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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

LA LISTA DI BERGOGLIO - PUNTATA N. 1

Vestiva di bianco. Disse di chiamarsi Francesco. «Bergoglio ne ha salvati molti, più di quanto lui stesso pos­sa ricordare», mi confidò poche ore dopo un suo vecchio amico. Era finito il tempo della dimenticanza.
Non restava che indagare. Raggiungere Buenos Aires e poi da lì risalire lungo il fi­lo dei racconti che portano fino in Uru­guay e in Paraguay, ripercorrendo le stra­de che portavano alla salvezza. E poi cer­care ancora, scovando pezzi di vita strap­pati al boia: il sindacalista comunista, gli ex catechisti, il docente universitario, il magistrato, il giornalista ateo, gli sposi­ni perseguitati perché a una vita agiata preferirono la quotidianità tra i più po­veri, l’esponente politico o il teologo marxista. Alcuni vivono ancora in Ar­gentina, molti non hanno mai smesso di sentirsi in esilio.
Eppure nessuno, a cominciare dall’en­tourage tutt’altro che ristretto delle ami­cizie fidate, proprio nessuno ha voluto in­dicare la pista giusta. Né il nipote, il ge­suita padre José Luis Narvaja, che dirige a Buenos Aires il centro studi Thomas Falk­ner. Né Alicia Oliveira, magistrato e av­vocato che da Bergoglio fu ripetutamente protetta. Né padre Juan Carlos Scannone, considerato il massimo teologo argenti­no vivente, che mi ha raccontato la pro­pria storia rivelando come anche lui scampò alla persecuzione.
«Spiacente, ora tocca a te scoprire il resto della storia». Un atteggiamento sospetto. Come se ci fosse qualcosa da nascondere. Una congiura del silenzio per proteggere la simpatia nell’immagine pubblica di pa­pa Francesco? Niente nomi. Neanche una traccia, né un mozzicone di verità che con­ducesse alla ’lista’ di padre Jorge. «Sono certo che potrà capire», rispondevano da­vanti alle insistenze.
Amano a mano che la ’lista’ si com­poneva di nomi, di riscontri, di te­stimonianze di audacia e scaltrezza da agente segreto, prendeva corpo la ri­sposta a una domanda diventata ossessi­va: «Perché gli amici di padre Jorge han­no voluto tacere, quando invece avrebbe dovuto stargli a cuore la divulgazione di una verità così stupefacente?».
Dall’alto dei suoi ottantuno anni, padre Scannone si limita a rispondere con un ’sì’ a un’ipotesi cervellotica che mi è ba­lenata, ma che per la mia mentalità da cro­nista – assai diversa dalla logica meno im­pulsiva di uno storico – mi sembrava non avere alcun senso.
Glielo chiedo al termine della lunga con­versazione in una saletta appartata nel Collegio di San Miguel, quello che fu il quartier generale delle temerarie opera­zioni clandestine. Abbiamo parlato delle ferite ancora aperte. Delle madri che ogni settimana procedono in una mesta via cru­cis verso Plaza de Mayo, delle nonne a co­noscenza di bambini partoriti nei luridi corridoi delle prigioni e subito adottati da famiglie compromesse con il regime, men­tre i genitori naturali venivano annienta­ti. Abbiamo parlato di un’intera genera­zione archiviata in tredici lettere: desapa­recidos.
Il ’sì’ proferito a fatica dall’anziano teo­logo gesuita risponde a quest’interro­gativo: «Gli amici del papa tacciono per non suffragare il sospetto che, attraverso di essi, Bergoglio stia tentando di mani­polare in suo favore i fatti risalenti agli an­ni della dittatura?».
Del resto per trent’anni l’allora provin­ciale dei gesuiti, poi vescovo ausiliare, in­fine arcivescovo di Buenos Aires e prima­te d’Argentina, aveva scelto il silenzio. An­che questo dice del modo di intendere la libertà che papa Francesco custodisce per sé e desidera per gli altri. A costo di ri­metterci di persona.
A quei silenzi, tuttavia, sono grato. Perché quella che se­gue è la ricostruzione di una ricerca laboriosa, dei salva­ti da Bergoglio. La ’lista’ rimane largamente incom­pleta. La maggior parte di questi mancati desaparecidos s’è costruita un’esistenza la più normale possibile. Il male è stato lasciato fuori dalla porta. Ogni tanto bussa. Come in una terapia di disintossicazione collettiva, per decenni han­no provato a riempire il vuoto di quella follia con la vita, guadagnata giorno per giorno. Chi ringraziando la buona sorte per il sole che ancora sorge davanti ai propri occhi, chi maledicendo il senso di colpa per non essere finito con gli altri in fondo all’Atlantico.
