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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

MANDAMMO MANGANO DA DELL’UTRI E BERLUSCONI


Bombe, tradimenti e nuovi interlocutori politici. Ovvero il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica secondo Cosa nostra: al secondo giorno d’interrogatorio, Giovanni Brusca parla più distesamente di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, ma anche di Carlo De Benedetti, della “sinistra da indebolire” e della “sinistra che sa”. Al processo sulla trattativa Stato-mafia in trasferta da Palermo a Milano, ieri è stato il pubblico ministero Francesco Del Bene a porre le domande al collaboratore di giustizia già fedelissimo di Totò Riina nella stagione delle stragi (“Ero il suo robottino”).
Le risposte ricostruiscono la caccia ai nuovi referenti politici dopo l’esaurimento della vecchia alleanza con la Dc andreottiana, a cui Riina dichiara guerra perché non ha saputo mantenere le promesse (la salvezza dalle condanne del maxiprocesso). Cosa nostra prova a fare un partito in proprio: è Sicilia Libera, movimento che tenta contatti con la Lega di Umberto Bossi e con le altre Leghe del Sud. “È un movimento che Leoluca Bagarella mi disse di aver costituito insieme ad altri. Io mi diedi da fare per aiutarli”, racconta Brusca. “Venuto meno il riferimento di Andreotti”, Cosa nostra progetta “d’indebolire la sinistra. Avevamo individuato in Carlo De Benedetti il sostenitore della sinistra. Parlando con Riina, c’era il progetto, mai concretizzato, di eliminare questo ostacolo per indebolire quella parte politica e realizzare il nostro progetto politico”.
Ma il sogno di Cosa nostra di farsi partito non va in porto: “Bagarella mi disse: ma no, guarda che sono una banda di squinternati, non vanno da nessuna parte”. È su Forza Italia, allora, che puntano i boss. Il mediatore è ancora una volta Vittorio Mangano, forte dei suoi rapporti di vecchia data con Dell’Utri e Berlusconi. I contatti con Milano erano stati riavviati già nel 1991: “C’era interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi perché attraverso loro si doveva arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani pulite, perché influisse sull’esito del maxiprocesso”. Quando poi un boss di Cosa nostra, Ignazio Pullarà, mette a segno un attentato a Berlusconi, Riina lo punisce destituendolo dal vertice del suo mandamento. Berlusconi già pagava a Cosa nostra un pizzo di 600 milioni l’anno, racconta Brusca. Poi la Prima Repubblica implode, la Dc “tradisce”, il Psi sparisce.
Nel 1993, parte la grande ambasciata. “D’accordo con Leoluca Bagarella, incaricammo Vittorio Mangano di andare da Berlusconi e Dell’Utri per affrontare intanto il problema del carcere duro, che andava indebolito, e poi di avviare contatti per fare leggi nell’interesse di Cosa nostra, altrimenti avremmo proseguito con la linea stragista. Mangano fu contento di andarci e ci disse che era un modo per riprendere i rapporti con loro, che erano rimasti buoni nonostante lui avesse dovuto lasciare la villa. Dopo una decina di giorni, mi disse che aveva incontrato Dell’Utri in un’agenzia di pulizie di una persona che lavorava per la Fininvest e che gli era stato detto: vediamo cosa si può fare”. Intanto però, fino al 1994, sono al governo i tecnici e i ministri del centrosinistra. “Dissi a Mangano”, racconta Brusca, “di riferire a Dell’Utri che la sinistra sa”. La trattativa era infatti aperta da tempo: tanto che il papello con le richieste di Riina, secondo quanto riferito da Brusca nel primo giorno del suo interrogatorio, era arrivato nelle mani dell’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino. “La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapevano quello che era avvenuto in Sicilia”, ha aggiunto ieri Brusca. “Gli attentati del ’93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. A Mangano spiegai che le stragi servivano per tornare a trattare sul famoso papello”. Così “potè riprendere quello che era stato interrotto. Per noi l’obiettivo era agganciare un altro canale politico. Il nostro messaggio era diretto a Berlusconi, ma Mangano incontrò solo Dell’Utri. Mi disse però che avrebbe dovuto incontrare direttamente Berlusconi, che doveva venire a Palermo per un comizio. Si sarebbero dovuti vedere nello scantinato di un ristorante sulla circonvallazione, ma non so se l’incontro ci fu”. Poi la parola passa, per il controesame, agli avvocati. Puntiglioso quello di Basilio Milio, difensore dell’ex generale del Ros Carabinieri Mario Mori, imputato (come lo stesso Brusca) di minaccia a corpo politico dello Stato. Fu Mori, da vicecomandante operativo del Ros, ad arrestare il capo dei capi. Secondo la Procura, la cattura fu frutto dell’intervento di Bernardo Provenzano, che consegnò il compaesano ai carabinieri, al culmine di un’ulteriore trattativa avviata con pezzi dello Stato. Milio tenta a lungo di mostrare le contraddizioni temporali in cui Brusca sarebbe caduto nei suoi racconti, nei diversi processi in cui ha testimoniato. Alla fine del controesame, malgrado i richiami del rigoroso presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, Brusca saluta così l’avvocato: “Ringrazi il generale Mori per avere fatto fare a Riina la fine del topo”.