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 2013  dicembre 15 Domenica calendario

KEITH, 70 ANNI SPERICOLATI


«A SUO MODO, LA CHITARRA ELETTRICA È STATA FONDAMENTALE PER FARMI ARRIVARE DOVE SONO, O DOVE SONO ARRIVATI GLI STONES. Dove sarei ora senza di lei? Da qualche parte a suonare a un volume terribilmente basso, ancora in attesa di cominciare». Così Keith Richards, l’archetipo della vita spericolata, chitarra degli Stones. Mercoledì compie 70 anni.
Sei d’accordo che, come band i Rolling Stones stiano migliorando di anno In anno?
«Io penso di sì. I Rolling Stones sono strani tipi nel senso che stanno sempre cercando di chiarirsi chi sono, ma in realtà non sono definibili neppure a loro stessi, perché cambiano di continuo. La nostra è un’avventura».
Normalmente succede II contrario, vero?
Non lo so. Penso che nemmeno Duke Ellington o Count Basie lo abbiano fatto, ma se stiamo parlando delle band simili ai Rolling Stones, certo, molti si sono bruciati presto ma non avevano la formazione che abbiamo noi: hanno perso una parte del loro training chissà dove ed ecco perché sono peggiorati.
La band sta per celebrare il suo sesto decennio di vita. L’idea ti fa paura?
«No, non direi. In realtà sono abbastanza soddisfatto: sono qui e faccio quello che voglio fare; non trovo nulla di preoccupante in questo. Non ho nessuna intensione di andare in pensione e questo capita quando si lavora con la gente giusta – ho sempre cercato di essere sicuro di questo – e allora è affascinante. È come quando incidi un disco, non sai mai come andrà a finire: lo stesso capita con i tour. Ora programmiamo la tournée, ci pensiamo e mettiamo insieme le canzoni pensando anche allo spettacolo, ed è un lavoro affascinante. Ci sono centinaia di cose da imparare, le luci, e vieni coinvolto in tante di quelle che si dimenticano ogni volta. E tu vuoi solo andare e suonare e quando arrivi devi preoccuparti del palcoscenico che, sai, sembra essere umido e allora entri in tutti questi dettagli. È interessante, meglio che non far nulla».
Dato che non lo fai per denaro, il rock’n roll è come un droga?
«Io ho sempre fatto questo. Per me c’è una sola droga e io ne sono uscito, il resto è abitudine (ride)».
Se non hai la minima intenzione di andare in pensione, seguirai la vecchia tradizione del blues e delle tournée finché non ti manderanno a casa in una scatola di legno?
«Non vedo perché no: ma per me è un poco troppo presto per pianificare la mia morte. Suonerò quanto più a lungo possibile visto che c’è gente che vuole ancora ascoltarmi. Non voglio smettere prima della fine; quindi forse hai ragione dato che quella di crollare sul palcoscenico sarà veramente il capitolo definitivo. Insomma, non voglio scendere dall’autobus prima di essere arrivato al capolinea».
C’è qualcosa che ti preoccupa nell’invecchiare?
«Suppongo che molta gente forse perda l’entusiasmo per le cose che sta facendo, ma io no. Può darsi che la musica sia qualcosa che ti trasporta mentre se stai facendo un altro lavoro l’interesse magari va scemando. Ma la musica mi affascina, è sempre accaduto e probabilmente accadrà ancora. E voglio sempre migliorare, sono felice di suonare ed è molto piacevole sapere che là fuori ci sono milioni di persone che ne sono entusiaste. Potrei dire che lo faccio perché tutta questa gente vuole vedermi e sentirmi, ma non è vero: è solo parte della verità. Lo faccio perché mi piace come è sempre accaduto e nessuno mi vedrà mai fare una cosa che non voglio fare».
Keith Richards crede nella reincarnazione?
«Già non so nulla della prima nascita. Ho deciso che deciderò quando sarò morto».
Si dice che sei un appassionato di libri. E’vero?
«In generale bisogna essere appassionati lettori, è per questo che pubblicano i libri. Ci sono momenti in cui si ha tempo per uccidere; io invece leggo».
Sono in genere libri di storia? Quali in particolare?
«Tutti. Io voglio in realtà sapere cosa stanno facendo questi bastardi (ride)». Chi è stato il peggiore: Bush, Hitler o Stalin? O sono tutti uguali?
«Tutti i politici sono sostanzialmente gli stessi. Dipende di che colore vogliono dipingersi. Non vedo alcuna differenza tra un politico di oggi o di altri tempi poiché i despota sono una cosa, i tiranni un’altra ancora ma si può ben dire che Stalin ha messo Adolf al secondo posto e che Mao ha probabilmente superato entrambi. È veramente stupefacente come tanta gente sia stata affascinata da individui così mediocri».
Come vanno I tuoi rapporti con Mike in questo periodo? Litigate ancora spesso?