A lungo lo hanno accusato di essersi voltato dall’altra parte, co­dardo e complice. Ma per lui testimoniano le voci della ’lista’, quelle che da queste pagine parlano attraverso gli incontri per­sonali, le interviste, i documenti investigativi e le dichiarazio­ni rese alle commissioni d’inchiesta. Alcuni tra i «salvati da Ber­goglio » hanno chiesto di non menzionare dove e in che modo sono avvenuti i nostri incontri. Altri hanno preferito rimandarci a ritagli di stampa e memorie scritte che abbiamo integrato con i riscontri annotati tra gli atti giudiziari. Per ragioni di privacy che il lettore potrà comprendere, vista la delicatezza dell’argo­mento, di alcune ricostruzioni non riportiamo le modalità, i luoghi e le date in cui ne siamo venuti a conoscenza.
Qualcuno le chiama ’gesta’. Altri, più evangelicamente, «ope­re buone». E sì che ci sarebbe ragione per raccontare di un Ber­goglio sconosciuto, del coraggio di quelle notti incurante dei rastrellamenti. Di giornate trascorse tra breviario e posti di bloc­co, escogitando maniere per evitare i controlli, depistare la polizia, raggirare i gene­rali. Per condurre sani e sal­vi di là del confine i ragazzi destinati agli scannatoi clan­destini.
Un interrogativo resterà però senza una risposta e­sauriente. Quanti erano? Pa­dre Miguel La Civita, uno della ’lista’, afferma di aver visto Bergoglio «aiutare molte persone a lasciare il paese». Non solo preti o se­minaristi. «Al Colegio Máxi­mo si presentavano diversi personaggi, soli o in picco­li gruppi, che stavano qual­che giorno e poi scompari­vano. Diceva: ’Vengono per un ritiro spirituale’. E gli esercizi duravano una settimana. Capii che si trattava di laici dissiden­ti che padre Jorge aiutava a scappare. Come? In qualsiasi mo­do e rischiando sempre tantissimo».
Ciascuno dei beneficiari della protezione di Bergoglio di­ce di aver personalmente assistito al salvataggio di al­meno una ventina di altre persone. Le testimonianze tal­volta riguardano lo stesso periodo di tempo, altre volte invece non sono sovrapponibili proprio perché relative ad anni lon­tani tra loro. A voler azzardare una stima prudenziale, si direbbe che padre Jorge abbia messo al sicuro più di un centinaio di persone. Decine, come vedremo, sono poi i salvati ’preventi­vamente’, cioè messi in guardia dal futuro papa prima che po­tessero finire sequestrati. E a questi si aggiungono quanti furo­no risparmiati ’a loro insaputa’ dal regime, perché, grazie alle manovre di padre Jorge, «scongiurando nuovi arresti si evitò – come ci raccontano in questo libro alcuni dei protagonisti – che nel corso degli interrogatori condotti sotto tortura potes­sero emergere altri nomi, che altrimenti oggi sarebbero anno­verati nello sterminato elenco dei desaparecidos».
Spero vivamente che non risulti offensivo per l’interessato, ma la ’lista’ di Bergoglio sembra davvero più lunga «di quanto lui stesso possa ricordare».

CAPITOLO 1 - L’ARGENTINA SOTTO IL TALLONE DEI MILITARI -
Il potere delle Forze armate in Argentina culminò con il golpe del 24 marzo 1976. Con il pretesto di avviare un «Processo di riorganizzazione nazionale», una giunta mi­litare depose la presidente Isabelita Perón, che era succedu­ta al marito, e con lei i governatori e i vicegovernatori. Il Con­gresso fu sciolto. I membri della Corte suprema rimossi, dal primo all’ultimo.
