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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

IL PIU’ GRANDE AMMIRAGLIO DI TUTTI I TEMPI


Ho sentito pronunciare il nome dell’ammiraglio per la prima volta nel 1982 da un ispettore di polizia corrotto. Era un dispotico funzionario di Sumatra. La città di Padang, dove spadroneggiava l’ispettore, è abbarbicata a un estuario acquitrinoso sul versante dell’isola che dà sull’Oceano Indiano. Mi ero fermato alla stazione di polizia per chiedere una cartina geografica, non sembrandomi che vi fosse alcuna logica apparente nelle strade di Padang, ed essendo stanco di vagare senza scopo alla ricerca di un albergo. L’ispettore, bendisposto e cordiale nei confronti di chiunque potesse assicurargli un guadagno, indicò un edificio di tre piani in cemento più su, lungo la strada. «Tutti gli stranieri alloggiano lì. C’è l’aria condizionata» disse. Poi fece un cenno con la mano a un sottoposto, e apparve un vassoio con due tazze di caffè. Esaurimmo i preliminari: di dove ero originario (Detroit; l’ispettore ne aveva sentito parlare); Ronald Reagan (lo ammirava); il mio lavoro («Ah, giornalista »). Il suo viso si oscurò per un momento. Poi passò ai fatti: «Ora le mostro qualcosa». Il sottoposto portò un fagotto di tela e lo appoggiò sulla scrivania. L’ispettore lo disfece, allentando con cautela tutte le pieghe del tessuto fino a tirarne fuori una piccola tazza. Sulla sottile membrana di ceramica, quasi trasparente, era dipinto con uno smalto vitreo azzurro-blu chiaro un drago rampante. La sua bellezza, fragile e pura, era straordinaria. «Dinastia Ming» disse l’ispettore. «È un relitto di una nave naufragata nello stretto di Malacca. Può darsi fosse una delle navi di Cheng Ho, che combatté vicino Sumatra». Non avevo idea di chi stesse parlando. L’ispettore fece un sorriso e scrisse «100 US $» su un pezzetto di carta. Pagai senza tirare sul prezzo. Alcune settimane dopo, a Singapore, appresi che «Cheng Ho» era il nome dialettale di Zheng He, un ammiraglio cinese del XV secolo. «Si sentono raccontare molte cose su di lui, ma non si sa mai a cosa credere» mi riferì un antiquario. «Dicono che fosse un eunuco». La tazza col drago divenne il mio talismano. La lasciai presso un’amica a San Francisco e le facevo visita ogni volta che andavo a trovare lei. Tutto avrebbe potuto concludersi semplicemente così, con un talismano e un’ossessione occasionale, se non fosse stato per la mia amicizia con uno studioso di Berkeley che per i suoi meriti era un personaggio quasi leggendario: Frederic Wakeman Jr. (1937-2006), tra i più stimati e illustri storici ed esperti sinologhi della sua generazione. Fred mi aiutò a svelare i misteri della tazza col drago, e insieme a quelli una saga straordinaria, quasi dimenticata per mezzo millennio.
Poche storie di sopravvivenza — e di trionfo finale — sono più degne di essere conosciute di quella di Ma He, un bambino di dieci anni travolto dai cavalieri Ming che seicento anni fa invasero le pendici dell’Himalaya. Fu scaraventato a terra e castrato, prassi consueta per i giovani prigionieri alla fine del XIV secolo. Quel bambino, reso orfano e mutilato in un’atroce mattina del 1382, nel 1405 sarebbe diventato il secondo uomo più potente della nazione più grande e progredita del mondo, l’ammiraglio supremo dei mari occidentali che sembra balzare fuori dal rotolo di pergamena Ming fotocopiata che si trova sulla scrivania dove sto scrivendo. Quel bambino sarebbe diventato il più grande navigatore in cinquemila anni di storia cinese.
