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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

BORGES RECITAVA ALLA LUNA, SIMENON SI FIDAVA DI FELLINI E VIENNA TORNÒ CAPITALE. COSÌ L’ITALIA CAPÌ CHE LA CULTURA AVEVA ANCORA MOLTO DA SCOPRIRE


Era la fine del 1963…
«Novembre. Esattamente cinquant’anni fa, Adelphi pubblicava il primo libro: La vita e le avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe».
E cent’anni fa, nel 1914, scoppiò la Prima guerra mondiale, ferita drammatica che escluse, dalle nostre letture – fino alla nascita di Adelphi – la cultura mitteleuropea.
«Fu la rottura del mondo stesso, oltre che una frattura tra l’Italia e qualcos’altro. Una lacerazione profonda. Quella che percepì Karl Kraus, che scrisse Gli ultimi giorni dell’umanità mentre i fatti accadevano. Allora è cominciata quella che ho chiamato la “guerra perpetua”. Da allora a oggi, la pace è stata una prosecuzione della guerra con altri mezzi».


Quando Roberto Calasso disse a Erich Linder, il grande agente letterario, che intendeva tradurre l’intraducibile fustigatore della Grande Vienna, si sentì rispondere: «Bravi, venderete venti copie». Fu un meraviglioso augurio: catapultò un’ambiziosa casa editrice vissuta con sospetto definitivamente nel limbo degli eretici.
Agli eretici, allora – erano i “formidabili” anni Sessanta e Settanta –, non si risparmiavano ardenti autodafé. Ma dalle catacombe in cui avrebbero voluto costringere Adelphi, uno dopo l’altro si animarono sconosciuti e misconosciuti universi. Stupirono i giovani, sinistra o destra non importava. Inacidirono i censori. E fiorirono leggende auree sull’esoterismo intellettuale di quest’uomo, Roberto Calasso, velando di mistero lui e la casa editrice che dirige e impersona da oltre quarant’anni. In Italia, forse, questo è il prezzo dell’agire in coscienza. O incoscienza.
Delle critiche, Calasso non si curò mai. E continuò a comunicare con i suoi autori, vivi o morti che fossero, con lettere simili a quella che Ezra Pound scrisse a un irlandese sopravvissuto a stento insegnando inglese a Trieste: «Stando a quanto mi dice Yeats, potrei quasi pensare che io e Lei siamo accomunati da qualche avversione».
Ricevuta la missiva, James Joyce riprese in mano Ritratto d’artista da giovane e i racconti Gente di Dublino. Era il 15 dicembre 1913. Cent’anni fa, appunto. Basta così poco per rianimare i cimiteri della mente?


Roberto Calasso, lei ce l’ha fatta. Oggi Adelphi è un progetto unico non solo nel panorama italiano, ma in quello mondiale. Perché l’Italia, per cinquant’anni, ha rinunciato a un certo tipo di cultura?
«L’Italia, a inizio Novecento, non era gran cosa. Soffriva la tremenda angustia dell’Italia ottocentesca. Una regione marginale dell’Europa, lontana dai centri nevralgici. La guerra le diede una scossa di violenza inaudita e la obbligò al rapporto con altre entità. Dopodiché arrivò il fascismo, che schiacciò tutto. Per Adelphi un punto di partenza fu anche questo: cercare un luogo del Novecento che potesse servire come una sorta di asse portante. Le vie erano due: Parigi, terreno più noto, legato soprattutto all’idea di avanguardia; Vienna, in gran parte da scoprire. Era la città dove, in modo radicale, si era scavato nel linguaggio, elemento che avrebbe definito l’intero secolo. Freud, Wittgenstein, Gödel, Schoenberg, Musil, Hofmannsthal, tutti, come Kraus, e spesso in modi incompatibili, avevano puntato in quella direzione. In Italia la cultura di lingua tedesca erano Thomas Mann e Bertolt Brecht. Lo spazio da scoprire era una prateria. Il pubblico italiano lo colse presto, e quello spirito diventò una voga. Non fu semplicemente letteratura, ma tutto il genio mitteleuropeo: pittura, musica, architettura, psicoanalisi, economia, logica – e un certo gusto. Ci siamo incamminati verso Vienna perché ritenevamo fosse il luogo dell’anima più essenziale da scoprire in quel momento».