I militari vinsero la guerra, ma non cercavano la pace. Dichia­rarono lo stato d’assedio abrogando i diritti costituzionali, so­spendendo le attività politiche e di associazione, proibendo i sindacati, sorvegliando i giornali, sequestrando militanti poli­tici, attivisti sociali e guerriglieri. La tortura divenne la regola per ottenere informazioni, applicando il metodo della siste­matica sparizione di massa per generare un clima di terrore. I centri clandestini di detenzione erano, fra l’altro, il motore di un perverso sistema di appropriazione dei neonati partoriti dalle detenute. La giunta era composta dai militari delle tre ar­mi: Videla per l’Esercito, Massera per la Marina e Agosti per l’Ae­ronautica. Si avocò la facoltà di designare il presidente della na­zione tra gli ufficiali non più in servizio attivo e i membri del­la Cal (Comisión de Asesoramiento Legislativo), nel rispetto della regola del ’quarto uomo’, per garantire una separazione fra militari e governo.
Nient’altro che uno specchietto per allodole. Un modo per far digerire anche ai più riluttanti nella comunità internazionale un colpo di stato che rivendicava una ’diversità argentina’ ri­spetto alle brutalità registrate nei paesi vicini. Fino al luglio del ’78 l’esercito impose alla presidenza il generale Videla, che nel 1981 fu rimpiazzato da Viola, cui seguì Galtieri e, nel 1982, Bi­gnone. Volendo nascondere le reali intenzioni, i congiurati non stracciarono la Costituzione. La calpestarono. A parole la car­ta fondamentale restò in vigore. A una condizione: che non fos­se in contrasto con le disposizioni per lo Statuto del Processo di riorganizzazione nazionale. Un controsenso che sulle pri­me non fu colto.
Tutto questo poté avvenire nell’afasia generale che aveva con­tagiato il paese. Una predisposizione al silenzio di massa, maturata dopo anni di insicurezza. «L’intervento dei mi­litari nel 1976 era atteso, se non invocato da almeno una par­te della società, che in essi riponeva la speranza di vedere ri­solte le tensioni e i conflitti sociali che l’incapacità dei prece­denti governi non era riuscita a ricomporre. Benché fosse ne­cessario intervenire in maniera energica, i militari senza dub­bio andarono ben oltre quanto la stessa società si aspettasse», argomenta Marzia Rosti, docente di Storia dell’America Latina presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano nel suo Argentina, edito dal Mulino.
Il colpo di spugna contro la guerriglia ottenne risultati in pochi mesi. La disarticolazione del­le organizzazioni sociali ebbe come conse­guenza la sparizione di almeno 30.000 persone, l’appropriazione di oltre 500 figli di condanna­ti a morte, la detenzione di migliaia di attivisti politici, l’esilio – approssimativamente – di due milioni di persone oltre ai 19.000 fucilati per strada.
Nel 1983 il regime si dissolse. Umiliati dalla scon­fitta nella guerra contro il Regno Unito per la ri­conquista delle isole Falkland/Malvinas, i mili­tari furono messi all’angolo sia dall’opinione pubblica nazionale, che li accusava di aver man­dato al massacro centinaia di giovani soldati, sia da quella internazionale che finalmente seppe di che pasta erano fatti i generali e con quale bar­barie la giunta aveva tenuto in pugno il paese.
Fu così che si cominciò a sussurrare di fosse co­muni, di cimiteri con croci senza nome. Per la pri­ma volta dai tempi dei conquistadores, una parola venuta dal­l’America Latina tornerà tra le pagine più nere della storia: de­saparecidos. All’inizio si parlò di poche centinaia, ma in se­guito alle investigazioni dei parenti degli ’scomparsi’ si è ar­rivati a una stima tutt’oggi considerata attendibile, benché per difetto: 30.000 chupados, ’risucchiati’ nell’abisso di un pote­re assoluto e spietato. Dall’aprile al dicembre 1985, presso la Corte federale di Bue­nos Aires, furono processati i militari di alto rango in quello che venne definito il juicio del siglo, il ’processo del secolo’ che avrebbe dovuto accompagnare la transizione verso la de­mocrazia. L’intero subcontinente per giorni rimase incollato alle pagine dei giornali e dei notiziari di radio e tv. In tutto 900 ore di udienze, 833 testimoni e tre tonnellate di incartamenti portarono alla sentenza del 9 dicembre 1985. «Fu più lieve – ricorda ancora Marzia Rosti – rispetto sia alle richieste del­l’accusa sia alle attese dell’opinione pubblica: all’ergastolo fu­rono condannati solo Videla e Massera. Gran parte degli ar­gentini erano convinti che i militari avrebbero scontato le ri­spettive pene e attese l’avvio dei processi ai militari di rango inferiore, ma la prospettiva di più di mille nuovi procedimenti, oltre a rendere l’idea delle dimensioni della tragedia, generò (fra il 1987 e il 1988) resistenze e tensioni fra i militari di gra­do inferiore, che rivendicarono il proprio ruolo di difensori del­la patria. Il timore di un nuovo golpe mise alla prova la fragi­le democrazia e dimostrò che le Forze armate, abituate a con­trollare le istituzioni dello stato sin dal 1930, non erano usci­te di scena e incutevano ancora timore». Bisognerà approdare quasi al nuovo millennio perché nel Co­no Sur, la regione di sei stati latinoamericani a sud del Tropi­co del Capricorno (Argentina, isole Falkland, Cile, Uruguay, Paraguay, Brasile), si intravedesse un barlume di giustizia ve­ra. Molti processi sono ancora in corso.

