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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

APPUNTAMENTO COL MIO FANTASMA


Pubblichiamo gli appunti che Virginia Woolf prese durante in viaggio in Italia e Grecia, nell’aprile-maggio del 1932 in compagnia del marito Leonard, dell’artista e critico d’arte Roger Fry e di sua sorella Margery. Partono da Victoria Station, sostano a Venezia, a Casa Petrarca sul Canal Grande, e poi si imbarcano per Atene sul piroscafo Tevere. Appunti «frettolosi e saltuari», mai pubblicati dalla Woolf e inediti in italiano, ora raccolti - con altri presi durante i viaggi degli ultimi 10 anni della sua vita - in Ultimi viaggi in Europa (trad. di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Mattioli 1885, pagg. 126, €15.90, in libreria da martedì)

Lunedì 18 aprile
A bordo del piroscafo Tevere, al largo della costa italiana. Sì, ma ho dimenticato di tirar fuori il calamaio e dunque la magnificenza di queste prime parole è affidata alla penna d’oro.
Ciò che penso – ma questa deve proprio essere la registrazione di "ciò che penso"? – la verità è che non ho ragionato sulla forma da dare a questo libro – ne deve avere una – o nessuna? L’altra mattina a Victoria Station ero aguzza come un coltello, sbocciavo come un fiore: mi sono compiaciuta di essere una scrittrice. Qualunque cosa vedessi, era molto complessa. C’era una sposa vestita nei colori della Union Jack, con una borsa nuova di zecca. E Helen Anrep1, i petali di una rosa sbocciata umidi di rugiada, è venuta a salutare: e poi quello Yak di Margery Fry2: è ottusa come una quercia e si veste di pelle bianca grezza, stretta da una fascia – lo Yak mi ha detto «se tu avessi portato un cane me ne sarei andata». Ho intuito un certo antagonismo. Si è trasformato semplicemente in un diffuso complesso d’inferiorità. Io sono uno di quegli esseri superiori, così crede lei, che esistono in virtù dei loro petali bianchi; sbaraglio questa sua punta di nervosismo andandola a trovare da sola nella sua carrozza, mentre L. e R. giocano a scacchi e si insegnano a vicenda il greco. R. è gentile, intenso, premuroso, infinitamente serio e grida gustosi ordini in italiano ai gondolieri, che sono tutti lì ad attendere gli stranieri che non arrivano, perché quest’anno sul canale dietro a San Marco non viaggia nessuno. Prendiamo una gondola per un’ora, e così attraversiamo il canale verso San Giorgio e vediamo il prodigioso abside e osserviamo; e saliamo; e ci lisciamo le suole sul selciato rosso giallo rosato che risplende come il mare, intarsiato di fiori: e la luce veneziana è pallida e viva: i palazzi, dice R., sono graziosi impostori, esempi di intarsi e falegnameria. Quel vecchio imbroglione di Ruskin – eravamo in quel momento in piazza San Marco a guardare Adamo ed Eva. Ci sono interi capitoli su questo3. Era un uomo troppo virtuoso, ed è un gran peccato. Tutto doveva essere squadrato – persino questi palazzi così pedanti dovevano essere moralmente Buoni – cosa che non sono – oh no – sono semplicemente lastre di pietra colorata. Cena al Cavallo – quello vecchio è fallito. Fuori dopo lo spettacolo, nel teatro dove erano appese perline di vetro verde, sopra l’acqua nera e mossa, così silenziosa, così ondeggiante: e la povera gente ci ha chiesto di non pagare il traghetto4 più del dovuto; e poi c’erano i cactus; e un uomo che cantava al mattino; io e R. siamo andati alla chiesa di Tiepolo5; e la funzione affollata e carica d’oro, con i preti che tessevano una ragnatela come sotto un incantesimo, e i ragazzini e la riverenza e la laicità e l’antichità ci hanno fatto dire «Questa è la magia che vogliamo»: e che magia sia, almeno finché se ne sta al suo posto. Poi di nuovo a bordo della nostra nave spaziosa, ordinata e ben equipaggiata, che adesso sta abbandonando le coste italiane.