Ha dovuto calarsi, in quel mondo?
«L’ho fatto con immenso piacere, era affascinante. Le sue ultime propaggini sono state, per me, Ingeborg Bachmann, la più vicina in spirito a Joseph Roth, e Thomas Bernhard, ultimo esempio di quell’estro demoniaco, peculiarmente austriaco, che va a rovescio di tutto. E presuppone una catastrofe».
Ecco, Ingeborg Bachmann, che donna era?
«Di lei viene data spesso un’immagine falsa. Di persona che si chiude nel silenzio, che evita il mondo. Invece poteva essere infantile, euforica. Mi piace ricordarla mentre rideva con Fleur Jaeggy. Erano grandi amiche. Lei era die Schwierige: “l’uomo difficile” di Hofmannsthal aveva una controparte femminile che poteva essere lei. Era insofferente verso la Germania di quegli anni. Tra il suo modo vecchio-austriaco di intendere le cose e la Germania adenaueriana c’era una distanza astrale. Nella Repubblica federale era ammirata come poeta; poco capita, però, come persona. Una barriera, tra i due mondi. Per quanto mi riguarda, inclinavo verso la parte austriaca».
Però, allora, la Germania era tante cose. Era la scuola di Francoforte, per esempio. Lei frequentava Adorno? Lukács diceva di lui che alloggiava al Grand Hotel dell’Abisso, grande borghese e nichilista, come qualcuno in passato sospettava di Adelphi…
«È il posto migliore dove stare, il Grand Hotel dell’Abisso. E certamente migliore della postazione sovietizzante che Lukács si era scelto. Adorno per me era una grande passione. Cominciata presto, prima di Adelphi. Le mostro una cosa curiosa. Ecco, è il primo saggio di un certo impegno che pubblicai, a vent’anni, su Paragone (1961). Vede il titolo: Adorno, il surrealismo e il mana. Lo fece pervenire alla rivista Elémire Zolla. Rileggendolo, mi accorgo che toccava molte questioni su cui avrei scritto fino a oggi. Sì, conobbi Adorno, quando una volta passò da Roma. Poi ci scambiammo alcune lettere. A un certo punto… Ma questa è un’altra storia».
Racconti, la prego.
«Volevamo realizzare un libro-omaggio ad Adorno, editore Bompiani. All’epoca mi vedevo spesso con Zolla. Il redattore di Bompiani che se ne occupava era Umberto Eco. Quel libro causò la rottura dei miei rapporti con Zolla. Era nella fase di critica feroce dell’avanguardia. Pensava che fosse un’incarnazione del male. Mario Bortolotto contribuì con un lungo saggio (poi diventato la prima parte di Fase seconda). Parlava della nuova musica, finiva con Stockhausen e, quindi, in pieno dentro l’avanguardia. Zolla lo condannò senza appello e il libro non vide mai la luce per un’inopinata alleanza Zolla-Eco. Sarebbe stato un libro bellissimo: c’era anche un testo di Adorno poco noto. Proprio in quel periodo conobbi Roberto Bazlen, che da Adorno si teneva distante. Mi guardava scuotendo la testa, come a dire: “Sì, bisogna passare per Adorno, come si prende il morbillo. Poi però si va avanti”. Comunque, tra Adorno e Lukács non ho dubbi, sono totalmente dalla parte di Adorno. Lukács ha avuto un’influenza nefasta sulla cultura italiana negli anni gloriosi dell’Einaudi, per quell’asse Gramsci-Lukács che rendeva impossibile un’infinità di cose. Tutti condannati. In realtà, i migliori scrittori d’Europa soggiornavano spesso al Grand Hotel dell’Abisso».
La definizione di anti-Einaudi, se la sente ancora addosso?
