’esterno”. […] Il succo di limone era utilissimo, e diventava visibile quando veniva esposto all’acqua o al calore; quando si asciugava o al foglio veniva avvicinata una fiamma, scompariva di nuovo. “Ma il succo d’arancia è differente”, scriveva Gerard nella sua autobiografia. “Non diventa visibile con l’acqua. […] Il calore lo rende visibile ma non è più possibile nasconderlo. Così una lettera scritta con il succo d’arancia non può essere recapitata senza che il destinatario sappia o meno se è già stata letta”».

• Una delle più prolifiche autrici di lettere del Seicento fu Madame de Sévigné (1626-1696), scrittrice e regina dei salotti letterari e mondani parigini: redasse circa milletrecento lettere nell’arco di mezzo secolo. «A quanto pare scriveva tutti i giorni, e con maggiore frequenza il mercoledì e il venerdì, quando la posta partiva da Parigi. […] Le sue lettere erano fitte di informazioni e pettegolezzi serviti con gusto e divertimento, attesi con impazienza e trasmessi ad altri quando ancora l’inchiostro non era asciugato».

• «Ieri vostro fratello è venuto dall’altra parte di Parigi per riferirmi dell’incidente che gli è capitato. Gli si era presentata una buona opportunità [con l’attrice Mademoiselle de Champmesle], quando, come dire… il suo cavalluccio si è improvvisamente bloccato. È stata una cosa straordinaria; la povera damigella non si era mai divertita tanto in vita sua. Il misero cavaliere batté in ritirata, pensando di aver subìto un incantesimo. Ma la cosa migliore è che non vedeva l’ora di raccontarmi della sua disavventura. Abbiamo riso di cuore, e gli ho detto che ero incantata all’idea che fosse stato punito là doveva aveva peccato. Allora lui se l’è presa con me, dicendo di aver ereditato un po’ della mia freddezza. […] Una scena degna di Molière» (Madame de Sévigné alla figlia Françoise-Marguerite nel 1671, su una défaillance sessuale confidatagli dal figlio Charles).

• Altro celebre epistolario è quello costituito dalle circa quattrocento lettere inviate dal quarto conte di Chesterfield (1694-1773) al figlio (illegittimo) Philip Stanhope, tra il 1739 e il 1765. «Scritte con cadenza quasi settimanale, le lettere erano una sorta di corso di formazione per corrispondenza. Chesterfield intendeva imbarcarsi in un compito che nessuno aveva intrapreso su così ampia scala dai tempi di Seneca: coltivare il carattere e la carriera di un giovane per via epistolare».

• «Figliolo caro, quella di compiacere è un’arte che è necessario possedere, pur essendo complicata da imparare. Difficilmente può essere ridotta a regole, e il buonsenso e l’osservazione vi insegneranno molto più di quanto possa fare io. Fare le cose come vanno fatte è il metodo più sicuro che conosca. […] Adeguatevi al tono della compagnia con cui vi trovate, e non pretendete di imporre il vostro; siate serio, allegro, o persino futile, a seconda dell’umore della compagnia; questa è un’accortezza che tutti, dal singolo individuo alla maggioranza, dovremmo avere. Non raccontate storie in compagnia; non vi è nulla di più tedioso e sgradevole: se per caso conoscete una storia breve, e del tutto consona all’argomento di conversazione, esponetela con il minor numero di parole possibile; e anche in questo caso fate notare di sfuggita che non vi piace raccontare storie, ma che la brevità del racconto vi ha indotto in tentazione. Di tutte le cose, durante le conversazioni evitate di parlare di voi stesso, e non pensate di divertire gli altri con le vostre preoccupazioni o i vostri affari privati; malgrado siano interessanti per voi, sono noiosi e importuni per chiunque altro: a parte questo, nessuno riesce a tenere troppo segreti i propri affari privati» (Lord Chesterfield al figlio, nell’ottobre 1747).

• «Scrivete enduce invece di induce, oppure grandure invece di grandeur; due errori che potrebbero commettere i miei domestici. Devo dirvi che l’ortografia, nel vero senso della parola, è così strettamente necessaria per un uomo di lettere, o per un gentiluomo, che una grafia errata può renderlo ridicolo per il resto della sua vita; conosco un uomo davvero valido che non si è mai liberato del ridicolo di cui si era coperto per aver scritto wholesome senza la w» (Lord Chesterfield al figlio, nel novembre 1750).