Giovedì 21 aprile
Atene Hotel Majestic
Sì, ma che cosa posso dire del Partenone? – che mi è venuto incontro il mio stesso fantasma, la ragazza di 23 anni con tutta la vita davanti6: questo; e poi che è più compatto e meraviglioso e solido di quanto ricordassi. Le colonne gialle – come posso dire? Raccolte, raggruppate e radiose, là sulle rocce, sullo sfondo del cielo più intenso, di un vivace azzurro ghiaccio e poi nero cenere; folle che sciamavano come supplici (in realtà erano alunni greci). Il Tempio come una nave, così vibrante, teso, pronto a navigare, anche se è rimasto immobile per tutti questi secoli. È più grande di quanto ricordassi e più robusto, nell’insieme. Forse è svanita una parte del sentimentalismo giovanile, che tende a rendere le cose malinconiche. Adesso che ho 50 anni (l’ho scritto chiaro nel registro dell’albergo – la cara Yak invece si è astenuta – altra prova del suo complesso d’inferiorità), che ho i capelli grigi e sono avanti con gli anni credo di amare ciò che è vitale e florido e sfida la morte. Poi, sotto, c’è Atene, simile a gusci d’uova sbriciolati, e ci sono le colline ricoperte di ciuffi di cespugli grigioneri. Ho detto: «I tedeschi saltano fuori come oggetti nascosti in una tasca». Quel che è certo è che quando è passata la tempesta sono usciti, gente onesta, sudata e per nulla attraente, che reclama, così ci è parso, una fetta più grossa dell’Acropoli di qualunque altra nazione. Abbiamo gironzolato; Roger ha detto «assolutamente magnifico, assolutamente magnifico». La mattina, al museo, ha detto: «Non hanno bisogno di comporre. Quello è a forma di stella marina. Guardate quanto sono sottili le linee: ed è privo di sfondo». C’erano – e ci sono ancora – miriadi di vasi greci neri e rossi o rossi e neri, ciascuno in grado di ispirare un volume a parte, e davanti a questi si trascinano bambini stanchi, madri stanche, di tanto in tanto una domestica o un impiegato consunti e cenciosi, che hanno speso tutti i loro averi per comprare il biglietto e poi torneranno a casa, e la faranno da padroni in qualche stradina di periferia perché «sì, nell’aprile del 1932 sono stato ad Atene»: ne è testimone il busto di marmo bianchissimo, una copia da Fidia, sulla mensola del caminetto. Tutto questo, in un museo, è deprimente.
Atene mi piace verso le 19, quando le strade sono frenetiche e chiassose, percorse in fretta da tutte quelle donne vestite di nero dal volto bianco, coperte di scialli, e da uomini piccoli e azzimati con il bastone e le primule della sera nelle città del sud, ari lalagos7. Stasera Margery, sentendo il chiacchiericcio all’Averov8, ha detto che l’intonazione è simile a quella inglese. È prodiga di osservazioni ragionevoli e dotte – ad esempio sul fatto che Cristo non viene mai ritratto mentre viene lavato; che i preti ricevono forcine gratis, dato che hanno i capelli lunghi e potrebbero cedere alla tentazione di portare accessori più effeminati. L’ha detto stamattina nel giardino dove c’erano tutti quei fiori, ranuncoli come conchiglie increspate rosa e violette, iris neri punteggiati di bianco che si agitavano. L’altro commento l’ha fatto nella chiesa bizantina a Dafni9. «Oh, assolutamente magnifico – meglio di quanto potessi immaginare» ha detto Roger posando bastone, cappello, sacca e due o tre guide e dizionari su una colonna. Poi abbiamo tutti guardato intensamente il Cristo bianco e vendicativo, più grande di un incubo, realizzato in mosaico blu e bianco sul soffitto. Quella Chiesa ci è piaciuta moltissimo. È alta e vigorosa, piena di archi, e il mosaico è in gran parte scrostato. E fuori dalla porta si vedono i ciuffi verdi degli alberi, ognuno dei quali pare sormontato da un’onda, al tempo stesso nebulosa e illuminata dal sole – tanto sono lucenti e scure le onde verdi dei boschi in cui abbiamo camminato. La chiesa è custodita da una famiglia greca – donne e uomini di mezza età in abiti da città (gli uomini) con soprabiti e anelli d’oro, che leggono il giornale alle 15.30. In Inghilterra non ho mai visto una tale oziosità, una tale assenza di scopo. Alla fine la più giovane, una donna con scialle, pantofole e abito di cotone, se ne va a spasso, si inerpica su un muro diroccato e comincia a raccogliere fiori gialli – non c’è nient’altro da fare. Perciò abbiamo proseguito, scendendo verso il mare – e com’è incantevole il modo in cui il candido lembo del mare sfiora la costa selvaggia; con le colline alle spalle e le verdi pianure ed Eleusi in lontananza, e rocce verdi e rosse, e un piroscafo in partenza. ...
