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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

LA PIANISTA DISCRETA È UN GENIO ACCLAMATO


Maria Perrotta, o della riservatezza. Il suo pianismo, quando suona le Variazioni Goldberg di Bach, è stato accostato dai critici a quello di Glenn Gould o della leggendaria Rosalyn Tureck. E quando poi si è cimentata con le tre ultime sonate di Beethoven un ascoltatore difficile come Paolo Isotta si è lanciato, per descriverla, in un paragone con Maurizio Pollini. «È uno dei veri astri del pianismo mondiale, ma non lo sa ancora», ha sentenziato. Un’iperbole? Non esattamente. Chi oggi si mettesse all’ascolto del cd (Decca) in cui la Perrotta ha appena inciso proprio quelle sonate, la 109, 110 e 111, enigma della maturità di un genio e sfida dei massimi pianisti di sempre, si troverebbe di fronte a una miracolosa spontaneità interpretativa, all’arte di una donna che senza sforzo apparente cava dal suo strumento suoni indicibili e governa le frasi più impervie come se quel linguaggio fosse, naturalmente, il suo.
«Sì, forse sta arrivando il successo e non me ne rendo conto», osserva lei, e firma la frase con un sorriso che è un certificato di sincerità. «E forse non me ne accorgo perché me ne sto in disparte… Anche da piccola ero così, credo che sia nella mia natura, ma può darsi che sia anche una questione di incapacità ». Della bambina, ora che ha 39 anni, ha serbato intatto il candore dell’autodescrizione. Mentre racconta di sé, nel piccolo appartamento di Parigi dove vive con il marito Lucio, baritono del coro dell’Opéra, e le due figlie (Giuseppina, di tredici anni, e Vittoria di venti mesi), sembra che stenti a trovare le parole adatte, e le festeggia una ad una, quando le lascia andare. Dice della sua infanzia a Cosenza, la città dov’è nata, e del padre che la fece sedere al pianoforte quando era ancora all’asilo. «Eravamo quattro figli, io ero la più piccola. Ci aveva provato anche con gli altri tre, ma senza successo. Con me funzionò, capii subito che era una cosa importante, una scelta misteriosa».
All’inizio il suo percorso fu quello canonico di una bambina molto dotata. «Ero una piccola pianista prodigio, nella mia città. I primi anni facevo i concorsi con grande determinazione. Ero lanciata, ero lucida, studiavo moltissimo». Un’adolescenza di fatica, vissuta a testa bassa e senza troppe domande, giornate solitarie allo strumento e la maturità magistrale conquistata da privatista. Il cammino duro dei talenti precoci, un viaggio che non prevede fermate intermedie ma solo una destinazione che forse è un sogno, quello di diventare una grande pianista. E invece qualcosa succede, qualcosa di quella quotidianità si spezza, dai sedici anni Maria smette di fare concorsi e un bel giorno esce dalla cornice di quel quadro e scappa a Milano. Perché?
«Fu un passo indietro, sentivo dentro di me un’urgenza di vita che non era sempre conciliabile con un destino artistico. Il pianoforte era la mia malattia ma non era ancora una scelta. E io non volevo un destino, volevo me stessa. Non ero affatto sicura di voler fare la pianista, così preferii cercare una realtà personale e interpretativa, più che di carriera. Mi misi dalla parte della mia esistenza, buttai via ogni sorta di calcolo. Come uno scrittore che decida di continuare a scrivere senza domandarsi ogni giorno se il suo libro verrà pubblicato».
Per cercarsi, Maria si nasconde. Non la guida alcuna consapevolezza, ma solo il bisogno di affidarsi al suo istinto profondo. E questo istinto le dice di sottrarsi. Poiché ama la musica e il suo strumento, continua a suonare sotto la guida di grandi maestri: a Milano si diploma con Edda Ponti, e poi fra Parigi, Imola e Roma affina la sua arte con insegnanti come Franco Scala, Boris Petrushansky, Sergio Perticaroli e Cristiano Burato. Ma non fa concorsi, non mette in gioco alcuna identità professionale, sceglie di essere solo una donna che suona. Nel 2000 nasce la sua prima figlia («un’insperata felicità »), il fiume parallelo della sua vita affettiva si gonfia e la libera da quell’urgenza che aveva paralizzato la carriera pubblica di pianista. Così decide di rimettere il naso fuori, nel 2004 partecipa al concorso J.S.Bach di Saarbrücken e nel 2008 vince il premio Encore! Shura Cherkassky.