LA PASSIONE SECONDO IL CAPITANO ASTIZ -
I cristiani ’non allineati’ entravano automaticamente nel mirino. Contro di essi la giunta militare aveva dispiegato i suoi uomini di punta, dai servizi segreti alle pattuglie para­militari. Segno che Videla e i suoi potevano contare anche su omissioni e complicità all’interno della gerarchia ecclesiasti­ca. La vicenda che qui riportiamo, quella del gruppo di Santa Cruz, mostra bene quale clima e quali pericoli minacciassero le comunità della chiesa argentina dall’esterno e dall’interno. È un esempio terribile dei rischi affrontati dalle persone pro­tette da Bergoglio e dallo stesso provinciale dei gesuiti nello sforzo di sottrarre vite umane alla macchina repressiva. Una pagina buia, l’ennesima, dell’epoca del terrorismo di stato, che il cardinale Bergoglio affronterà nel corso della testimonian­za (che pubblichiamo in Appendice) resa alla magistratura ar­gentina nel 2010. Una spia riuscì, con diabolica abilità, a carpire la fiducia dei familiari dei desaparecidos che si riunivano nella parrocchia di Santa Cruz. Per tutti era Gustavo Niño, l’angelo biondo. Oc­chi azzurri come se ne vedono pochi da quelle parti, faccia da studente ben educato, cresciuto tra casa e chiesa. Raccontava di un fratello chupado anche lui in chissà quale macelleria go­vernativa.
In parrocchia era d’abitudine riferirsi affettuosamente al bel Gu­stavo come al Rubito, il Biondino. Non era raro che sul sagra­to o nel giardino di fianco alla chiesa Niño si soffermasse a chiacchierare con le mamme e con le suore. E queste, insieme alla paura per le sorti dei desaparecidos, condividevano con quel bravo ragazzo l’avversione per gli uomini della giunta mi­litare. Prima di tornarsene a casa, el Rubito le incoraggiava a farsi forza. Infine, le salutava con un abbraccio e un bacetto sulla guancia.
Molto tempo dopo i fedeli di Santa Cruz avrebbero scoperto l’altra faccia del Rubito. La sua non era compassione. Quello era il bacio di Giuda, il segnale convenuto per indicare agli a­genti segreti della Marina le persone da ’risucchiare’.
Il vero nome di Gustavo Niño era Alfredo A­stiz, ufficiale della Marina militare argentina. Tra le sue vittime figurano due suore france­si, Léonie Duquet e Alice Dumont, delitto per il quale Astiz è già stato condannato a Parigi; una delle fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo, Azucena Villaflor; il giornalista e scrit­tore Rodolfo Walsh, una delle voci più luci­de nel denunciare le storture dell’assurdo Pro­cesso di riorganizzazione nazionale.
In una delle sue apparizioni in tribunale, l’ex capitano di fregata si è fatto teatral­mente riprendere mentre leggeva un libro dal titolo Tornare a uccidere. L’ennesima provocazione.