Lunedì 2 maggio
Allora, mancano cinque minuti alle dieci: ma dov’è che sto scrivendo con pennino e inchiostro? Non nel mio studio. Nella gola, o valle, di Delfi, sotto un albero di ulivo, seduta sulla terra secca ricoperta di margherite bianche. L. sta leggendo la sua grammatica greca accanto a me; ecco che passa una farfalla papilionide, credo. Di fronte a me si ergono strati di roccia grigia, ciascuno dei quali provvisto di ulivi e piccoli cespugli, e se guardo più in là, vedo la gigantesca montagna spoglia, grigia e nera, e poi il cielo perfettamente liscio. E così torno alla terra rovente, e le mosche sono sedute nei cuori gialli delle margherite. Si sente il tintinnio delle campane delle capre; un vecchio si è allontanato a dorso di mulo – siamo esattamente ai piedi della collina sulla quale sorge Delfi, e Roger e Margery stanno facendo qualche schizzo. E sull’ulivo si è appena posata una cavalletta.
E così cerco di rendere visibile questa scenetta che presto se ne andrà per sempre. E forse cerco anche di evitare il demone che afferma, senza che ce ne sia poi bisogno, forse, che occorrerebbe scrivere di come siamo giunti a Corinto, Nauplia, Micene, a Mistra e a Tripoli, e di come poi siamo tornati ad Atene, dove il sole cuoceva, e io ho indossato un abito di seta, e siamo andati a visitare giardini e poi siamo ripartiti alle 7 di sabato mattina per Delfi. Dovrei scrivere di tutti questi posti, e magari cercare anche di dare corpo ad alcune di queste sequenze fluttuanti che mi passano per la mente mentre siamo in macchina. I tratti in auto sono stati molto lunghi; Oh, il vento e il sole, e come si sono gonfiate le labbra, e scurite e spaccate e si è pelato il naso, e le guance si sono infiammate e seccate come se fossi stata seduta senza parafiamma davanti a un fuoco rovente. Qualunque vanità è ormai scomparsa da tempo. Sto diventando una contadina. Il che mi ricorda l’impeto di gioia con il quale ho accolto una donna relativamente ben vestita nel salone dell’Hotel Majestic, che beveva in compagnia di un anziano e loquace gentiluomo greco il pomeriggio in cui siamo tornati, riarsi, polverosi e arrossati, dorati, neri, scuri, grinzosi (le rughe di M. sono ormai marcate quanto le strisce sul manto di una bestia selvatica). Dopo quattro o cinque giorni in mezzo ai contadini, con la loro bellezza solida e manifesta, l’angolosità e la finezza della civiltà scombussolano i nervi più reconditi – note di violino.
La Grecia, quindi, per tornare a questo paese, è una terra così antica che è come passeggiare sui prati lunari. La vita si ritira (a dispetto di quell’asino). I greci di oggi, queste persone stanche morte che percorrono senza sosta le strade, non sanno più parlare il greco. È troppo spoglio, troppo pietroso e ripido per loro. Li abbiamo sempre incrociati sugli alti passi di montagna, che camminavano lenti accanto ai loro asinelli, così piccoli, dalla vita difficile, sempre in marcia alla ricerca di qualche erba, di qualche radice, sconfitti dalle grandi distanze, incapaci di fare altro se non affondare i tacchi nelle rocce. In Inghilterra una solitudine come quella che sperimentano loro, sotto il sole, sotto la neve, questo dipendere solamente da se stessi per vestirsi e mangiare nello splendore dei giorni estivi è semplicemente impensabile. I secoli non hanno lasciato alcuna traccia. Non ci sono il XVIII, il XVI, il XV secolo, tutti disposti a strati come in Inghilterra – non c’è niente di niente tra loro e il 300 a.C.
In qualche modo il 300 a.C. ha conquistato la Grecia e la tiene ancora in pugno. Per questo è una terra lunare; o meglio, è illuminata da un sole morto. Se trovi una baia, è deserta; e lo stesso accade con le colline e le vallate; neanche una villa o una sala da tè, né un tugurio da nessuna parte; niente cavi elettrici, niente chiese e quasi nessun cimitero.
Ma per essere precisi, Nauplia e Micene si trovano in una pianura ricca, dolce e prospera, c’è anche qualche paesino qua e là, dove ci fermiamo e R. e M. tirano fuori le scatole dei colori, perché lì c’è l’atmosfera giusta per dipingere – dove c’è una casa; perché ci sono pioppi tremuli e cipressi e tetti che si stagliano contro pianure e montagne.
