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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

TE LO DO IO IL CANADA


Cinquant’anni, moglie e due figlie di 6 e 3 anni, una laurea in legge, un lavoro ben retribuito da dirigente d’azienda, una casa di proprietà con un mutuo trentennale di 300 mila euro. Questo ero io un anno fa. Un tenore di vita che, in questi tempi bui, si potrebbe definire agiato. Nonostante questo, nell’estate del 2012, sono emigrato in Canada.
Per milioni di persone emigrare è una cosa seria, molto seria. Una questione di vita o di morte, una scelta disperata, il tentativo di scampare alla fame, a un regime oppressivo, al machete o al kalashnikov di un vicino fanatico. Qualche privilegiato emigra per una cattedra universitaria, per un laboratorio più attrezzato o perché fa almeno 20 goal a campionato. C’è chi emigra perché l’erba del vicino è sempre più verde, per vivere in un clima tropicale o temperato, o per portare la parola di Dio a chi non l’aveva sentita prima e stava bene lo stesso.
LA NOSTALGIA
Mia moglie Teresa è canadese, è venuta nel Bel Paese nel 2001 per seguire le tracce della sua annacquata italianità (per metà è tedesca, per un quarto gallese, ma i bisnonni materni erano abruzzesi di Ortona). A Milano sbarcava il lunario con l’insegnamento dell’inglese, ma ha incontrato me e il suo anno sabbatico è durato più di due lustri. Sarah e Kate, che sono nate al Buzzi, erano già bilingui prima che ci trasferissimo qui.
Teresa ama l’Italia, le macchine in doppia fila, le code in posta, il ferragosto in autostrada, ma alla fine la nostalgia per il suo Paese di origine ha avuto la meglio: la saudade canadese, a differenza di quella brasiliana, è ancora poco studiata, ma provoca sintomi inequivocabili come la comparsa improvvisa di un tatuaggio a forma di foglia d’acero sulla caviglia, la celebrazione in solitaria del Thanksgiving Day, soppesando tacchini nel reparto pollame dell’Esselunga e le levatacce notturne per seguire i playoff della National Hockey League.
Teresa ha improvvisamente manifestato tutti questi segni e quella di tornare a casa è diventata una scelta per lei obbligata. Per noi, obbligata, anche se mi piace pensare che non sono emigrato per necessità, o inseguendo un sogno, ma in parte per dare continuità al mio progetto di famiglia, in parte per curiosità, in parte perché pensavo di poterne affrontare il costo esistenziale. Senza troppi, pregiudizi, credo. Senza troppe aspettative, credo.
Più probabilmente si tratta di una vena di follia ereditaria: la prima volta che sono emigrato, avevo un anno e lasciavo la Tunisia in braccio a mio padre, venticinquenne italiano di seconda generazione, impiegato di banca, che si imbarcava per Torino via Genova, con mia madre in attesa del secondo figlio e in tasca una lettera di raccomandazione (quando si dice del familismo amorale degli italiani...) per andare a fare i turni di notte in fabbrica alla Michelin.
Insomma, sono uno dei 30 milioni di italiani che dall’Unità ad oggi hanno lasciato il Bel Paese per andare a vivere all’estero. Sono in buona compagnia: oggi siamo in 4 milioni e mezzo ad essere iscritti al Registro dei residenti italiani all’estero, per metà rimasti in Europa, il 40% in Nord e Sud America, il restante 10% tra Africa, Asia e Australia.
Certo, siamo emigranti molto diversi da quelli che sbarcavano a Ellis Island con una valigia di cartone legata con lo spago. Le etichette appiccicate a questa nuova emigrazione lasciano il tempo che trovano: cervelli in fuga, camerieri di complemento, braccia da esportazione, diversamente italiani. Scelgo per me la più onnicomprensiva, forse la più scialba: persone che hanno fatto una scelta.
UNA MICRO-AZIENDA
In ultima analisi, non sono partito per il Canada con una valigia di cartone, né con un vagone di lingotti d’oro. Avevo una casa di proprietà con un mutuo, ho una casa di proprietà con un mutuo anche qui. Avevo un buon lavoro ben retribuito, per venire qui abbiamo creato, prima di partire, una micro-azienda che importa prodotti alimentari italiani (che fantasia, eh?), una garage company che dopo tre anni di attività mi assicura lo stratosferico stipendio di uno schiavo di Mc Donald’s. Teresa lavora in una winery a un’ora di macchina da casa. Uno stipendio dignitoso, ma nulla di più.