Eppure, per nascita, avrebbe dovuto occuparsi di tutto fuorché di mari, e non era neppure cinese. Ma He era nato nella valle centrale della provincia di Yunnan situata a oltre 1830 metri sopra il livello del mare, e a oltre due mesi di viaggio dal porto più vicino. Era figlio di un ufficiale di basso grado dell’impero mongolo, un musulmano dell’Asia centrale rimasto ucciso dalle truppe Ming durante l’invasione. Nell’ordine naturale delle cose, in Cina era un
yi ren, un barbaro. Ma He, barbaro ed eunuco, fu istruito per diventare domestico al seguito di Zhu Di, principe di Yan, quarto figlio di Zhu Yuanzhang, fondatore della dinastia Ming. Possiamo soltanto provare a indovinare quali debbano essere state le pietre miliari dell’ascesa spettacolare di Ma He nel corso dei quindici anni seguenti. Ciò che sappiamo con certezza è che Ma He intorno ai venticinque anni divenne il capo dello staff del principe, e de facto il governatore di Nanchino, la capitale Ming, e uno stratega importante nelle guerre che consolidarono la conquista del Regno di Mezzo da parte della dinastia. Nel 1402 l’ambizioso Zhu Di espropriò il trono al nipote, il secondo reggente Ming, e si autoproclamò Yongle, “l’imperatore eternamente trionfante”. In pratica, ogni monumento che oggi associamo all’Epoca gloriosa della Cina — dal massiccio prolungamento della Grande Muraglia, alle migliaia di templi riccamente adornati, all’immensa Città Proibita eretta nella nuova capitale imperiale Pechino — è opera dell’imperatore Yongle.
Il massimo dell’ambizione di Zhu Di, tuttavia, fu raggiunto dominando la più imponente flotta della storia. Per quarantaquattro secoli la Cina era stata un impero terrestre, delimitato e alimentato dai suoi possenti fiumi. I loro spartiacque furono uniti nel Gran Canale di 1770 chilometri, iniziato nel 500 a. C. e ingrandito in maniera fenomenale da Zhu Di. Alla fine del XV secolo, la Cina si trovò una rete di 120.700 chilometri di corsi d’acqua navigabili. In contrapposizione a ciò, la caratteristica distintiva della marina cinese nel 1402 era un variegato assortimento di imbarcazioni da carico a basso pescaggio, che ben di rado si avventurava più lontano di un miglio o due dalle coste amiche. La storia a questo punto prende una piega imprevista: tra le prime decisioni ufficiali dell’imperatore Yongle c’è una commessa per la costruzione di 3500 navi. Ma He, uomo del tutto privo di esperienza in mare, è chiamato a vigilare sulla costruzione della flotta e in seguito a comandarla. Nel 1404 è ribattezzato Zheng He, dal nome del cavallo da guerra preferito di Zhu Di.
Le navi Ming sono incredibilmente più larghe di qualsiasi altra il mondo abbia mai visto. La conquista europea dei mari del pianeta iniziò intorno al 1490, quando Vasco de Gama salpò in direzione dell’India e Cristoforo Colombo per le Americhe. Tutte le loro sette navi sarebbero entrate benissimo sul ponte principale di 7400 metri quadrati della nave ammiraglia di Zheng He. E gli equipaggi europei di 260 persone avrebbero rappresentato soltanto l’uno per cento dei trentamila marinai di Zheng He. Queste cifre sbalorditive, tramandate nel corso dei secoli, furono a lungo considerate solo una leggenda. Poi, in un pomeriggio primaverile del 1962, sotto un cielo coperto, alcuni operai che stavano dragando una trincea allagata sul lungofiume di Nanchino urtarono con le loro pale un pezzo di legno sotterrato lungo quasi undici metri. Si trattava della barra di un timone, affondato nel fango accanto ai resti in disfacimento di un timone la cui superficie arriva a coprire quarantadue metri quadrati, grande a sufficienza da consentire di manovrare una nave delle dimensioni di una portaerei del XX secolo. Solo che risaliva a seicento anni prima.