Al tempo della dittatura aveva una mis­sione: ridurre al silenzio quella parte di chiesa che aveva scelto di non genuflet­tersi alle divise dei generali. Qualche mese dopo il golpe del 1976, Astiz riuscì ad accre­ditarsi nel gruppo di Santa Cruz, la bella chie­sa di Buenos Aires che la giunta riteneva un covo di sovversi­vi. La firma di Gustavo Niño figurò addirittura nella petizio­ne in cui si reclamava la libertà di alcuni detenuti che le orga­nizzazioni di diritti umani avevano fatto pubblicare sul quo­tidiano La Nación il 10 dicembre 1977. Era Niño ad accompagnare gli attivisti alle riunioni che si tenevano a Santa Cruz, nel quartiere semicentra­le di San Cristóbal. Del biondo Gustavo si fida­vano a tal punto da affidargli i boy scout della par­rocchia. Una parte recitata con cinica abilità. Il profilo dell’angelo sterminatore è stato efficace­mente riassunto dalla Corte di cassazione di Ro­ma nella sentenza con la quale l’ufficiale argen­tino è stato condannato per la scomparsa di tre emigrati italiani: «Il tenente Astiz, esercitando proprie funzioni di comando nei confronti dei graduati e dei militari sottoposti e di collabora­zione direttiva con ufficiali superiori nel Grupo de Tareas 3.3.2 [’gruppi di lavoro’ era il nome in gergo delle squadre di sequestratori della ditta­tura militare argentina, ndr], concorse con piena consapevolezza nella compartecipazione delit­tuosa del mantenimento della gestione della pri­gione clandestina ove furono segregate le tre vit­time in costanza della loro prigionia». El Rubito ha dato di sé una descrizione piuttosto fedele. Un trucco, anche questo, per giustificarsi di ogni crimine commesso. Come se l’addestramento ri­cevuto lo avesse espropriato della sua coscienza. «Io dico che a me l’Armada ha insegnato a di­struggere. Non mi hanno insegnato a costruire, mi hanno insegnato a distruggere. So come usa­re mine e bombe, so infiltrarmi, so disarmare un’organizzazione, so uccidere. Tutto questo lo so fare bene. Io dico sempre: sono un bruto, ma ho compiuto un solo atto lucido nella mia vita, che fu quello di arruolarmi nell’Arma­da ». C’è del vero. Ma, a rileggere bene, non è difficile intrave­dere la doppiezza di Alfredo-Gustavo. Come se, una volta in­dossata la divisa, fosse stato spogliato della sua umanità. Un automa: così avrebbe voluto passare alla storia.
La messa in scena non ha funzionato. Nonostante le protezioni, le norme sull’immunità fortunatamente soppresse, i tentativi di inquinare i processi, el Rubito non è scampato all’ergasto­lo per ordine del Tribunale di Buenos Aires.
La giustizia italiana ricorda che «la struttura carceraria cri­minale annoverava, infatti, tra gli scopi istituzionali quel­lo – effettivamente realizzato in danno di una rilevante per­centuale dei prigionieri, determinata in ragione del 20% – del­la soppressione in segreto dei sequestrati che i carcerieri aves­sero reputato non recuperabili all’obbedienza del regime dit­tatoriale. L’imputato, peraltro, confidò a una testimone che al­le esecuzioni capitali (mediante lancio da aeromobili in volo da alta quota sull’Oceano Atlantico) si faceva talvolta ricorso anche per necessità di sfollamento, quando il carcere non di­sponeva della capienza necessaria per ricevere nuovi prigio­nieri ».
Alla vigilia di Natale del 1977 la giunta decise che le ’sovver­sive’ di Santa Cruz (si trattava in maggioranza di donne) an­davano eliminate. Erano un cattivo esempio per le altre co­munità cattoliche. Il catto-nazismo di Videla e compagni non poteva permettersi smottamenti. Il doppio gioco di Astiz-Niño era rimasto in piedi per troppo tempo. Da un momento all’altro avrebbe potuto perdere la maschera e soprattutto far capire ai gruppi di attivisti di tutto il paese che il regime aveva infiltra­ti dappertutto. Una volta aveva rischiato più del dovuto. Nella concitata mat­tina del 26 gennaio 1977 il Grupo de Tareas 3.3.2 arrestò Nor­ma Burgos, moglie di un alto dirigente dei Montoneros. La squadra di militari comandata da Astiz rimase nascosta nell’a­bitazione della Burgos per attendere l’arrivo, previsto per il giorno successivo, di María Berger, un’altra leader montonera. Alle 8,30 del mattino Dagmar Hagelin, una ragazza svedese di 17 anni, amica di Norma, passò a casa sua per salutarla. Alta, bionda, occhi azzurri. Quelli del Grupo pensarono si trattas­se della Berger. Appena la diciassettenne entrò in giardino, A­stiz e i suoi le saltarono addosso, armi in pugno. Ma Dagmar reagì d’istinto. Atleta ben allenata, fece uno scatto bruciante e scappò fuori nella via. Astiz e un caporale di nome Peral­ta le corsero dietro. Le gridarono di fermarsi. La volevano vi­va. Per interrogarla, certo. Con i loro metodi. Dagmar Ha­gelin correva più forte della paura. Non aveva niente da na­scondere, ma intuiva cosa le sarebbe capitato se non fosse riuscita a seminarli.
