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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

IL NOBEL CHE NON COLSI


Stoccolma. Quasi venticinque anni fa, nel 1989, tre componenti del comitato del premio Nobel per la letteratura si dimisero perché l’istituzione a cui appartenevano non aveva voluto difendere Salman Rushdie, colpito dalla Fatwa dopo la pubblicazione dei Versetti satanici. Due di loro, Werner Aspenström e Lars Gyllensten, nel frattempo morti, sono stati sostituiti; non così è accaduto con la terza, Kerstin Ekman, che continua scrivere libri su personaggi alquanto eccentrici nella sua casa di Katrineholm, a una cinquantina di chilometri da Stoccolma. Da allora la commissione si riunisce di fronte una sedia vuota (e così sarà anche per la scelta di chi subentrerà ad Alice Munro, che non si è presentata al banchetto ufficiale per motivi di salute). Lo scranno è a vita, non essendo previsto che qualcuno si possa dimettere; al massimo si può essere cacciati per indegnità e, dal momento che è in vigore un vincolo di segretezza che dura cinquant’anni, per i dettagli dell’affaire Rushdie bisognerà attendere.
Non è questa però l’unica stravaganza, per usare un eufemismo, nella storia dell’Accademia di Svezia, il cui motto è «genio e misura». Se non bastasse la lista dei vincitori fino al dopoguerra, giustamente dimenticati – Sully Prudhomme, Martinus Bjornson, Frédéric Mistral, José Echegaray, Rudolf Eucken, Paul von Heyse, e compagnia cantando – si potrebbe aggiungere il «catalogo delle navi» di chi non l’ha mai vinto: Tolstoj, Cechov, Strindberg, Ibsen, Proust, Joyce, Kafka, Brecht, Conrad, Virginia Woolf, Borges, Nabokov, García Lorca, W.H. Auden, Bulgakov – in pratica l’Empireo della letteratura. Forse, accanto all’assai ben organizzato Museo del Nobel, che siede proprio al centro di Gamla Stan, la città vecchia di Stoccolma, dovrebbero creare un salon des refusés, come fecero per gli impressionisti.
C’è chi obietterà che quando si tratta di premi è sempre difficile stabilire una meritocrazia, e che comunque al Nobel bisogna essere candidati da qualche istituzione nazionale; ma per capire quanto non siano difendibili certe investiture si possono leggere i giudizi formulati da docenti ed esperti, tutti rigorosamente svedesi, e dagli stessi componenti della commissione, tutti rigorosamente svedesi, di recente resi pubblici almeno fino all’anno 1950 (Bo Svensén, The Swedish Academy and the Nobel Prize in Literature, 2010). Zola venne ritenuto uno scrittore «rozzamente cinico nel suo naturalismo»; Thomas Hardy fu eliminato per «il suo invincibile pessimismo»; H.G. Wells venne bocciato perché aveva partecipato «alla provocatoria propaganda spionistica di Lord Northcliffe dietro il fronte tedesco» (con Conan Doyle e Kipling per altro, però quest’ultimo il Nobel lo aveva vinto nel 1907); Edith Wharton fu considerata «incapace di mostrare una più ampia evoluzione». A Paul Valéry volevano darglielo postumo, nel ’44, dopo che per anni avevano bollato la sua lirica, «volutamente inaccessibile ed esoterica». Non andò meglio a Henry James, più volte in lizza: «Ha uno stile buono, spesso raffinato, e una tecnica sovente elegante» (bontà loro), «ma scrive «romanzi di situazioni e di conversazioni», e manca troppo spesso di «concentrazione». La candidatura di Robert Frost fu gettata nel cestino poiché apparteneva «a una categoria di scrittori anziani che deve essere evitata per principio», mentre Pound fu respinto per la sua «concezione fascista non priva di tendenze antisemite e in generale antiumane». Le considerazioni dei giurati, talvolta assai poco critiche e molto umorali, mostrano spesso una impostazione ideologica tradizionalistica e ipocritamente moralistica, che ha nell’istituzione della famiglia e del matrimonio i due cardini della società. L’Accademia e i suoi presidenti, Wirsén, e poi Hallström (dalle simpatie naziste, sostengono alcuni), ne erano il baluardo: i casi di Ibsen e Strindberg sono emblematici. Il primo aveva già cambiato per sempre l’autopercezione della borghesia quando nel 1902 gli venne preferito Theodor Mommsen: fu scartato per «il negativismo e l’imperscrutabilità» dei suoi drammi, oltre che per il peccato d’aver frantumato i legami famigliari. Il secondo, Strindberg, era un paria emarginato dall’establishment culturale che aveva pubblicato articoli contro l’Accademia stessa, la società svedese e la Chiesa («Lo Stato è una prigione (…), la società è un manicomio, la famiglia un concubinato, la scienza una camorra, i capitalisti degli sfruttatori, le belle arti inutili», giusto per dare un’idea): ricevette un anti-Nobel nel 1912, poco prima di morire, durante una fiaccolata che terminò Lev ToLsToj Thomas hardy Émile ZoLa henrik Ibsen henry james marcel prousT getty corbis x 9 13 DICEMBRE 2013 119 cultura DE gustIBus sotto il suo balcone, dove migliaia di lavoratori lo salutarono come il loro poeta.
