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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

LE MANI CHE PARLANO


CHE fare delle mani? In realtà parlano anche se non le muovi. Cosa farne dopo che ti hanno presentato a qualcuno e dunque gli hai dato la mano e invece quello te ne ha date due? Letta, per esempio, quando al Quirinale giurò come capo del governo, strinse la destra di Napolitano con la sua e poi ci mise sopra anche la sinistra.

Ma dove teneva, Napolitano, l’altra mano, quella che Letta non gli aveva rapito? La lasciava penzolare: mano morta si dice, ridotta a cencio, vale a dire muta. Non avrebbe potuto metterla in tasca, certamente, dove la mano va a finire non quando non ha nulla da dire, ma quando ha troppo da dire e tu sei costretto a imprigionarla perché non vuoi far sapere, vuoi marcare le distanze, sei reticente e dunque nascondi qualche cosa. Dino Grandi, quello dell’ordine del giorno contro Mussolini, alla famosa riunione del 25 luglio partecipò con le mani in tasca. Stringeva, si seppe dopo, due bombe ( “a mano” ovviamente).

D’altra parte è sempre con il linguaggio delle mani che si ritrovano gli smarriti, proprio come la nutrice cieca, quella che solo a sentire il nome Ulisse «con le man coperse il volto, e versò calde lagrime, e dolenti». Ebbene «l’amorosa vecchia» lo riconobbe solo quando sentì sotto le dita della sua mano (rieccola) il segno di una ferita di caccia: «Tal cicatrice l’amorosa vecchia conobbe, brancicandola». E come reagisce Ulisse? Le pone una mano sulla bocca per impedirle di svelare la sua identità. Anche Omero dunque fa parlare i suoi eroi con le mani, o meglio fa poesia del linguaggio delle mani.

Non ci riesce invece il New York Times che ha mandato in rete il 30 giugno scorso un video, e su carta un’inchiesta, entrambi affettuosamente pittoreschi, sulle mani parlanti degli italiani, simpatici barbari gesticolanti. E dovevano pensarla così anche gli antropologi che fotografarono i giochi di mano di Vittorio Gassman, alla ricerca dello spirito dei popoli. Proprio come Lombroso isolava la sostanza del criminale italiano nei cervelli in formaldeide, quei suoi discendenti cercavano nelle mani degli italiani la stessa lingua sfrenata di eccitazione e di impazienza, di giocosità e di avidità che Gassman avrebbe magnificamente articolato, qualche anno dopo, nel film Il sorpasso.

Questo io già vedo nella prova d’attore fotografata qui accanto: l’entusiasmo e l’enfasi, la fragilità e la presunzione dell’Italia miracolata dal boom economico.

E se non fosse vero? Siamo sicuri che parlare con le mani è maleducazione? Si sa che nelle corti medievali vennero introdotte le posate per evitare che tutti affondassero le mani nel cibo. Ma la parola non è una coscia di pollo. Forse ci rimproverano, gli avari calvinisti, di mettere di più di quel che serve e dunque ritrovano nella lingua delle nostre mani il barocco delle nostre chiese, la nostra cupola contro la loro guglia. La nostra civiltà è plastica, quella delle statue greche, dell’argilla da modellare, del pensiero costruito con le mani. In Italia la parola è un manufatto.