Il 10 ottobre 1405 la flotta segue la corrente dello Yangtze verso il mare. Secondo il calendario cinese è il primo giorno della Luna del Crisantemo del terzo anno di regno dell’Imperatore Eternamente Trionfante, sovrano di Da Ming, la Dinastia della Grande Luce. Ogni timoniere controlla la propria bussola — un’invenzione cinese, utilizzata per la prima volta nella storia come strumento per la navigazione proprio in questo viaggio — e fissa la rotta verso sud, fino allo stretto di Singapore, per poi virare a ovest nell’Oceano Indiano. Nei trent’anni successivi la flotta da guerra Ming percorse metà globo terrestre nel corso di sette epici viaggi, costruendo una rete di avamposti commerciali e diplomatici che andava dall’odierno Vietnam all’Africa orientale. Sebbene in Cina la storia di Zheng sia stata dimenticata per secoli, egli è stato una presenza quasi divina nel sudest asiatico e oltre. A Giava e nella Penisola Malese mi hanno mostrato strani templi a lui dedicati, nei quali Zheng è raffigurato a uno stesso tempo come un venerato imam musulmano e come un saggio buddista. In remoti villaggi nella giungla lungo il confine tra Somalia e Kenya, alcuni uomini di una tribù africana dagli occhi a mandorla mi hanno detto di essere i discendenti dei marinai di quella flotta che avevano fatto naufragio. Si diceva che Zheng fosse stato alto due metri e tredici, e che la circonferenza della sua vita fosse arrivata al metro e mezzo. Come mi aveva anticipato l’antiquario di Singapore al quale avevo fatto vedere la mia tazza, era difficile capire in che cosa credere.
Soltanto la prova incontestabile di quel gigantesco timone mi ha indotto a proseguire le mie ricerche fino al 2003, quando mi sono imbattuto in un saggio accademico redatto un decennio prima da Fred Wakeman. Avevo “conosciuto” Fred Wakeman nel giugno 1989, quando mi telefonò al Kowloon Hotel di Hong Kong. Da molti mesi ero incaricato di coprire le notizie del movimento democratico cinese per il San Francisco Chronicle.
La maggior parte dei giornalisti in quella tumultuosa primavera rimase bloccata a Pechino. A maggio, invece, io mi ero messo in viaggio per riferire dell’impatto che il movimento stava avendo al di fuori della capitale. Nelle settimane antecedenti e seguenti al giorno in cui l’esercito fece irruzione in Piazza Tiananmen, il 4 giugno, spedii i miei articoli da una mezza dozzina di province diverse. Il 10 giugno la Gong An (la polizia di sicurezza dello stato) mi arrestò in una cittadina sul delta del Fiume delle Perle. E fui espulso dal paese. Il telefono squillò intorno all’una di notte, non molto dopo essermi registrato in albergo. «Frank? Sono Fred Wakeman». Voleva dettagli su quello che avevo visto. Voleva la mia opinione in proposito, e sapere che idea mi fossi fatto sulla direzione imboccata dalla Cina. «Tu sei lì, Frank» mi disse. «Tu sei il nostro uomo sul posto». Fred Wakeman, così sapevo, aveva occupato la carismatica cattedra del famoso Centro di studi cinesi di Berkeley. Era stato molto influente durante e dietro le quinte dei negoziati degli Stati Uniti con Pechino degli anni Settanta, aveva dato inizio a ricerche e scambi tecnologici che avevano rivestito un ruolo cruciale nello sviluppo economico della Cina. Fu un po’ come se mi avesse telefonato Einstein per avere una mia opinione sulla relatività. Non mi venne in mente di chiedere a Fred notizie sul mio ammiraglio del XV secolo. Del resto, era risaputo che Fred si occupava della Cina del XIX e del XX secolo. Poi, un giorno, su un sito web di Singapore, trovai una versione ridotta del saggio accademico da lui letto a Washington D. C. alla Convenzione del 1992 in qualità di presidente dell’Associazione storica americana. L’argomento della sua dissertazione era Zheng He. Le osservazioni che Fred fece ai suoi colleghi storici offrivano una rigorosa cronistoria dei viaggi dei Ming. Secondo i suoi calcoli, sulla