• Numerose le lettere inviate nel corso degli anni da Napoleone a Giuseppina di Beauharnais, sua prima moglie dal 1796 al 1810. «Così questo è il vostro strano potere, mia straordinaria Giuseppina? Uno dei vostri pensieri è avvelenare la mia vita, spezzarmi il cuore. […] So bene che, se discutiamo, dovrei negare il mio cuore, la mia coscienza. Li avete sedotti, e saranno sempre vostri» (tra il dicembre 1795 e il marzo 1796: innamoramento e corteggiamento). «Un cupo presagio mi affligge. Non vi vedo più. Ho perso più della vita, più dell’amicizia, più della mia pace. Sono quasi senza speranza. […] Vi ho reso un tale torto che non so come rimediarvi; vi accuso di rimanere a Parigi, e voi siete lì malata. Perdonatemi, mia cara; l’amore con cui mi avete conquistato mi ha privato della ragione, che non ritroverò più. È una malattia per cui non esiste cura. I miei presentimenti sono così cupi che mi accontenterei di vedervi, di stringervi al mio cuore per due ore, per poi morire con voi» (giugno 1796: amore appassionato e melodrammatico, tre mesi dopo le nozze). «Ho convocato il messaggero; mi ha detto di essere passato da casa vostra, e che non avevate disposizioni. Che vergogna! Cattiva, irresponsabile, crudele, tirannica, piccolo mostriciattolo. Voi ridete delle mie minacce, della mia infatuazione; ah, sapete bene che, se potessi rinchiudervi nel mio petto, vi terrei prigioniera!» (luglio 1796: primi sospetti d’infedeltà). «Mia cara, vi prego, pensate più spesso a me, e scrivetemi ogni giorno. Voi non state bene, oppure non mi amate! Pensate quindi che io abbia un cuore di pietra? E le mie afflizioni vi preoccupano così poco? Dovreste sapere quanto soffro! Non posso crederci! Voi, a cui la natura ha dato l’intelligenza, la tenerezza e la bellezza, voi che sola potete governare il mio cuore, voi che senza dubbio conoscete il potere illimitato che avete su di me! Scrivetemi, pensate a me, e amatemi» (febbraio 1797: ulteriori rimostranze). «Il tempo è buono, la mia salute perfetta; non state in ansia» (dicembre 1808: reciproca infedeltà e freddezza). «Addio, cara. Scrivetemi per dirmi che state bene. Mi dicono che siete grassa come una contadina normanna» (1811: un anno dopo il divorzio e la celebrazione delle seconde nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria).

• Il prezzo più alto mai battuto a un’asta per una lettera si deve a una missiva di George Washington del 1787 al nipote Bushrod Washington, che a Christie’s New York arrivò a 3.218.500 dollari, nel dicembre 2009. Il messaggio sollecitava la ratifica della Costituzione appena adottata.

• «Fino al 1840, il ministero delle Poste britannico riuscì a gestire con una certa efficienza l’intero processo di spedizione, con l’eccezione dell’ultimo passaggio: il pagamento a carico del destinatario era una procedura troppo lenta. […] Un impiegato statale, Rowland Hill, […] condusse una ricerca sul sistema postale, e pubblicò un pamphlet in cui ne mise in evidenza non solo le anomalie e la corruzione, ma anche la diminuzione degli introiti negli anni più recenti, nonostante l’entità dei potenziali profitti. I miglioramenti proposti da Hill trasformarono le reti postali di tutto il pianeta. Hill suggerì una tariffa postale unica di un penny per mezza oncia (meno di 15 grammi) in tutte le isole britanniche, indipendentemente dalla distanza; inoltre la tariffa andava pagata in anticipo. A questo scopo riprese una proposta già formulata da Charles Knight di una busta preaffrancata, ma fu la sua seconda idea a garantirgli un posto nella storia: “un pezzetto di carta sufficientemente grande a contenere il timbro, ricoperto sul retro da una sostanza collosa” che, una volta inumidito, sarebbe stato applicato alla busta». La Camera dei comuni approvò: nacque così il francobollo (all’epoca ancora definito label, etichetta adesiva). «I francobolli – il “Penny Black” e il “Two Pence Blue” – e le buste preaffrancate furono messi in vendita venerdì 1° maggio 1840, dando inizio a una vera e propria rivoluzione. […] Il 22 maggio, indicava Hill, “la richiesta di etichette è enorme, la tipografia ne stampa più di mezzo milione al giorno, e anche così non è sufficiente”. […] La riforma postale divenne un simbolo della volontà popolare. Nel 1839, prima del varo della riforma, le lettere recapitate nel Regno Unito erano 75.907.572. Nel 1840 questa cifra era cresciuta di oltre il doppio, toccando le 168.768.344 consegne. Dieci anni dopo il numero salì a 347.069.071. […] Quando Hill andò in pensione, nel 1864, metà del pianeta aveva adottato le sue riforme; nessun individuo aveva contribuito più di lui alla comunicazione globale delle idee».