Dagmar guadagnava metri, ma gli ufficiali erano ar­mati. El Rubito la colpì di striscio alla testa e la ra­gazza cadde malamente sul selciato. I militari fer­marono un taxi e gettarono la svedese nel bagagliaio. Dag­mar Hagelin, come riferiranno in seguito alcuni testimoni oculari, sanguinava ma era viva e cosciente. Tentò, con le po­che forze rimaste, di impedire la chiusura del portellone. Fu vista viva all’Esma. Dal marzo 1977 non si hanno più sue notizie.
In seguito a quell’azione, quindi, Astiz cercò di non dare nel­l’occhio. Nel bel mezzo dell’Avvento 1977, il Grupo de Ta­reas 3.3.2 passò all’azione contro la parrocchia di Santa Cruz. Sequestrarono l’intera ’banda’: Azucena Villaflor, E­sther Ballestrino, María Ponce (le tre fondatrici delle Madri di Plaza de Mayo), le suore francesi Alice Dumont e Léonie Duquet, gli attivisti per i diritti umani Angela Auad, Remo Berardo, Horacio Elbert, José Fondevilla, Eduardo Horane, Raquel Bulit e Patricia Oviedo.
Tra l’8 e il 10 dicembre 1977 furono ’risucchiate’ una de­cina di persone collegate alle Madres de Plaza de Mayo. A­zucena Villaflor fu trascinata via mentre si affrettava a rag­giungere l’edicola per comprare un numero della Nación che quel giorno pubblicava l’appello alle istituzioni: «Por una Navidad en paz solo pedimos verdad» («Chiediamo verità per un Natale di pace»).
Durante quell’operazione Astiz continuò a recitare la sua parte nella comunità, abbracciando e baciando le ’sov­versive’ sfuggite alla prima retata. Poi di lui non si seppe più nulla. Il serpente era riuscito nel suo compito. Tanto che il nome di Gustavo Niño figurerà per anni nell’elenco degli scomparsi.
Lisandro Raúl Cubas, un ex detenuto nel carcere clandesti­no all’interno della Scuola superiore di meccanica della Ma­rina (Esma), ha raccontato alla Conadep che «anche nei più acuti momenti di dolore, suor Alice [Dumont, nda], che si trovava nella capucha [una specie di gabbia buia e senza fi­nestre nella quale venivano gettati i detenuti dell’Esma de­stinati all’isolamento, nda], voleva informarsi sulla sorte dei compagni e, colmo dell’ironia, in modo particolare del Bion­dino, che altri non era se non il capitano di fregata Astiz».
A quanto risulta, l’intero gruppo di Santa Cruz fu sterminato. Dopo il macabro campionario di torture, le vittime venne­ro eliminate con un volo della morte. Alla fine del 1977 al­cuni corpi furono ritrovati lungo una spiaggia e seppelliti in tutta fretta con la dicitura N.N. nel cimitero di General Lavalle, trecento chilometri a sud di Buenos Aires, in una sperduta radura nell’entroterra della baia di Samborombón. Anni dopo, cinque vittime saranno identificate e sepolte nel giardino della chiesa.

VITA DA CHUPADO -
All’epoca della dittatura, «X96» era un tecnico della Com­missione nazionale energia atomica. Fu rapito nel 1977 e i boia dell’Esma cercarono di sfruttare le sue conoscenze di fisica per migliorare i metodi di tortura. «X96» ha vissu­to quattro anni da chupado, ’risucchiato’ dalla macchina repressiva. È tra i pochi ad aver potuto raccontare, da vivo, cosa voleva dire essere desaparecido.
Il suo nome da essere umano era Mario Villani. «Dal mo­mento in cui venivi rapito diventavi un desaparecido, smet­tevi cioè di esistere da un giorno all’altro per la tua famiglia, per i tuoi amici e per i tuoi compagni di lavoro».
