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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

LA GUERRA DI HOLLANDE UNA CAMPAGNA D’AFRICA PER CERCARE IL RISCATTO


HOLLANDE ne fa le spese. Ma tra gli osservatori europei non mancano quelli che, come noi, si meravigliano della severità immeritata, e che pensano a un giusto recupero grazie al più lungo respiro della democrazia rappresentativa. Alla fine del mandato mancano ancora più di tre anni. Nell’attesa della possibile rimonta generale, c’è la singolare approvazione, sia pur non entusiasta, che accompagna l’azione di François l’Africano. Quando il capo dello Stato, giudicato senza carisma, troppo normale, parte in guerra, emergono giudizi positivi.
Frustrati nelle loro ambizioni nazionali forse i suoi concittadini sono investiti da una vampata di nostalgia. Non di brutale stampo neocoloniale. Non si tratta di questo. L’operazione promossa in gennaio nel Mali, e quella cominciata da una settimana nella Repubblica Centrafricana, sono motivate politicamente, sono state richieste da molti paesi africani, che partecipano agli interventi, e hanno avuto l’unanime crisma del Consiglio di Sicurezza. A sollecitare l’orgoglio è l’impressione di un ritrovato ruolo sulla ribalta internazionale della Francia declassata come potenza dalla storia dell’ultimo secolo, come il resto dell’Europa. Umiliata adesso sul piano economico dall’amica e concorrente Germania riunificata, gigante tedesco anche politico ma con caratteristiche svizzere, con saldi principi pacifisti imposti dal passato recente, la Francia pacifica ma non pacifista ricorre senza angoscia al mestiere delle armi per imprese che ritiene giuste. E’ una sua rivalsa. La memoria della più antica nazione del Vecchio continente ha radici profonde: fa rivivere rimpianti e colpe. Più rimpianti che colpe. E’ facile confondersi: è capitato che fossero repressi quelli che gli stessi repressori avevano educato alla rivolta. I francesi hanno spesso ucciso Diderot e Voltaire nelle loro ex colonie che ora soccorrono.
La storia continua zigzagante. Quella recente del generale de Gaulle ha lasciato poche tracce. Ma non tutto è stato cancellato del suo ambizioso passaggio. Per marcare la propria indipendenza il generale era un alleato antiamericano degli Stati Uniti e un interlocutore privilegiato anticomunista della defunta Urss. Oggi anche un presidente socialista, erede di Mitterrand e non di de Gaulle, ma con un Dna nazionale costante, che trasmigra da un campo politico all’altro, sente gli spazi che si aprono nel mondo. C’è nell’aria, quasi palpabile, un ridimensionamento della superpotenza americana, sempre unica ma non più assoluta. E, in particolare in Africa, si avverte la presenza della Cina e dell’India, potenze già emerse e più interessate all’economia, o alla politica attraverso l’economia, e totalmente disinteressate ai problemi umanitari, e ai conflitti spesso interreligiosi che ne sono all’origine. In questo quadro la Francia di Hollande ha uno spazio. L’avrebbe anche l’Europa, se avesse una difesa comune. E interessi simili. Ma la Francia stessa ha rifiutato la prima (già sessant’anni fa affossò l’idea di una Comunità europea di difesa)); in quanto agli interessi, quelli della Polonia e della Lituania sono rivolti a quel che accade a Kiev, non a Bangui. Hollande è quindi un europeo solo.
Pochi giorni fa era di ritorno dal Sudafrica. Con altri presidenti e primi ministri europei, ognuno per conto proprio, aveva partecipato alla commemorazione di Nelson Mandela. E in quell’occasione, a Johannesburg, aveva potuto constatare quanto lui e i colleghi europei fossero insignificanti e inascoltati tra i leader di paesi-continenti, quali gli Stati Uniti, l’India, la Cina, il Brasile. In volo per Parigi, Hollande ha poi fatto un breve scalo a M’Poko, l’aeroporto di Bangui, per incontrare i militari francesi appena arrivati. E là non era più uno dei tanti europei confusi nella folla di autorità. In quelle ore a Bangui e nel resto della Repubblica Centrafricana i cristiani, protestanti e cattolici, erano aggrediti dai musulmani o li aggredivano, e i primi soldati francesi sul posto cercavano di separarli. Quello è il compito della spedizione militare, battezzata” sangaris” (dal nome di una farfalla), nella quale saranno impegnati i milleseicento uomini mandati da Hollande. In Mali dove ci sono ancora i soldati intervenuti in gennaio il compito è di disperdere i jihadisti che stavano impadronendosi del paese. A Bangui il presidente francese non si sentiva più uno fra i tanti, come a Soweto, la township sudafricana. Lì era il protagonista.
Anche Mitterrand, il primo presidente socialista e l’antagonista di de Gaulle, andò a Sarajevo dove sulle alture c’era la Legione straniera, nel pieno della guerra balcanica, ed anche a Beirut nei primi Ottanta quando i paracadutisti francesi (e i marines americani) furono decimati da un attentato terroristico. Si interessò anche al Ruanda, per sostenere i francofoni Hutu, e non fu del tutto immune da colpe per il massacro dei Tutsi, i cui teschi riempirono le chiese cattoliche per anni, a ricordare il genocidio. François Hollande segue l’esempio sconcertando quelli che lo considerano “troppo normale”, timido, esitante, per essere un vero presidente. Nel palazzo dell’Eliseo appare spesso impacciato, Nelle fotografie di Bangui sembra più a suo agio. Lui continua imperterrito nelle iniziative militari che ritiene giuste, che non sono prive di rischi e che gli danno un po’ di popolarità.