• «Uomini e donne cominciarono subito a collezionare francobolli, un hobby considerato fin da allora eccentrico. […] Il primo filatelico di cui si abbia notizia fu una donna, conosciuta solo come “E.D.”, che nel 1841 pubblicò un annuncio sul Times: “Una giovane donna, desiderosa di tappezzare il proprio camerino di francobolli annullati, finora grazie agli amici è arrivata a raccoglierne sedicimila. Non sono tuttavia ancora sufficienti, ed ella sarebbe davvero molto grata a chiunque fosse così gentile, avendo a disposizione questi oggetti altrimenti inutili, da sostenerla nel suo stravagante progetto”. […] Nel giro di un anno alla misteriosa collezionista se ne sarebbero aggiunte molte altre. Il Punch annotava che “una nuova mania ha colpito l’industriosa pigrizia delle signore inglesi. […] Sono più ansiose loro di accumulare teste di regina che Enrico VIII di sbarazzarsene”».

• «La buca delle lettere […] pare abbia avuto origine in Italia nel Cinquecento. A Firenze, i tamburi erano contenitori di legno chiusi in cui i fedeli potevano segnalare chi secondo loro avesse bestemmiato contro Dio o si fosse espresso contro il governo; la lettera (di fatto una delazione anonima, detta tamburazione) veniva introdotta da una fessura. Nel Regno Unito, le buche della posta, solitamente ricavate nei muri o nelle finestre, vennero introdotte all’inizio dell’Ottocento».

• «Sarebbe un peccato se non vivessimo il breve tempo che ci è concesso secondo le leggi dell’eternità! Dobbiamo pensare che siamo qui eretti, e non sdraiati nel fango. La meschinità deve essere il nostro poggiapiedi, non il nostro cuscino. […] Le leggi della terra sono per i piedi, o per gli uomini inferiori; le leggi del cielo sono per la testa, o per gli uomini superiori; questi ultimi sono come i primi, ma sublimati e amplificati, come raggi che dal centro della Terra si propaghino nello spazio. Felice è l’uomo che conosce le leggi celesti e terrene nella giusta proporzione, l’uomo di cui ogni facoltà, dalla pianta dei piedi alla punta della testa, obbedisce alla legge che gli è propria; l’uomo che non si china mai né cammina in punta di piedi, ma vive una vita equilibrata, consona alla natura e a Dio» (lo scrittore americano Henry Thoreau (1817-1862) all’amico editore Harrison Blake).

• «Susie, perdonami mia cara, per tutto quello che dico – ho il cuore pieno di te, […] eppure, quando cerco di dirti qualcosa che va al di là del mondo, le parole mi sfuggono; se tu fossi qui, oh se solo fossi qui, mia Susie, non avremmo affatto bisogno di parlare, gli occhi sussurrerebbero per noi, e, la tua mano salda nella mia, non dovremmo ricorrere alle parole» (Emily Dickinson (1830-1886) alla cognata, e amante, Susan Gilbert).

• «Non cercate di avere l’ultima parola; lasciate che una discussione proceda in maniera civile: ricordate, “la parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro”! (N.B. Se siete un gentiluomo, e il vostro corrispondente è una signora, questa regola è superflua: non avrete mai l’ultima parola!)» (Lewis Carroll, Piccola guida all’arte di scrivere lettere, 1888).