«No, anti no, ma nemmeno costola. Che è tipico cliché di chi vorrebbe far intendere che, in fondo, tutto è una variante di Einaudi. Non è esattamente così. Giorgio Colli aveva lavorato per Einaudi e Luciano Foà era stato per dieci anni segretario generale, però avendo ciascuno le proprie idee, che erano ben diverse. A un certo punto decisero di fare qualcosa che li rappresentasse completamente. Einaudi era la più grande casa editrice italiana del momento. Noi siamo nati su una riva diversa. Per fortuna c’era Einaudi: era bello avere di fronte un’impresa di quella qualità».
Torniamo indietro. Mi racconta il mese in cui scrisse la sua tesi di laurea?
«Era sulla teoria dei geroglifici in Sir Thomas Browne. La tirai in lungo come pretesto per stare a Londra. Ho passato più di un inverno lavorando al British Museum e al Warburg. Situazione ideale: stavo la mattina in un posto e il pomeriggio nell’altro. Distavano dieci minuti a piedi. Soluzione perfetta. Però ritardavo il momento in cui avrei cominciato a scrivere. A un certo punto, mi sono messo di buona lena e l’ho ultimata in tre settimane».
Sì, ma io non intendevo questo… Non c’entra anche lo hashish?
«In quel periodo c’era a Roma un giro di amici americani molto divertenti… Fumare, in quelle settimane, ebbe su di me l’effetto opposto a quello che normalmente si crede. Mi aiutò a scrivere con la massima fluidità. Quella tesi oggi è pubblicata. Non in Italia, in Messico».
Riavvolgiamo ancora il nastro della sua vita. Suo padre condannato a morte per l’omicidio di Giovanni Gentile.
«Si torna a cose adelphiane. In aprile pubblicheremo un libro di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina, un’indagine sull’assassinio di Gentile, dove emergono verità sconvolgenti. Perché me lo chiedeva?».
Perché è una storia importante nella sua vita. Suo padre, professore antifascista, arrestato con altri due docenti come rappresaglia per l’uccisione del “filosofo di regime”. Settimane d’angoscia, fino alla liberazione perché uno degli altri due detenuti, il grande archeologo Bianchi Bandinelli, aveva fatto da cicerone a Hitler in visita agli Uffizi. Ma la domanda era: Adelphi è più Croce o Gentile?
«La questione non si pone, se si parte da Nietzsche. Come Clarisse, nell’Uomo senza qualità di Musil, che voleva fare “l’anno Nietzsche”, ecco, Adelphi fu un “anno Nietzsche”. Sa una cosa curiosa? Gentile realizzò la sua famosa riforma della scuola con mio nonno. Ernesto Codignola era editore (fondò La Nuova Italia) e professore di filosofia e pedagogia. Avviò una scuola sperimentale che si chiama Scuola-Città Pestalozzi, a Firenze, la prima autogestita, si direbbe oggi. Esiste ancora. Allora era audacissima. Mio nonno l’ha fondata e mia nonna l’ha diretta per molti anni».
Fu nel salotto di Elena Croce che incontrò Adorno?
«Elena era un’amica di famiglia. Aveva un suo genio mondano e nella sua bella casa di via delle Tre Madonne, a Roma, si incontrava di tutto: studiosi, scrittori, stranieri di passaggio – e anche giovani come me. Non che ci andassi regolarmente. In vita mia non sono andato regolarmente in nessun posto».
E Jorge Luis Borges, mai incontrato?
«Sì, una volta sola, ahimè, a Fontanellato, con Franco Maria Ricci. Un intero, indimenticabile giorno. Pranzammo in una osteria per camionisti. Uscendo su un piazzale desolato, Borges scambiò la luce accecante di un lampione per la luce della luna. E cominciò a recitare: “Marble like solid moonlight, gold like frozen fire”. Pensavo fosse Kipling e invece era Chesterton. Quando si accorse che non si rivolgeva alla luna disse: “Too English to be true”».
Con Simenon, invece, un’estenuante trattativa?