«Sì, come tutti gli amici. Noi discutiamo, litighiamo, insomma, ma di recente molto di rado, e non veniamo mai alle mani. Abbiamo trovato questo modo di lavorare insieme: lo conosco da quando aveva quattro anni, non è sorprendente che ci siano occasionalmente alti e bassi. E quando ci sono i bassi tutti sanno che se si vuoi lavorare insieme bisogna tagliare il basso a un minimo. Mick ed io non pensiamo mai di litigare tranne in rare occasioni. Tu cominci e dici: “ti stai sbagliando”. L’altro risponde: “Cosa significa che sto sbagliando?”. Cose che accadono anche tra fratelli. Ma se abbiamo un diverbio io e Mick tutti si sentono legittimati a parlarne».
Ma il fatto che sia stato nominato baronetto non ti è piaciuto, vero?
«Mi sembra piuttosto comico impiegare il nostro tempo ospiti della Regina dopo aver scritto Street Fighting Man. Ho sempre pensato che Mick disprezzasse questo genere di cose e questo evento mi ha disturbato abbastanza. A parte ciò ho sempre pensato che fosse un premio minore: insomma, avrebbero dovuto farlo nobile, lord almeno».
Dunque non avremo presto un Sir Keith?
«No, non voglio. No lascerei mai la famiglia che mi circonda con un bastone per prendermi una spada».
E che ne pensi di Mick Jagger attore?
«Ho visto una volta Ned Kelly e non molto altro. Penso in realtà che sia un grande attore ma non so. Il cinema è un altro gioco e se lui vuole entrarci, faccia pure. Ma Mick è un dilettante. Mick non sa dirti se un film è stato girato da Hitchcock o da qualcun altro. Non sa proprio niente di film. Ciò non significa che non possa produrne o girarne uno, ma non è il suo ambiente naturale, è la proiezione della sua persona in quanto coraggioso imprenditore, affarista. So quanto bravo sia in questo. Gli piace moltissimo recitare ma non è il suo mestiere: non è uno Schlesinger, non è un Cecil B. Demille, non è un DW Griffith o uno Spielberg. Ci vuol altro per fare quel mestiere».
Però è piuttosto divertente nel suo ruolo di travestito in «Bent», il film del 1997, non trovi?
«Sì, ma anche in Performance (Sadismo, girato nel 1968) è stato molto bravo: ma ha mostrato il suo miglior risultato nel primo, vero? (ride). Mick ha sempre bisogno di qualcosa perché deve sentirsi occupato tutto il tempo, mentre io posso anche non fare nulla. Questa è la differenza principale tra noi: Mick deve sapere a che ora svegliarsi e chiamerà al mattino; io sono felice di svegliarmi e di spegnere il telefono. A me basta quel che so, Mick è uno di quelli che deve andare a ginnastica, ha bisogno di una dieta, mentre io odio le diete. Questa è la dieta sufficiente per me».
Diversamente da lui, tu dal 1992 non hai realizzato un album da solista. Come mai?
«Bisogna trovare il tempo. Ammesso di trovare i compagni, bene, in realtà ho incontrato recentemente i Winos, ma, tu capisci, ho dovuto incontrarne molti e tutti hanno un diverso lavoro: “Vuoi che ci mettiamo insieme tra 18 mesi?” e, cercando di mettere insieme queste cose bisogna trovare lo spazio. È soprattutto un problema di logistica, tutti amerebbero realizzare e io altrettanto. Probabilmente lo farò, mi piacerebbe».
E cosa si può dire di Keith Richards come attore? Riapparirai nel seguito de «I pirati del Caraibi»?
«Per quanto mi riguarda ne ho letto sui giornali ma non posso certo confermare. Anche lo staff sta verificando se l’impresa è realizzabile. Mi piacerebbe, però. Johnny (Depp) è un buon amico: vedi, queste sono le sue scarpe (indica le sue Doc Marten’s verdi) e io sono convinto che lui ora indossi le mie (ride). Ho visto Johnny a Los Angeles, è arrivato il guardaroba e noi abbiamo passato un pomeriggio a vestirci da pirati, cosa che è stata piuttosto divertente».
E cosa è successo quando ti sei accorto che Johnny imitava iI tuo aspetto nel film?
(Ride) «Johnny mi ha telefonato prima che il film uscisse e mi ha detto “Te lo dico prima che salti fuori: ho detto che mi sono ispirato a te”. Penso che abbia fatto un buon lavoro su di me».
Il prezzo del biglietti per i concerti degli Stones non è mai abbordabile.
«Questo non è il mio mestiere. Ma comunque è ciò che il mercato richiede. Il mio mestiere è in quale chiave è Jumpin ‘Jack Flash e dove mettere il ponte in You can’t always get what you want».
Onestamente, tu pagheresti cifre così importanti per vedere uno spettacolo?
«Dipende da chi c’è da sentire. Io l’avrei pagato per Muddy Waters; ma lui allora chiedeva solo 5 dollari. Tra l’altro come noi allora... (ride)».
Nel loro tempo libero The Stones sono pittori, dj in radio, collezionisti di cavalli e attori part time. Come mai tu sei l’unico senza una seconda o terza carriera?
