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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

SULLA SPIAGGIA MISTICA DI FRIEDRICH IL PIÙ TORMENTATO DEI MESSAGGERI DI DIO


Di notte, sulla riva del mare, si aggira solo una figura vestita di scuro — sperduta nell’immensità grigia del cielo che lo sovrasta. La riga nitida dell’orizzonte divide l’acqua e l’aria. La sabbia chiara fa risaltare la sagoma dell’uomo. Che è minuscola: la sua testa non sfiora nemmeno l’orizzonte. Il contrasto fra le dimensioni non potrebbe essere più forte. Non c’è nessun raccordo tra primo piano e sfondo, tra figura e paesaggio: l’uomo e la natura sono incommensurabili. Il mare è uno specchio livido su cui volteggiano virgole bianche: i gabbiani. Il quadro fa ascoltare il silenzio di una spiaggia nordica deserta, rotto solo dal bercio degli uccelli. Le nuvole sembrano generarsi da sé, avanzando verso di noi. Incombono, brumose come fumo. Occupano i tre quarti della superficie pittorica. Niente è più difficile che dipingere le nuvole. Esse sono immateriali, informi. Quando Goethe gli chiese di illustrare le teorie meteorologiche di uno scienziato sull’origine delle nuvole, Friedrich rifiutò. Le nuvole per lui non erano materia di studio scientifico, ma metafisico: segni arcani del trascendente.
Il quadro è di una nudità ascetica, identica a quella dello studio sulla riva dell’Elba, a Dresda, in cui fu dipinto: Friedrich vi teneva solo il cavalletto. Non una seggiola né un album, nemmeno la scatola dei colori. Niente doveva disturbare la sua concentrazione. Preparava con cura le sue tele, riempiva i quaderni di disegni meticolosi dal vero — alberi con tronchi e fogliame, scogliere, montagne. Ma il quadro doveva nella sua mente, come un ricordo e una visione: perché il compito del pittore non è la fedele rappresentazione della realtà davanti a lui, ma il riflesso di questa dentro di lui, nella sua anima. Solo allora poteva dipingere.
Massima sobrietà nella selezione degli elementi pittorici e del colore, con la tavolozza arpeggiata sulle sfumature e sulle armonie del grigio. Il monaco, le nuvole e il mare. Nessuna cornice guida lo sguardo dello spettatore o aiuta a dirigerlo. Non un albero, una colonna, una quinta laterale qualunque — come imponeva la tradizione della pittura di paesaggio e la grammatica della visione. Con audacia, Friedrich eliminò il superfluo: rappresentò il vuoto e si avventurò verso l’astrazione pura. Le composizioni per bande orizzontali di Rothko sono state spesso paragonate a questo quadro. L’unico elemento verticale di un’immagine costruita sull’orizzontalità è il viandante sulla spiaggia. Ci volta le spalle, costringendo lo spettatore a identificarsi con lui — a guardare ciò che lui guarda. Indossa una tonaca. È un monaco. Ha le sembianze del pittore stesso. L’artista è un messaggero di Dio, l’arte una religione. I quadri devono far vedere l’invisibile.
Il monaco sulla riva del mare trasmette la vertigine dell’infinito. Il rapimento davanti all’assolutamente grande. Insomma, l’esperienza estetica del sublime. Che è anche smarrimento, sconfinata solitudine. Friedrich lo concepì come primo capitolo di una storia. Nel secondo, Abbazia nel querceto, raffigurava il proprio funerale. Minuscoli monaci neri accompagnano il confratello morto (il pittore) alla sepoltura: verso un rudere gotico, in una foresta scheletrita della Pomerania svedese, sulla costa del mar Baltico. Dunque il Monaco è anche una meditazione sulla morte — sul passaggio dal finito all’eterno. La spiaggia è un limite, l’orlo del mondo. Come la riva dell’Acheronte. In una prima versione, Friedrich aveva dipinto due navi che veleggiavano all’orizzonte. Nella seconda metà della sua vita, e fino alla morte, avrebbe dipinto spesso velieri. Vascelli reali e fantasmatici, veicoli di viaggi reali e simbolici — verso l’altrove, l’ignoto, l’aldilà. Qui, invece, li ricoprì di pittura, cancellandoli. Nulla deve frapporsi fra il monaco e l’infinito. Il monaco è dunque il pittore stesso, ogni spettatore, ma anche un’anima sul punto di varcare il confine — e scoprire il mistero dell’universo.
Gli scrittori, i pittori, i musicisti e i filosofi romantici — ospiti provvisori e a disagio nel mondo — erano ossessionati dalla morte. Leggevano i Canti di Ossian e i versi di Novalis; la nostalgia dell’infinito li induceva talvolta al suicidio o alla follia. Nel 1808-10, Friedrich condivideva le loro aspirazioni e le loro angosce. Malinconico dall’indole «strana, tetra e dura», in gioventù seminava nei propri quadri tombe, cippi, croci, civette, cimiteri. Ma non vedeva la morte come annientamento. Credeva in Cristo, in Dio, nella resurrezione. Per vivere in eterno, la morte era necessaria: non una fine, ma un passaggio. Il monaco è solo nel mondo. La ragione e la conoscenza non bastano a spiegarlo. Nel suo cammino non troverà soccorso né salvezza. Eppure deve continuare a cercare.
Brentano, von Arnim, Kleist e Goethe ammirarono l’atmosfera e la lugubre bellezza del quadro, ma rimasero anche atterriti e sgomenti da questa «pittura del nulla». Così chi lo comprese davvero fu un ragazzino di 15 anni. Non bisogna meravigliarsi. L’adolescenza aspira all’assoluto. Il ragazzino convinse il padre ad acquistarlo. Il padre era Federico Guglielmo III di Prussia, e il ragazzino il principe ereditario: sarebbe diventato sovrano a sua volta. Il regale apprezzamento cambiò la vita di Friedrich. Il malinconico misantropo fece parte della comunità, partecipò con slancio (da artista, non da soldato) alle guerre di liberazione contro Napoleone, sognò pace, libertà e democrazia. L’entusiasmo svanì presto, come il successo, la gloria e la ricchezza. Il mistico Friedrich ricevette dai contemporanei critiche sempre più perfide, venne dimenticato e morì indigente e incompreso. Ma aveva già divorziato dal suo tempo. La malinconia virò in depressione e mania di persecuzione. Continuò a dipingere cieli, velieri, naufragi — la terribilità della natura e la fragilità dell’uomo e delle sue illusioni. Friedrich si sapeva minuscolo, irrilevante come un granello di sabbia. Eppure capace di pensare l’infinito, e di rappresentarlo. L’aveva detto in questo quadro, dipinto nella maturità dei suoi trentacinque anni. L’uomo sta in piedi sulla riva del mare, ritto, quasi eroico — un orgoglioso punto esclamativo nell’immensità del cosmo.