Ma non è ancora un ritorno. Come in molte storie attraversate dall’inconscio, la mossa decisiva spetterà al caso. E il caso si farà vivo per mano di Alberto Spano, un attento talent scout bolognese ben noto nell’ambiente musicale per aver contribuito alla scoperta di pianisti quali Ramin Baharami e Daniil Trifonov. Parlando di lui, Maria dice che si sente come «una bella addormentata che un giorno è stata trovata», e con la sua discrezione glissa sull’episodio, che però lo stesso Spano racconta volentieri: «Era l’aprile del 2010, avevo organizzato a Bologna una Maratona Goldberg, due pianoforti e 32 pianisti ognuno dei quali eseguiva una variazione. Maria non doveva suonare, io l’avevo convocata per eventuali sostituzioni dell’ultimo momento, pur non avendola mai sentita. Dieci minuti prima del concerto diede forfait Piero Rattalino che doveva aprire con l’Aria, così la eseguì lei, senza aver provato lo strumento e scesa dal treno dopo un viaggio di mille chilometri. Quell’ascolto fu letteralmente una svolta nella mia vita e in quella di tutti i presenti. Il pianista che doveva eseguire la seconda variazione e che era appostato dietro le quinte ebbe una crisi di panico, all’idea che toccasse a lui dopo un’Aria suonata in quel modo… Esiste un cd di quella serata, in cui l’Aria è trascendentale, il resto un po’ meno».
Quelle stesse Variazioni Goldberg (che sono una specie di colonna sonora della sua formazione) avrebbero in seguito conosciuto altre due memorabili occasioni: un concerto romano nell’ottobre 2011 al Teatro Valle occupato (il cd registrato dal vivo vinse il Premio della Critica 2012) e un altro nel gennaio 2012, al Teatro Rossini di Lugo di Romagna dove lei si presentò incinta al nono mese, a quindici giorni dal parto e suonò per 80 straordinari minuti con l’ambulanza posteggiata fuori dal teatro. Il segreto di tanta imperturbabilità lei tende a cercarlo nella musica, spiega che Bach e «l’ipotesi della sua serenità » furono da subito il suo mito, ricorda il giorno in cui attaccò un minuetto su uno spartito bachiano portato a casa da suo padre, e la meraviglia che la invase. Ma, ad ascoltarla, si è più propensi a credere che quella sia la «sua» musica perché si accorda con l’idea di un’arte pacificata con la vita quotidiana, e con il bisogno di suonare senza drammi e senza obiettivi.
Nell’autoritratto di Maria, sempre in tono minore, ogni cosa sembra semplice e illuminata di luce naturale. «Sono una pianista che non è schiava delle sue dita, per lunghi periodi posso anche non suonare. La mia esistenza mi ha liberata dalla dipendenza dallo strumento. Sto con le mie figlie, ho una casa normale e una vita domestica un po’ infantile, come una bambina che gioca a fare la mamma. Direi che sono più romantica che esperta. Ma quando suono, sento qualcosa che mi arriva dal profondo, qualcosa di molto prezioso che non fa parte di ciò che so».
Ha studiato tanto, ma non mitizza i risultati che si possono conseguire con l’esercizio. «È un dovere, lo studio. È l’etica dello strumento. Ma non deve costruire, deve liberare. Ci sono emozioni istintive, che lo studio scioglie e seleziona, mettendo ordine nel caos dei sentimenti». Prima di un concerto valuta il pianoforte che ha di fronte, ciò che le consente di ottenere interpretazioni sempre nuove. «Ogni strumento ha il suo suono, dunque pone limiti e offre risorse, e di questo non riesco a non tenere conto. Allo stesso modo non sono capace di pensare a un concerto come a un traguardo. Per me è una sperimentazione, una sorpresa, proprio mentre accade. Sento il suono e mi ci affido, mi lascio guidare. Come se aprissi una finestra sul mio mondo e condividessi con chi ascolta il momento di un percorso che c’era prima e ci sarà anche dopo. Infine, credo che occorra difendersi dal perfezionismo eccessivo. Un attore francese diceva che anche dimenticare le parole non è poi tanto grave. Anche la fragilità, voglio dire, fa parte della perfezione. Per questo amo le registrazioni dal vivo, così imperfette rispetto allo studio di registrazione».
Ora Maria è in Italia, ha appena suonato a Modena e a Cagliari. Poi sarà la volta di Ravenna, e in gennaio a Milano. Agli amati Bach e Beethoven nel suo repertorio si è aggiunto Chopin. In un futuro prossimo, dice, toccherà a Schubert, «il mio amore segreto». E di certo sarà una sorpresa. Per noi, per lei.