Ciò che accade a questo punto (abbiamo fatto una passeggiata, inoltrandoci nella valle che si snoda sempre più nell’interno, abbiamo lasciato delle foglie a segnare il sentiero, che tornando indietro abbiamo perso, abbiamo sbucciato un bastone per me e ora eccoci qui, dopo esserci spostati, a causa del sole più alto in cielo, sotto l’ulivo; e ho anche tolto le scarpe per avere un po’ di refrigerio) ciò che accade a questo punto è che gli abitanti dei paesi si presentano e iniziano, come se fossero nostri amici, a parlare delle cose in generale. Ieri sera, sulla collina sopra Delfi, alla luce del crepuscolo, con Itea che iniziava a lampeggiare e brillare sul mare, una nave nella baia e le montagne innevate che si stagliavano sullo sfondo, mentre il primo piano era ancora di un verde intenso e di un marrone rossastro, con capre e pecore che pascolavano, e le auto che sfilavano lente sulla strada tortuosa più sotto, ieri sera mentre eravamo seduti qui, la ragazza delle capre è arrivata a grandi balzi come per radunare le pecore, ma voleva soltanto parlare con noi. Altro che passo furtivo; nessuna risatina, né timidezza. Si è parata davanti a noi, come se fosse normale. M. l’ha fatta guardare attraverso il suo binocolo, prima dal verso giusto, poi al rovescio. Dopo la ragazza ci ha insegnato i nomi greci delle cose. Skotos sic è il suo cappotto spesso e grezzo, ouranos è il cielo, un fiore l’ha chiamato lullulin (?) sic, il mio orologio orologe sic, l’auto – l’ho dimenticato. Rideva forte. Era piccola e scura, e da vecchia sarà una donna scaltra e robusta; libera, amichevole. Poi è arrivato suo fratello, ha diciotto anni, è svelto, furbo, con gli occhi piccoli. Ho accettato il suo bastone e la bottiglia d’acqua. Poi c’è stato il problema delle monete. All’inizio lei non voleva prendere né quelle né il fazzoletto di M.: poi ci ha seguiti, mettendosi la mano sul petto e facendo domande, lamentandosi, ma di che cosa? L. le ha offerto nuovamente il suo dono. Lei l’ha accettato. Ma non con gioia. E il ragazzo ci ha portato una grossa casseruola di yaot yogurt. E così siamo tornati a casa, mentre le luci elettriche cominciavano ad accendersi; e dopo cena loro hanno danzato nella taverna, ragazzi che, meticolosamente, si inchinavano e piroettavano e mettevano i piedi nel posto giusto, in camicia e pantaloni.
Siamo a metà salita. Mi viene in mente che la dorsale vista dalla cima è come una pera sbucciata malamente, quando sui bordi rimangono tracce di scorza.
E poi che Lawrence scrive i suoi libri come io scrivo questo diario, a spizzichi e bocconi: e non ha la forza di abbandonarsi a un unico impeto: non ci sono saldature, né forma – forse l’effetto di una finta antiletterarietà.
E poi che le virtù maschili non sono mai fini a se stesse, ma vanno pagate. Questo aggiunge un altro elemento alla loro psicologia – devono essere pagate: con che cosa? La questione può essere sublimata, ma la sostanza rimane. (Sto pensando ancora al libro).
© Brani scelti da da The Diary of Virginia Woolf, edited by Anne Olivier Bell assisted by Andrew McNeillie, traduzione e cura di F. Cosi e A. Repossi
1 Helen Maitland (1885-1965) aveva sposato nel 1917 il mosaicista russo Boris von Anrep; nel 1925 entrò a far parte del gruppo di Bloomsbury, dove conobbe Roger Fry, per il quale lasciò il marito. 2 Margery Fry (1874-1958), sorella dell’artista Roger, fu una delle prime donne magistrato del Regno Unito. Il soprannome "Yak" nacque in questa occasione. 3 Adamo ed Eva e la Caduta dell’uomo sono intarsiati sulla colonna di Palazzo Ducale all’angolo tra la Piazzetta e il Molo: Nel suo Le pietre di Venezia, volume II, capitolo VIII, Ruskin chiama questo punto "l’angolo del fico". 4 In italiano nel testo. 5 Probabilmente si tratta della vicina chiesa dei Gesuati, alle Zattere. 6 Nell’autunno del 1906 Virginia si era recata in Grecia con Vanessa, Thoby, Adrian e l’amica Violet Dickinson. 7 In greco nell’originale, significa ciarliero, loquace. 8 L’Averov, nella grande arteria cittadina Odós Stadíou, era uno dei migliori ristoranti di Atene. 9 Si tratta del monastero di Daphni o Daphnion, a 11 km da Atene, che ha una chiesa costruita nell’XI secolo decorata con mosaici.