base di quanto aveva letto consultando tutte le fonti disponibili, nel primo viaggio del 1405 si diressero verso l’India 62 colossali baochuan— “giunche tesoro” — di nove alberi. Ogni nave era lunga più o meno 137 metri e larga nella sua parte più ampia 55. «Un vascello di quelle dimensioni avrebbe potuto trasportare almeno tremila tonnellate, mentre nessuna delle navi di Vasco de Gama superava le trecento», sottolineò Fred, assaporando il paragone, «e ancora nel 1588 nessuna nave mercantile inglese superava le quattrocento tonnellate». Erano scortate da centinaia di «navi per cavalli» a otto alberi, destinate alla cavalleria Ming; da navi silos a sette alberi; da navi per le truppe a sei alberi, e da navi da combattimento a cinque alberi. A bordo di quella immensa città galleggiante, continuò Fred, erano imbarcati «diciassette ambasciatori e vice ambasciatori imperiali eunuchi; 62 ufficiali e ciambellani eunuchi; 95 capi militari; 207 comandanti di brigata e di compagnia; 3 segretari di alto livello del ministero; 2 maestri di cerimonia del dipartimento di stato per i cerimoniali; 5 chiaroveggenti; 128 medici; e 26.803 tra ufficiali, soldati, cuochi, approvvigionatori, segretari e interpreti». Cosa per me di gran lunga più importante, la relazione di Fred descriveva un terribile scontro avvenuto nel 1406 tra le navi da guerra di Zheng e i pirati cantonesi nello stretto di Malacca. I pirati furono sonoramente sconfitti, e la maggior parte delle loro navi cariche di bottino andò a fondo, proprio al largo di Sumatra. La tazza! Il collegamento tra quella battaglia e il naufragio di una nave di pirati razziatori nel 1982 era una questione puramente ipotetica, che si reggeva su scarne informazioni. Ma dopo undici anni di ricerche, per me fu abbastanza. Chiamai immediatamente Fred per ringraziarlo e spiegargli ogni cosa. «Ce ne è voluto di tempo prima che trovassi quel documento!» disse ridendo. Pochi giorni dopo nella mia casella di posta elettronica arrivò da Fred un allegato: i suoi appunti per quella relazione. Erano oltre dieci pagine scritte a spazio uno. La quarantaduesima nota a piè di pagina mi fece conoscere Ma Huan, che si autodefiniva un «semplice boscaiolo» e un amico musulmano di Zheng, in grado di parlare arabo e fungere quindi da interprete per l’ammiraglio. Ma Huan aveva tenuto un diario molto dettagliato negli anni trascorsi a bordo della flotta Ming. E quel diario divenne la mia cartina geografica, la mappa da seguire quando nel 2004 tornai in Cina per un servizio per il National Geographic, e iniziai a ripercorrere, questa volta con informazioni molto più affidabili, i viaggi di Zheng He. Il diario di Ma Huan, intitolato Ying Yai Sheng-lan (“Panoramica generale delle sponde oceaniche”) fu pubblicato nel 1451, alla vigilia della morte del suo autore.
Il diario, come la storia che esso narra, sembrava disperso e si sapeva dell’esistenza teorica di tre sole copie. Un modesto picco di interesse per il diario ci fu dopo la scoperta nel 1962 della barra del timone di Nanchino, quando un esiguo gruppo di studiosi (tra i quali il mentore stesso di Fred a Berkeley, lo storico della Cina Joseph Levenson) iniziò a ricostruire la saga perduta della flotta dell’imperatore Yongle. I ricercatori avevano poche fonti concrete sulle quali fare affidamento. Oltre il 90 per cento dei molti milioni di documenti che un tempo si trovavano custoditi negli archivi Ming di Pechino e Nanchino era andato distrutto per ordine degli imperatori che vennero dopo di lui, quando la dinastia abrogò la politica marittima oceanica di Zhu Di, sposando l’isolazionismo che avrebbe caratterizzato le relazioni estere della Cina per i secoli a venire. La maggior parte delle navi fu data alle fiamme e ai mercanti cinesi si proibì di viaggiare all’estero. Nell’oscurità angosciante di questo vuoto, la pergamena dell’interprete fu come un’esplosione di luce.