Ma torniamo a noi, anzi a me. All’estate del 2012, quando mi imbarco a Linate con gli ultimi sette scatoloni pieni di giacche, scarpe, camicie, libri. Teresa e le bambine sono già da un paio di settimane a Kelowna, una cittadina di centocinquantamila abitanti a quattro ore di macchina da Vancouver. Io sto per raggiungerle.

STRANIERO 1 SU 5. MA BISOGNA ADATTARSI –

L’immigrazione e le sue politiche hanno un’importanza cruciale nella società canadese e nel suo modello di sviluppo. Inevitabile in un Paese grande come un continente, dove 7 milioni di abitanti sui 35 milioni sono nati fuori dai confini federali, dove ci sono 34 diversi gruppi etnici con almeno 100 mila individui e 10 di questi gruppi superano il milione di unità. È così da sempre: due secoli dopo l’inizio della colonizzazione francese e britannica furono i lealisti scampati alla rivoluzione americana, gli irlandesi affamati dalla Grande Carestia di Patate e gli highlanders approdati in Nova Scotia a dare vita ad una nuova ondata migratoria anglofona. Sei anni dopo l’Unità d’Italia, nel 1867, Ontario, Quebec, New Brunswick e Nova Scotia formano il nucleo iniziale del Canada, in veloce espansione da est a ovest sulla scia della costruzione della linea ferroviaria transcontinentale. Fatto il Canada, bisognava fare i canadesi e il parlamento federale si mise a cercarli anche al di fuori dei confini: pagando 10 dollari di costi amministrativi, qualsiasi maschio maggiorenne e ogni donna capo-famiglia poteva diventare proprietario di 65 ettari di terra da coltivare. Gratis. Con altri 10 dollari, si poteva ottenere un appezzamento confinante delle stesse dimensioni, indispensabile per raggiungere la massa critica necessaria a rendere profittevole la coltivazione. Furono così distribuiti quasi 500 mila km quadrati di territorio ma il boom doveva ancora venire, perché per legge non si poteva acquisire la terra entro un raggio di 30 km dalla linea ferroviaria della Canadian Pacific Railway: non una grande comodità per chi cercasse un mercato per i propri prodotti. La costruzione della linea transcontinentale canadese fu un’epopea straordinaria, con il tipico contorno di politici corrotti e industriali dalla mazzetta facile, di aiuti di Stato e di protezionismo economico per neutralizzare la concorrenza americana.
LA FERROVIA
Senza trascurare le polemiche sul tracciato, le consulenze per localizzare i valichi di montagna e l’opposizione dei Piedi Neri, tutt’altro che inclini a far passare i treni nelle loro riserve. Insomma, l’odissea della Tav in formato colossal, con 9000 immigrati cinesi impegnati nelle scene di massa: pagati la metà dei lavoratori autoctoni, svolgevano i lavori più pericolosi, maneggiando la dinamite per scavare le gallerie nelle montagne. La ferrovia fu realizzata in 4 anni, costò una somma pari al miliardo e 200 milioni di dollari canadesi di oggi, oltre a 100 mila km quadrati di terra ceduti in proprietà alla compagnia ferroviaria (a che servono i Bot quando puoi regalare l’equivalente di un terzo dell’Italia a un fornitore?), con 20 anni di esenzione dall’Imu dell’epoca. Fu il primo ministro Wilfried Laurier, liberale e cattolico, a ridimensionare i privilegi delle compagnie ferroviarie e a lanciare un programma di reclutamento di immigrati europei per popolare le Grandi Praterie canadesi, con tanto di manifesti e slogan come «The last best west». Un sacchetto di semi di Red Fife, il primo frumento mai coltivato in Canada, un biglietto gratuito di treno e migliaia di europei (tedeschi, ucraini, italiani) diventarono contadini proprietari terrieri. Questa ondata migratoria ebbe il suo picco (più di 400 mila immigrati) nel 1912, per po esaurirsi nel trentennio successivo per effetto delle due Guerre e della Grande Depressione. L’ondata migratoria in corso è iniziata a fine anni ’50, e ha portato alla ribalta le «minoranze visibili» provenienti daIndia, sud-est asiatico e, ora, Cina.Negli ultimi 10 anni il Canada ha accolto in media 250 mila immigrati all’anno e ipolitici di tutti gli schieramenti hanno fatto a gara per mantenere inalterato, o incrementare, il flusso di immigrati. Il liberale Paul Martin, primo ministro tra il 2003 e il 2006, aveva proposto di aumentare di 20 mila unità l’anno il numero programmato di immigrati per sopperire alla mancanza di lavoratori qualificati e contenere gli effetti dell’invecchiamento della popolazione, ma perse le elezioni. Il suo successore, Stephen Harper, conservatore, attribuisce al suo governo, in carica, il merito di aver accolto più immigrati di qualsiasi altro governo. Sulla stessa lunghezza d’onda si sono trovati i centri di ricerca delle maggiori istituzioni del Paese: nel 1991, ad esempio, l’Economic Council for Canada, organo consultivo del governo federale canadese, aveva suggerito di dare impulso ulteriore all’immigrazione per portare la popolazione a 100 milioni di abitanti, mentre uno studio della Royal Bank of Canada nel 2005 proponeva di aumentare del 30% il tasso di immigrazione sino a 400 mila unità all’anno per sostenere la crescita economica.