«Sono stato sequestrato la mattina del 18 novembre 1977. Sono stato detenuto in cinque centri clandestini di deten­zione: il Club atlético, il Banco, l’Olimpo, la División Cua­trerismo de Quilmes e l’Esma», ha raccontato come testi­mone nel processo al generale Guillermo Suárez Mason.
Il copione era già scritto: «Desaparición-tortura-morte. La maggioranza dei desaparecidos trascorrevano giorno e not­te incappucciati, incatenati e con gli occhi bendati in una cella tanto stretta da essere chiamata ’tubo’».
Dal tubo si usciva per andare dal ’chirurgo’. Niente a che fare con l’assistenza sanitaria. Quando si lasciava la ’sala o­peratoria’, in effetti la stanza puzzava di sangue rappreso e di disinfettante. Il ’chirurgo’ era il torturatore. Dopo si fi­niva tra i trasladados, i ’trasferiti’. Una liberazione: il plo­tone di esecuzione avrebbe messo fine al dolore.
«Oltre alla tortura fisica sofferta durante gli interrogatori, la vita nei Centri era una continua tortura psicologica. Il trat­tamento giornaliero – rammenta Villani – era estremamente umiliante. Quando entravi ti assegnavano un codice (il mio era X96) che dovevamo utilizzare anche per chiamarci tra detenuti».
«Verso la fine del 1978 mi trovavo al Garage Olimpo, uno dei centri di detenzione clandestina, e in due occasioni com­parve il generale Suárez Mason. Io lavoravo nel laboratorio di elettronica che mi avevano fatto allestire per riparare gli elettrodomestici che arrivavano dai saccheggi, che loro chia­mavano ’bottino di guerra’, nelle case dei sequestrati. Quan­do Suárez Mason entrò nel laboratorio voleva sapere due co­se. Prima di tutto come localizzare le interferenze televisive che stavano facendo i Montoneros, poi come poteva lui stes­so produrre interferenze simili. Sebbene la risposta fosse abbastanza semplice, gli resi tutto molto complicato, tanto che rinunciò a tutti i progetti. Nel gennaio del 1979 venne deciso di svuotare l’Olimpo ’trasferendo’ circa cento per­sone. Io insieme ad altri otto detenuti fui trasferito al Divi­sió n Cuatrerismo de Quilmes». X96 fu tra i pochi a so­pravvivere a quel genere di ’trasferimento’.
La cosa peggiore per un prigioniero era apprendere che an­che la moglie, una figlia o una sorella erano state arrestate. Molti dei chupados hanno raccontato di essere stati tor­mentati durante gli interrogatori da ufficiali che racconta­vano come poco prima se l’erano spassata violentando le lo­ro congiunte. Le donne non avevano altra scelta: «Non fare storie o ammazziamo tuo marito». Poi, di tanto in tanto, i militari consentivano alle coppie di detenuti di incontrarsi per un colloquio. Ai mariti non servivano troppe domande per capire che era tutto vero. Di solito questo bastava per ot­tenere una qualche forma di collaborazione per scongiura­re altri stupri. Tanto all’Esma ogni sera veniva portata qual­che nuova coppia di innamorati.

LA FABBRICA DEI GENITORI
«Non tagliare il cordone, non tagliarlo!» Non erano lacrime di gioia. E non era il dolore del parto a farla disperare. Il neonato stretto al petto, ancora sporco di sangue. Urlò ancora una volta con tutto il fiato che le era rimasto. «Non portare via il mio bimbo!». Finì come doveva finire. Sara Solarz de Osatinsky lo ha rac­contato in qualità di testimone in uno dei processi ai verti­ci delle Forze armate. Descrisse l’inferno della escuela, e di come i bambini venissero sottratti alle mamme.
La testimonianza di Sara è stata decisiva per poter condan­nare, trent’anni dopo i fatti, l’ufficiale di Marina Jorge Aco­sta, detto ’el Tigre’, e con lui il tenente Alfredo Astiz, l’’an­gelo biondo’ che si era infiltrato tra gli attivisti della par­rocchia di Santa Cruz, a Buenos Aires.
Moglie di un esponente delle Forze armate rivoluzionarie fat­to eliminare dalla giunta, madre di due figli uccisi all’età di 15 e 18 anni, Solarz de Osatinsky era stata sequestrata per strada. Prima di venire gettata in una cella dell’Esma l’ave­vano spogliata e picchiata. Una volta entrati nei centri di tortura, raramente si poteva uscirne vivi. Si calcola che nella sola Esma, il lager simbolo della dittatura, siano entrate circa cinquemila persone. So­lo duecento hanno potuto rivedere la luce del giorno.