Negli anni in cui venne inutilmente nominato, dal 1902 al 1906, Tolstoj era già una leggenda, ma non secondo il Comitato: «Ha denunciato tutte le forme civiltà e ha insistito volendole sostituire con una qualche forma di vita primitiva, disincarnata da ogni precetto di alta cultura»; indigesta era soprattutto La sonata a Kreutzer, dove il protagonista è un uxoricida – ritrosia questa condivisa da Sonja, la moglie di Tolstoj, che dopo la pubblicazione aveva desiderato lo scioglimento del matrimonio. Maksim Gorkij, altro rifiutato sdegnosamente per la sua opera «anarchica » e «grigia», lo andò a trovare proprio in quel periodo, quando aveva deciso di vivere evangelicamente, umile tra gli umili; stava segando del legno per costruire una sediolina e Gorkij pensò che ogni ora passata da Tostoj a piallare fosse tempo sottratto a scrivere pagine che l’umanità avrebbe amato. In sette occasioni il Nobel non venne assegnato – nel ‘14, ‘18, ‘35, e dal ’40 al ’43 – per mancanza di candidati adeguati (o per ragioni storicopolitiche, mai avulse dalla scelta finale), sebbene fosse già uscito nel ‘22 l’Ulisse, con cui Joyce aveva acquisito immediata fama. Furono candidati e subito respinti anche Freud e Jung, Churchill invece lo vinse nel 1953.
Secondo Enrico Tiozzo, che ha raccolto in volume molte di queste note critiche (La letteratura italiana e il premio Nobel, Olschki), i primi sessant’anni di vita del premio più famoso del mondo sono stati un fallimento, dovuto alla scarsa competenza degli esperti, alla mancata internazionalizzazione della giuria, al meccanismo obsoleto delle candidature, all’orientamento conservatore dei presidenti e all’uso strumentale delle disposizione testamentarie di Alfred Nobel, per cui ogni volta che conveniva si tirava fuori l’indicazione di premiare «chi nella letteratura ha prodotto la cosa più eccellente in direzione ideale» (tacendo quella di scegliere l’opera uscita «l’anno precedente» e non invece l’intera produzione di un autore). E chi veniva stroncato un anno poteva essere acclamato qualche tempo dopo: George Bernard Shaw fu prima marchiato come drammaturgo «troppo brutale e troppo poco artistico», mancando «della profondità e della serietà necessarie», ma con una notevole capriola viene insignito nel 1925. Thomas Mann subì un destino ancora più contorto: fu proposto grazie a I Buddenbrook, dopo quasi trent’anni ritornò in vita come Lazzaro, ma venne stroncato il romanzo La montagna incantata, che agli occhi della commissione non sembrava «essere tale da rafforzare la sua adeguatezza ad un premio Nobel»; infine lo vinse nel 1929. Hemingway trionfò nel ’54: prima i giudici avevano sostenuto sconsolati che la sua forza s’era «consumata prima del tempo », che Il vecchio e il mare era «un racconto sportivo scritto in modo grandioso» e che Di là dal fiume e tra gli alberi mostrava «le carenze tecniche e psicologiche dello scrittore».
Gide non andava bene per «le inclinazioni particolari della sua vita sentimentale», i temi di Faulkner erano «profondamente deprimenti », la natura delle poesie di T. S. Eliot «estremamente esclusiva», la fama di Beckett «un fenomeno di moda», con «le sue grottesche pièce teatrali, una sorta di farse metafisiche dal fare pagliaccesco» (tutti laureati poi col Nobel). L’apoteosi si ebbe nel ‘51, quando tra Steinbeck, Moravia, Camus e Pasternak, prevalse Lagerkvist, membro dell’Accademia, che aveva preso parte alle operazioni di scrematura e forse addirittura partecipato alla votazione.
Leggere i commenti è uno spasso, ma è ancora più divertente spulciare tra coloro che vennero candidati da istituzioni accademiche ed emeriti professori universitari. Il loro cattivo gusto, davvero proverbiale, ha dato vita, almeno restando nell’ambito italiano, a questa lista: Angelo de Gubernatis, Roberto Bracco, Guglielmo Ferrero, Salvatore Farina, Giovanni Schembari, Cesare Pascarella, Ettore Lo Gatto, Francesco Orestano, Alfonso Strafile, Francesco Chiesa. Sociologi, linguisti, storici della letteratura, quando non autori da bestseller di cui erano piene le biblioteche della media borghesia italiana. Avevamo capito subito il vero spirito goliardico dei primi decenni del Nobel per la letteratura.