«Sono andato a Losanna con due grandi editori che mi appoggiavano in quel tentativo, Daniel Keel e Vladimir Dimitrijević. Dissi a Simenon che in quel momento, in Italia, circolavano solo i Maigret. Degli altri, oltre cento libri, fondamentali, nulla. La cosa lo scosse. Era un uomo duro con gli editori. Gli dissi che intendevo pubblicarlo tra i grandi del Novecento: mostrai la collana, gli autori. Di Maigret nemmeno parlammo. Cominciò allora una lunga trattativa. Sapevo che Mondadori l’aveva irritato. Lui teneva moltissimo a Lettera a mia madre, uno dei suoi libri migliori, e Mondadori l’aveva respinto “perché troppo corto”. Troppo corto! Per Simenon, quel libro era tra le cose più importanti della sua vita. Poi non aveva più Arnoldo con cui trattare… Fatto sta che dopo qualche tempo, quando la trattativa sembrava incagliata, ci venne in aiuto Federico Fellini. Non erano solo amici: si veneravano a vicenda. Fellini era un lettore appassionato di Adelphi, conosceva tutto il nostro catalogo. Gli scrisse una lettera: Caro Georges, è la cosa giusta da fare. Così arrivò il contratto. La cosa più bella, però, doveva ancora accadere. Dopo la sua morte, un giorno mi chiama Aitken, la donna che gestiva gli affari editoriali di Simenon, e mi dice: “I contratti per Maigret sono scaduti e Simenon ha lasciato la volontà che passino a voi, lei è d’accordo?”. Me lo chiedeva…».
Ecco, da Simenon a Fleming: il passo è breve. O è azzardato?
«È sempre azzardato, però Fleming è meglio di quello che molti suppongono. Non l’ho conosciuto dai libri, come tutti, ma dai film. L’ho letto più tardi e mi ha colpito. Naturalmente siamo su un piano diverso rispetto a Simenon. Più stretto. Con Simenon ci si può addentrare ovunque. Ma Fleming sa molto bene di che cosa parla. Un giorno si capiranno meglio certe cose della Guerra fredda attraverso i suoi libri».
Pessoa, che dire di Pessoa? L’esperienza più inattesa?
«Un caso strano. Quando lo pubblicammo era pressoché ignoto. Reazioni modeste. Pochi anni dopo si incontrava la sua faccia anche sugli escudos portoghesi. Nessun altro scrittore del Novecento è finito sulle banconote. Una cosa simile avvenne – però con uno scrittore vivente – nel caso di Bruce Chatwin. Quando pubblicammo In Patagonia era un esordiente inglese che raccontava cose strane».
L’ha conosciuto bene?
«È stato un carissimo amico e dava preziosi suggerimenti per la casa editrice. Come Iosif Brodskij, amava parlare di libri, dei libri che gli importavano. E consigliarli. Le vie dei canti è un libro che ho visto formarsi».
Diceva di Brodskij…
«Con lui fin dall’inizio ci fu un’intesa perfetta. Lo vedevo a New York, a Londra, a Parigi, a Venezia, a Roma. Dovunque capitava. Attraverso Brodskij entrai in contatto con Isaiah Berlin. Era il conversatore più incantevole che si potesse immaginare. Dava più nella sua versione orale che in quella scritta. Era il nume tutelare della New York Review of Books. Bob Silvers adorava Berlin: era l’autorità ultima che stava dietro la rivista».
State ripubblicando anche John Maynard Keynes…
«Fra gli illustri economisti, è l’unico che era anche uno scrittore, come si vede da Le conseguenze economiche della pace: un libro chiaroveggente, che serve anche per capire come la Seconda guerra mondiale fosse ben preparata dalla prima. Vedeva lontano – e nella sua prosa si respira la migliore aria di Bloomsbury».
Molto legato a Piero Sraffa…
«Come no: una leggenda italiana».
Per i Quaderni di Gramsci?
«E per l’amicizia con Wittgenstein, la cui vita è diventata una fabbrica di storie. Un giorno, in treno, il filosofo spiegava a Sraffa la teoria della verificabilità. Sraffa lo guarda e gli fa il gesto dell’ombrello. “E questo, come si verifica?”. Wittgenstein, sconsolato, risponde: “Sì, buona obiezione. Effettivamente ci deve essere qualcosa nella teoria che non funziona”».
A partire dalla Lolita di Nabokov, passando per Lord Jim di Conrad, fino a Marlon Brando: pare che lei subisca il fascino dei personaggi di rottura. Adelphi dichiarò guerra al politically correct?