• «Le cartoline venivano spedite tramite la posta fin dai suoi albori (le tavolette rinvenute a Vindolanda sono presumibilmente gli esempi più antichi), ma raggiunsero il culmine del loro successo ai primi del Novecento, quando la cartolina illustrata divenne sinonimo delle vacanze al mare di massa (secondo le stime del British Postal Museum and Archive, tra il 1902 e il 1914 vennero inviate fino a 800 milioni di cartoline ogni anno). Il contenuto delle cartoline non è mai cambiato: come vorrei che fossi qui anche tu, il tempo è così così, saluta tutti a casa. Tuttavia chiunque poteva leggerle, erano a disposizione di qualunque ficcanaso a ogni tappa del loro viaggio; quando si desiderava inviare un messaggio più intimo, questo veniva scritto in codice, e trasmesso inclinando il francobollo. Un francobollo incollato a testa in giù nell’angolo in alto a sinistra voleva dire “Ti amo”. Un francobollo incollato nello stesso punto ma diritto significava: “Il mio cuore appartiene a un altro”. E così via, a seconda delle varie combinazioni possibili. Ruotato di 90°, nell’angolo in alto a destra = “Mi ami?”. Al centro della busta, in alto = “Sì”. Al centro della busta, in basso = “No”. Perfettamente allineato, in qualunque posizione = “Arrivederci, amore mio”. A testa in giù, nell’angolo in alto a destra = “Non scrivermi più”. A testa in giù, allineato al cognome = “Sono già impegnato”. Al centro del margine destro = “Scrivimi subito!”. Ruotato di 90°, nell’angolo in alto a sinistra = “Ti odio”. […] L’abitudine di incollare i francobolli secondo certe inclinazioni si è mantenuta ancora oggi nelle situazioni in cui la posta passa attraverso la censura e il controllo da parte di terzi, in particolare in carcere e nelle caserme».

• «Carissimo, sono certa di stare impazzando di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone potessero essere più felici, fin quando è arrivata questa terribile malattia. […] Se qualcuno avesse potuto salvarmi, saresti stato tu…» (da una delle due lettere d’addio lasciate da Virginia Woolf al marito Leonard Woolf il 28 marzo 1941, scritta probabilmente dieci giorni prima di uccidersi).

• «Chiedetevi, amore mio, se non siate oltremodo crudele ad avermi a tal punto circuito, ad avere a tal punto distrutto la mia libertà. Lo confesserete nella Lettera che dovete scrivermi immediatamente, e farete tutto il possibile per consolarmi? Caricatela come una pozione di papaveri per inebriarmi. Scrivete le parole più dolci e baciatele così che possa almeno posare le mie labbra dove sono state le Vostre. Quanto a me, io non so come esprimere la mia devozione per una figura di tanta bellezza: voglio parole più splendide di splendido, più belle di bello. Quasi vorrei che fossimo farfalle e che non vivessimo che tre giorni d’estate. E tre simili giorni con voi potrei riempirli con più delizia di quanta ne racchiudano cinquanta anni ordinari…» (il poeta inglese John Keats (1795-1821) alla fidanzata Fanny Brawne, nel luglio 1819).

• «Ho dato un’occhiata a quanto scrivevi in Capricorno, ed eccolo lì il mondo, il grande anonimo, depersonalizzato, maledetto mondo. Invece di rivestire ogni donna d’un volto differente, provi piacere nel ridurre tutte le donne a una fessura, a una uniformità biologica…» (Anaïs Nin (1903-1977) a Henry Miller, nel marzo 1937).

• Acronimi in lingua inglese più o meno audaci, usati soprattutto nella corrispondenza tra soldati e fidanzate in tempo di guerra: SWALK (Sealed With A Loving Kiss) = «Sigillato con un bacio d’amore»; NORWICH (Nickers Off Ready When I Come Home) = «Pronta senza mutande quando vengo a casa»; ITALY (I Trust And Love You) = «Ho fiducia in te e ti amo»; FRANCE (Friendship Remains And Never Can End) = «L’amicizia rimane e non può mai finire»; BURMA (Be Undressed Ready My Angel) = «Fatti trovare pronta senza vestiti angelo mio»; MALAYA (My Ardent Lips Await Your Arrival) = «Le mie labbra ardenti attendono il tuo ritorno»; CHINA (Come Home I’m Naked Already) = «Vieni a casa sono già nuda»; VENICE (Very Excited Now I Caress Everywhere) = «Molto eccitata ora mi accarezzo dappertutto»; EGYPT (Eager to Grab Your Pretty Tits) = «Desideroso di stringere le tue belle tette».

Notizie tratte da: S. Garfield, L’arte perduta di scrivere le lettere (e come ritrovarla), Ponte alle Grazie 2013, € 16,80.