Ying Yai Sheng-lanè il resoconto di un testimone diretto della vita quotidiana e delle scoperte della flotta. Ha la grezza schiettezza dell’esperienza concreta, lo stupore della scoperta di un mondo nuovo e spesso esotico e bizzarro, lontano migliaia di miglia dal mondo conosciuto fino ad allora. Ma Huan è divertito dal Siam, l’odierna Thailandia, dove «i mariti sono fieri di offrirci le loro mogli, e considerano l’intimità sessuale con gli stranieri un onore reso alla bellezza delle loro donne». Per quanto riguarda gli uomini, si osserva nella pergamena, «quando raggiungono i vent’anni con un fine coltello si incide loro il prepuzio, come noi faremmo con una cipolla, e vi si inserisce una dozzina di piccole perline. Quando poi la pelle si rimargina, le perline assomigliano a un grappolo di acini che produce un suono tintinnante, considerato vera e propria musica». L’autore del diario svolge ricerche sul commercio delle spezie nella città indiana di Cochin (oggi Kochi), descrive il primo mercato di materie prime al mondo, riporta una storia raccontata dagli ebrei di Cochin su un sant’uomo di nome Moshie che punì il suo popolo perché adorava un vitello d’oro. I mercanti di gioielli di Ceylon raccontano a Ma che i loro rubini sono lacrime cristallizzate del Buddha. E per ordine di Zheng egli prende parte anche all’haj, il pellegrinaggio islamico alla Mecca. Ma Huan parla di uno strano animale africano, alto cinque metri e con un collo lungo tre, e immagina che sia una sorta di qilin, lontano parente del leggendario unicorno (benché sia più simile a una giraffa). Spiega i dieci usi di una noce di cocco, ed elenca gli uccelli, gli animali, le piante di ogni paese che visita. Molto più di un semplice diario, Ying Yai Sheng-lanè un trattato sulla società e la natura di mezzo pianeta nel XV secolo, è il resoconto dettagliato di un’impresa straordinaria: la flotta di Zheng, la più letale in circolazione, avrebbe vigilato assiduamente sui mari per trent’anni, senza conquistare nessuno stato straniero e senza annettere una fetta qualsiasi di territorio. Come diceva il fu Franz Schurmann, altro leggendario sinologo di Berkeley, la visione che stava dietro quell’impresa mastodontica era «un mondo di scambi, più che un mondo di conflitti». Un mondo inimmaginabile, per gli standard dell’imperialismo occidentale che arrivò alla ribalta il secolo dopo.
Ci sono buoni motivi per ritenere che Zheng sapesse che la lotta contro l’isolazionismo era già persa. Dopo aver superato la foce dello Yangtze sulla sua nave ammiraglia, si fermò al largo di Chang Le, un porto nella provincia di Fujian dove nei precedenti viaggi aveva già fatto salire a bordo uomini dell’equipaggio e rifornimenti. Una stele di granito fu eretta in quel porto, incisa per mano dello stesso Zheng, che vi elencò tutti gli approdi della sua flotta, «complessivamente in oltre trenta paesi piccoli e grandi». La stele riportava le avventure condivise da Zheng e dai suoi marinai: le terrificanti ondate sollevate da un uragano; il ruolo che la flotta aveva avuto nel riportare sul suo trono perduto il legittimo re dello Sri Lanka; le zebre, i leoni, i leopardi e gli struzzi portati all’imperatore Yongle in regalo da parte dei sultani delle città-stato africane; e in dettagli grafici molto chiari l’annientamento della flottiglia pirata, che presumibilmente fece andare a fondo nello stretto di Malacca la mia tazza col drago. Intento dichiarato del monumento — l’iscrizione lo diceva chiaramente — era quello di consentire la riscrittura della storia, fissare «gli anni e i mesi dei viaggi » nella pietra, «allo scopo di lasciarne il ricordo imperituro». Si crede che Zheng sia morto nel 1432 o all’inizio del 1433, prima del ritorno della flotta in Cina, e che sia stato sepolto in mare al largo delle coste indiane. Mi sono recato a vedere la stele di Chang Le nel 2004. Dopo sei secoli era ancora leggibile ed esposta con orgoglio in un piccolo museo. Da un certo punto di vista era servita allo scopo.
La storia di Zheng He ha vissuto un recupero di primaria importanza nella nazione che per oltre 500 anni l’aveva messa a tacere. Il bambino che nel 1382 giaceva su una collina di Yunnan, dopo aver perso i genitori ed essere stato mutilato, adesso è considerato un eroico precursore dell’odierna Cina in piena espansione, il presagio stesso della sua ascesa come colosso globalizzante nel 2011. Fred Wakeman, che nella nostra epoca si è tanto adoperato al pari di molti altri studiosi per riabilitare la figura di Zheng, si sarebbe permesso di dissentire. Nutriva seri dubbi, già dieci anni fa, sulle tattiche di esportazione di Pechino all’estero, e sul dispotismo del suo partito unico a livello interno. Non è questo ciò che Fred aveva in mente quando alla fine degli anni Settanta aveva aiutato la Cina a intraprendere il processo di modernizzazione. Come l’ammiraglio eunuco dei mari occidentali, Fred è stato un inguaribile cittadino di un mondo più promettente. Il mondo dell’autentico scambio.
(Traduzione di Anna Bissanti)