«Non ce lo siamo nemmeno posti, il problema. Eravamo talmente scorretti fin dall’inizio... Nietzsche è l’esempio: irriducibile a qualsiasi correttezza… La correttezza, intesa come ciò che si può dire e ciò che non si può dire, impazzò soprattutto a partire dagli Anni Settanta. Noi, certo, non siamo mai stati buoni esempi. Marlon Brando, però, non mi colpiva perché era un maledetto: era semplicemente un essere antropologicamente nuovo».
E Lolita: fu l’unico ad accorgersene in Italia quando apparve in America?
«Mio padre era amico di vari collaboratori del Mondo di Pannunzio. Conosceva bene Arnaldo Bocelli, rigoroso custode della critica letteraria, recensore in punta di penna. Mi presentai a lui con un articolo da cui sprizzava il mio entusiasmo per Nabokov. Lo rifiutò, sostenendo che non si poteva scrivere sul Mondo di uno scrittore totalmente ignoto, di un libro che nessuno conosceva. Ricordo il concetto centrale dell’articolo: l’idea di Lolita come l’ultimo grande romanzo della passione. Un esempio clamoroso come il Tristano».
Vorrei fare un gioco. Il suo dizionario: mi viene in mente “sacrificio”, “ebbrezza”… poi?
«Sacrificio temo faccia parte del dizionario dell’umanità più che del mio, è una cosa che si incontra a ogni passo. Sia nel passato, sia nel presente. Quando i primi ministri devono annunciare misure economiche chiedono sacrifici, no? Chissà perché. Non che intendano andare su un altare secondo una certa liturgia, però la parola è quella. Ebbrezza è parola connessa con “possessione”. I moderni la trattano come fosse un fenomeno psicopatologico. Di fatto è l’elemento centrale di qualsiasi esperienza psichica, perché non siamo fatti di un io compatto che guarda il mondo, prende nota e poi fa i suoi passi. È tutto più complicato, quel che abbiamo nella testa: la possessione è un modo per segnalare questo fatto, cioè che esistono potenze che si impadroniscono dei fatti psichici».
Misticismo? Parola abusata, parlando di Adelphi.
«Addirittura comica. Alcuni trattano la parola “gnostico” come un epiteto infamante. Potrebbe invece essere una lode. Gnostico è “chi conosce”. La gnosis è qualcosa che si ritrova ovunque, non è un fenomeno storico che attraversa certi luoghi e certi secoli di storia. “Chi pensa il brahman, diventa il brahman”: è un principio delle Upanishad. Ed è un principio gnostico».
Nel suo libro L’impronta dell’editore, cita Bacone: Veritas filia temporis. Poi riaggiusta il tiro con Pierre Bayle: Error filius temporis. Oggi, quale formula applicherebbe?
«Si è incoraggiati verso la seconda. È di stupefacente interesse quel che ci sta intorno, gli sconvolgimenti che avvengono minuto per minuto. Ma riscontriamo un’evidente insufficienza di mezzi intellettuali con cui provare a comprendere. Se cerca una descrizione di ciò che ci circonda oggi, non la trova. Ne La rovina di Kasch (1983) usavo una formula, “l’innominabile attuale”: vale ancor di più oggi. Occorrerebbe una lucidità simile a quella che Simone Weil, giovanissima, aveva rispetto a ciò che la circondava negli Anni Trenta».
E torniamo da dove siamo partiti, la Grande guerra, la fine della civiltà occidentale, i libri di Adelphi...
«La nostra storia è intessuta di tremende rotture e traumi. L’ultimo, quello del 1914, è il decisivo. La Seconda guerra mondiale è un’ulteriore applicazione dello stesso principio. Siamo fermi lì. Nel 1913 affioravano Le Sacre du Printemps di Stravinskij, il primo volume della Recherche di Proust, Freud e tante altre cose. Oggi il confronto è impari. Domina la nebbia. Una specie di tremenda incertezza dentro qualcosa di enorme che si muove. E il pensiero che dovrebbe comprendere non è ancora adeguato».