«Era come una grande cassa da morto – disse Solarz al pro­cesso, descrivendo l’inferno dell’isolamento femminile –. E­ra tutta di legno. Lo spazio tra il soffitto e il pavimento era tale che eravamo obbligate a stare sdraiate. In mezzo a tut­to questo c’era una ragazza col pancione. Tempo dopo ho saputo che si chiamava Ana Rubel de Castro. Quando die­de alla luce il suo bimbo, la stanza delle partorienti non c’e­ra ancora. Il neonato lo avevano portato via subito. Lei con­tinuava a chiedermi se aveva qualche segno particolare per riconoscerlo quando sarebbe uscita». Sono passati quasi qua­rant’anni. Ana e il suo bambino sono desaparecidos. Lei am­mazzata chissà dove. Il bambino adottato per ordini supe­riori.
Con turpe ironia, i militari soprannominarono la stanza del­le partorienti dell’Esma ’piccola Sarda’. La ’Maternidad Sar­da’, infatti, era il noto ospedale pubblico di Buenos Aires. Le donne in stato di gravidanza venivano deportate nell’E­sma dai centri di detenzione di altri distretti del paese. Sara non era un’ostetrica, ma aiutò quindici sventurate a mette­re al mondo bambini che non avrebbero mai più visto e che non avrebbero mai saputo dei loro veri genitori. «C’erano quattro letti. La prima volta ci andai con Maria Pichona. Vo­leva che le stessi vicina. Si sentiva il rumore delle catene mi­sto al pianto del bimbo appena nato. Quando portarono via il bambino, cominciò a gridare». Non poteva fare altro: «Per­ché non mi lasciano stare con il mio piccino? Perché?».
Grazie a questa testimonianza e all’ostinazione delle Abue­las (le Nonne di Plaza de Mayo), 150 di questi piccoli, per lo più adottati da famiglie di militari senza figli, hanno riac­quistato la loro vera identità. All’appello ne mancano al­meno 400. Victoria Donda Pérez, almeno lei, è riuscita a ricostruire la vicenda della sua vera famiglia. È nata all’Esma, dove i ge­nitori furono torturati e uccisi. La madre fu messa a tace­re dopo il parto, sotto gli occhi di uno zio, membro della polizia segreta, poi finito sotto processo. Prima di essere portata al patibolo, la donna riuscì a bucare i lobi delle o­recchie della neonata e a farci passare un filo blu. Un se­gno di riconoscimento. Victoria venne adottata da una fa­miglia di militari che la ribattezzò con il nome di Analía. La ragazza scoprirà la sua vera identità solo ventisette an­ni dopo, grazie a una testimonianza anonima e alle Non­ne di Plaza de Mayo. «Nella mia storia – spiegò Victoria presenziando al proces­so contro lo zio – ci sono stati momenti dolorosi. Il peggiore è stato quando ho capito di essere figlia di desaparecidos, e che il fratello di mio padre era presente quando torturava­no mia madre». Questa era l’Argentina di Jorge Mario Bergoglio, di­ventato nel 1973 provinciale dei gesuiti. Un labirin­to di specchi deformati nel quale tutti dovevano so­spettare di ciascuno e non sembrava esserci uscita. Un pae­se finito nelle peggiori mani, che proliferava di doppiogio­chisti e carrieristi dell’ultima ora. Il colpo di stato degli uo­mini in grigioverde aveva rimescolato le carte, facendo as­surgere a ruoli di potere figure insignificanti. Ladri, ex ga­leotti, rubagalline e spacconi del sabato sera. Per tanti fu co­me guadagnarsi un condono. L’occasione attesa per con­quistare una certa rispettabilità. Uno di quei momenti nei quali si possono sgombrare le macerie di vite sbagliate. Bi­sognava solo accodarsi al plotone, mai marciare in direzio­ne contraria. Per molti bastò solo cambiarsi d’abito per con­tinuare a rubare, picchiare, stuprare. Una divisa vestì i ba­lordi da uomini di stato. Era da questa gente che bisognava guardarsi. Ma per salvare vite innocenti era con questa gen­te che bisognava avere a che fare.

(1 - continua il 18 dicembre)