«L’hobby di Charlie (Watts), i cavalli, deriva in fondo dal fatto che sua moglie è sempre stata una cavallerizza e lentamente Charlie ha preso anche lui ad amare i cavalli. Io che faccio? Metto insieme altre band, sto sostanzialmente sulla strada che mi è congeniale, dipingo un poco, leggo una montagna di libri, impiego più tempo possibile con i figli, che stanno crescendo, quando torno a casa. Ma non sento il bisogno di fare altro da dilettante, prima di tutto perché sto facendo cose in cui concentro il massimo di energia, come un raggio laser, e se cerco di diversificare disperdo l’energia. Suonare, registrare, comporre canzoni sono un tale piacere una tale gioia per me, e a parte qualche illustrazione qua e là, so di non essere esperto in nient’altro. Come hobby potrei fare l’idraulico».
L’età è un’esperienza piacevole o suscita timore?
«Insomma, puoi immaginare che io stia osservando questo mondo da un angolo abbastanza unico in cui si trovano Mick, Charlie e pochi altri. Considera che io non ho mai detto “sissignore” a nessuno da quando ho lasciato la scuola.. Era un concetto importante per me: dopo 10 anni di “sissignore” e “scusi signore” era abbastanza e in altre parole sentivo l’urgenza di essere io il mio unico capo. Potrebbe essere solo questa la ragione, ma al contempo viaggio molto e vedo il mondo da diversi punti di vista anche terrificanti. Chi altro è libero di andare? Non ho obblighi con nessuno, ho vissuto pienamente tutte le mie ore, non sono obbligato a far nulla a meno che io non voglia».
Se cadi dalla scala della tua libreria, la gente pensa che sia un incidente legato all’alcool, del genere «È Keith Richards che sta leggendo un libro»…
«Oh, lo so! Queste diverse versioni di chi sarei io mi hanno distrutto e alla fine mi sono detto che se ascolto Mozart anche al mattino ci sarà sempre qualcuno che dice “Lo senti? Lui distrugge ogni cosa”. Per molte persone sono così. Ma nella realtà io sono un osservatore: controllo ogni cosa, ascolto ogni cosa si stia facendo. Essendo un compositore di canzoni che prendono il pubblico, comincio a pensare in termini di storie o situazioni, una frase qui, in un ristorante o sulla strada, e qualcuno non se ne accorgerà ma è una canzone, una sola riga può essere sviluppata in una espressione completa; così puoi andare in giro osservando e esplorando sempre le possibilità che ti si offrono, perché è quello il tuo lavoro», (ride).
Come mai gli Stones non hanno prodotto un singolo n. 1 dal 1978. Era «Miss you». Ti dispiace?
«Questa è l’evoluzione del business dei dischi, quello dell’intrattenimento. Guardando indietro, sono molto felice di aver cominciato a scrivere canzoni negli anni ‘60 quando, come sai, c’erano ancora i 45 giri e dovevi produrre un nuovo singolo ogni 12 settimane. Un meccanismo del genere ti insegnava l’artigianato di questo lavoro. Avevi la pressione di fare uscire un pezzo come Satisfaction e farlo arrivare in testa alle classifiche di tutto il mondo, mentre bussava alla porta Where’s The Follow Up?. Non avevi proprio tempo, dovevi andare come un treno per dare l’ultimo colpo alla Tin Pan Alley (è il termine gergale con cui si definisce l’industria discografica, Ndr) perché dovevi avere quattro o cinque singoli di grande successo all’anno. Con i Beatles usavamo chiamarci dicendo “È pronto il vostro? Ok uscite voi prima perché noi stiamo ancora mixando». Così evitavamo anche di scontrarci direttamente. E allora accadde che io e Mick affinammo la capacità di scrivere canzoni: dovevi guardarti intorno per trovare un soggetto, dovevi riuscire a guardarti attorno con più attenzione che nel passato».
Era facile allora avere successi?
«Io sono felice di essere stato coinvolto in tutto questo e di essere arrivato a un punto in cui quei risultati non erano, non sono, la cosa più importante. Se il successo arriva meglio ma non è quella la ragione per cui una band produce musica. Semmai la domanda è: “nell’insieme quello che stiamo facendo è un buon lavoro?”. Perché sai di realizzare musica che la gente ascolterà per decenni dicendo: “Sì”. Come Otis Redding che sosteneva: “Sì, non c’è nulla di sbagliato in questo disco”. Penso che la buona musica non abbia nulla a che vedere con il tempo, piuttosto con lo spazio».
Anni ‘60 e ‘70, un periodo considerato come l’età dell’oro. Onestamente: sono stati realmente grandi dopotutto?
«Ciascuno pensa alle proprie cose nei termini cronologici che preferisce. Io ragiono in base ai decenni. Ma onestamente, i tardi anni ‘60 e gli anni ‘70 fino a metà o la fine, hanno prodotto cose molto simili. Non ci sono stati grandi cambiamenti allora. Gli anni ‘60 si sono trasformati molto tra l’inizio e la fine. Se tu pensi in cicli di 10 anni e guardi a quanto si è prodotto dici: “Hey ma questo alla fine è tutto uguale». Onestamente il 31 dicembre 1969 non è stato molto diverso dal 1 gennaio 1970, capisci che voglio dire?».