Da qualche tempo, però, si stanno levando anche voci critiche sull’incremento dei flussi migratori, come quella del Fraser Institute, «think-tank» conservatore, secondo cui le tasse pagate dagli immigrati arrivati in Canada tra il 1987 e il 2004, sarebbero pari al 57% delle tasse pagate in media dai cittadini canadesi, col risultato di creare un disavanzo di 23 miliardi di dollari all’anno tra quanto il governo investe per gli immigrati e quanto gli immigrati pagano in tasse al governo. Vero è, però, che le politiche dell’immigrazione riguardano non solo la quantità, ma anche la qualità dei flussi migratori: ilCanada è stato il primo Paese al mondo, quasi cinquant’anni fa, a introdurre un sistema a punti per regolare l’immigrazione. L’idea era quella di creare una società multiculturale, attraendo in Canada le persone con i requisiti necessari ad un avvenire personale prospero e per questo capaci di contribuire allo sviluppo dell’economia del Paese. Il primo ministro Pierre Trudeau, liberale, fu l’artefice di questa rivoluzione, anche se è fondato il sospetto che abbia abbracciato il multiculturalismo per catalizzare i voti della popolazione «naturalizzata», come antidoto contro il nazionalismo e il predominio delle «due solitudini» del Paese, l’anima francese e quella inglese. Nella stessa direzione andavano il favore per l’espansione della comunità italiana in Canada, tendenzialmente liberale, o l’allargamento della possibilità per i nuovi canadesi di sponsorizzare i congiunti di qualsiasi età nei Paesi d’origine. Attualmente il sistema a punti distingue tra lavoratori e professionisti qualificati da una parte, e imprenditori e investitori, dall’altra. Alla prima categoria servono 67 punti su 100 perimmigrare legalmente, ai secondi ne bastano 35. I punti sono attribuiti in funzione dell’età (10 punti, il massimo, viene attribuito tra i 21 e i 49 anni), dell’istruzione (con un massimo di 25 punti per chi ha un dottorato post-universitario), della conoscenzacertificata da terzidella lingua inglese e/o francese (24 punti) e delle esperienze di lavoro (altri 21 punti) in una delle professioni indicate nell’elenco elaborato dal governo.
Nella lista in vigore prima del 2013 c’era spazio, tra gli altri, per chef e cuochi, elettricisti, idraulici, gruisti, architetti, psicologi, farmacisti, infermieri, dentisti e igienisti dentali. Dal maggio di quest’anno, la parte del leone la fanno gli ingegneri: gestionali, civili, meccanici, minerari, petroliferi, geologici, chimici, aerospaziali e informatici. Poi ci sono gli oceanografi, i programmatori informatici e gli sviluppatori di media interattivi, gli analisti finanziari, i fisioterapisti, gli ispettori per la sanità e la sicurezza sul lavoro, i tecnici di laboratorio e radiologi. Dieci puntivanno a chi ha già un’offerta di lavoro inCanada e altri 10 si possono ottenere se si è adattabili (ovvero se si ha famiglia in Canada o si ha un coniuge che ha famiglia, ha studiato o lavorato in Canada nel passato).
IL PARADOSSO
Anche il sistema a punti comincia però ad essere messo in discussione perché non sembra più capace di risolvere l’equazione «benessere dell’immigrato qualificato-sviluppo dell’economia» che ne costituiva la premessa: l’80% degli immigrati tra il 2000 e il 2007 aveva la laurea (contro lamediadel 25%dei cittadini nati in Canada), ma evidenzia un tasso di disoccupazione nei primi 5 anni dall’ingresso nel Paese maggiore di quello dei laureati nati in Canada (15% contro il 3,5%) e un reddito pari al 67% degliomologhi «born in Canada», con uno squilibrio quantificato tra i 2 e i 3 miliardi di dollari all’anno. Solo il 60% degli immigrati che entrano in Canada come lavoratori qualificati trova poi un’occupazione qualificata: il fenomeno dei tassisti laureati in medicina è riscontrabile anche nel Paese della Foglia d’Acero.
Ma questo non è l’unico paradosso: quando il Canada ha spostato il baricentro del sistema dell’immigrazione dal ricongiungimento famigliare a quello della ricerca dei lavoratori qualificati, ha finito per abbassare la retribuzione di mercato per i lavori che richiedono la laurea e innalzare quella per i lavoratori meno qualificati. Non manca chi sostiene che il difetto del sistema sia che sono i burocrati a Ottawa a decidere di quali lavoratori ha bisogno il Canada e non le imprese.
Anche nella patria del multiculturalismo, però, basta sostituire il cognome anglosassone di chi manda un curriculum a un’azienda con un cognome indiano o cinese per dimezzare la percentuale di chiamata al primo colloquio di lavoro, come ha dimostrato una ricerca dell’università di Toronto. Il Canada ha l’undicesima economia al mondo, cresce del 2% all’anno da un decennio, è transitata indenne attraverso la peggiore recessione dal ’29, è uno dei 14 al mondo con la tripla A, ha un debito pubblico sostenibile (85% del Pil) e un sistema bancario solido. È ancora un Paese enorme con una densità ridottissima, mail 75% dei canadesi vive entro 160 km dal confine con gli Usa e l’afflusso di immigrati tende a concentrarsi nelle grandi città, come Toronto, Montreal e Vancouver, determinando un sovraccarico della domanda di servizi che mettono a dura prova le infrastrutture cittadine.
Anche per questo i Conservatori al governo stanno pensando di introdurre dal 2014 un nuovo sistema di immigrazione basato sulla «manifestazione di interesse » da parte del richiedente. I richiedenti verranno valutati e inseriti in una graduatoria che tiene conto del livello di istruzione, delle esperienze lavorative, della conoscenza della lingua. Imprese, governo federale e Province potranno attingere da questa graduatoria. Questo dovrebbe permettere di accelerare la tempistica della procedura d’immigrazione e consentire all’immigrato di avere un lavoro compatibile con la propria istruzione ed esperienza professionale già all’arrivo. Si ipotizza anche un maggiore ricorso ai permessi di lavoro temporanei, l’azzeramento delle liste di attesa e una riduzione programmata della quota di immigrazione legata ai ricongiungimenti famigliari.
L’opinione pubblica più liberal e i nuovi canadesi contestano questo orientamento perché, facendo leva sulla conoscenza dell’inglese, tende a penalizzare l’immigrazione da Paesi emergenti come Cina, Russia, India e Brasile rispetto a quella proveniente da Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. Contestano l’azzeramento delle liste d’attesa, perché antepone l’efficienza all’equità, e il ruolo dei datori di lavoro nella scelta degli immigrati da ammettere nel Paese, perché privilegia le logiche da selezione del personale su quelle della costruzione di una comunità nazionale. L’ipotesi dei super visti di lavoro al posto delle residenza a tempo indeterminato e la limitazione dei casi di ricongiungimento famigliare (oggi sono il 25% delle immigrazioni complessive, mentre il 62% ha motivi economici e il 13% riguarda i rifugiati politici) fa prevalere la transitorietà sull’inclusione e, di fatto, indurrebbe gli imprenditori a preferire i lavoratori stranieri temporanei ai canadesi, grazie ai salari più bassi. Anche in Canada il tema dell’immigrazione legale (quella illegale oscilla tra le 35 e le 120mila unità, un ventesimo di quella italiana) tocca tutti gli aspetti: lavoro, sanità, pensioni, casa, scuola, università. Il dibattito, insomma, continua, e la società bussa alla porta della politica per avere soluzioni che preservino il sogno canadese.