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 2013  dicembre 13 Venerdì calendario

DISOCCUPY DOVE SONO FINITI I RAGAZZI CHE CONTESTAVANO WALL STREET


New York. La chiesa episcopale di San Luca San Matteo, rispettivamente protettori degli artisti e dei banchieri, ha abituato i parrocchiani Brooklyn a uno stile informale. Due-tre volte mese riceve fedeli e atei per misurare loro la pressione o per consulti medici gratuiti. Non parole ma opere di bene. In un venerdì sera di inizio inverno il cupo edificio romanico ospita il festeggiamento di una vittoria sorprendente. Strike Debt, uno dei vari epigoni di Occupy Wall Street, è riuscito a liberare duemilasettecento americani dal giogo di quasi 15 milioni di dollari di debito. E ora, seduti sui tavolini di formica del seminterrato, davanti a teglie di zucche alla griglia e pasta fredda, una cinquantina di militanti ragionano sul prossimo obiettivo. Tra loro c’è Marisa Holmes che avevo conosciuto a Zuccotti Park. Ho rintracciato lei e altri tre intervistati due anni fa, nello stato nascente dell’onda di protesta americana più importante dagli anni 60. Non per nostalgia, ma per cercare capire su quale scoglio si è infranta. O se invece, da tumultuosa e mediatizzata che era, si è solo divisa in tanti rivoli di cui la stampa tende inevitabilmente a perdere traccia.
A costo di rovinare la suspense, diagnosi non è affatto semplice. Molti sintomi portano verso direzioni diverse. Allo scoccare del secondo anniversario, il 17 settembre, un mesto articolo sul sito ufficiale (nycga.net) tentava di confutare un’opinione diffusa: «Il movimento che non voleva nulla non ha ottenuto nulla». Rimediando 11 like su Facebook e 3 retweet. Una miseria assoluta per l’abbozzo di rivoluzione più internettiana di sempre. Se si pensa al brand OWS e si conta quante volte oggi appare sui giornali, la caduta è spettacolare. Ma se si guarda ai valori che quel marchio sottendeva, non sono mai stati tanto presenti. Nonostante gli obiettivi confusi, per dirla col New York Times, l’eredità non lo sarebbe affatto: «Ha fatto entrare nella coscienza nazionale l’idea che i nostri livelli estremi di disuguaglianza sono politicamente insostenibili e moralmente inaccettabili e quindi il 99 per cento pretenderà qualcosa di meglio».
Chiacchiere, sbufferanno gli impazienti. E allora, su tutti, tre esempi pratici. Se Mitt Romney non ha avuto una chance contro Obama è perché è stato percepito come campione dell’1 per cento, mentre il secondo ha preso a prestito gli slogan del movimento. Se JpMorgan ha accettato di pagare 13 miliardi di dollari per irregolarità sui mutui è perché, a forza di grida contro la finanza, il clima per le banche è cambiato. Se Bill de Blasio ha stravinto a New York contro Bloomberg è perché ha battuto incessantemente sui tasti della «doppia città», ricca e povera, cari a Occupy. Ma torniamo nello scantinato, ad ascoltare Marisa. Due anni fa giurava che, federando tante assemblee generali – lo snervante autogoverno del movimento, in cui chiunque poteva dire la sua – si sarebbe potuta gestire anche una città come New York. Oggi, a ventisette anni, si mantiene come montatrice all’università pubblica Cuny, mentre finisce la sua tesi. «Quando abbiamo occupato Zuccotti avevamo così poche aspettative che non avevamo neppure portato le tende. Per noi è stata una lunga, piacevole sorpresa. Sono i media che ci valutano secondo le loro unità di misura, stando alle quali saremmo in ritirata. Ma né Occupy Sandy, con base proprio in questa chiesa, che un anno fa ha mobilitato 70 mila volontari nella ricostruzione, né l’operazione “Giubileo tonante”, che celebriamo, sono segni di scarsa vitalità». Come Obama non le piaceva allora («Ha allargato il Patriot Act, moltiplicato gli attacchi coi droni, deportato più immigrati di Bush»), non la convince ora de Blasio («Il meno peggio, ha usato la nostra retorica per piacere, ma ha preso soldi da Goldman Sachs e dai palazzinari»). Vincere o perdere, evidentemente, è anche questione di scala temporale. Lei ne adotta una lunga: «Ma qualcuno pensava sul serio che potevamo risolvere il problema della disuguaglianza in due anni? Sarà la lotta di una vita. Che ora portiamo avanti sotto altre forme».
Giro le stesse obiezioni a Vlad Teichberg, l’uomo delle dirette tv del movimento. Lo rivedo nel bugigattolo di allora, tra hackintosh (computer truccati che montano simultaneamente Windows, Mac e Linux) e sistemi casarecci per la crittatura dei dati («Dopo il Datagate siamo più attenti che mai»). A 41 anni, con una figlia che allora doveva nascere, ha preso qualche chilo ma non è meno svelto di testa. È stato in Brasile e in Turchia a insegnare agli indignati locali come organizzare live streaming durante le cariche della polizia. Ha creato Occupythecomms.cc, una piattaforma per caricare i video anonimamente, e Global Occupy Media, un portale video che documenta le proteste nel mondo. Invitato dal Pd a un seminario in Calabria aveva lanciato l’idea di una Wikipedia dei mafiosi. Dopo qualche giorno un amico gli avrebbe detto che qualche padrino non aveva apprezzato. Fine dell’avventura italiana. «Diseguaglianza era parola tabù, ora ha un posto legittimo nella discussione pubblica. De Blasio ci ha costruito la sua fortuna. E l’idea di movimenti dal basso ha germinato. I vostri Cinque stelle ne sono un esempio». Obietto che il requisito di totale assenza di leader non è esattamente riferibile a Beppe Grillo. «La tendenza all’istituzionalizzazione, il fatto che qualcuno pensava di costruirci una carriera, hanno nuociuto a Occupy. È pericolosissimo creare delle star. Se invece di un Assange ce ne fossero stati dodici non li avrebbero indeboliti i problemi giudiziari di un singolo. Parola d’ordine: decentralizzare». Ma, prosaicamente, come campa con una neonata? «Stiamo riguardando i video degli scontri e identificando gli abusi. Nell’ultimo anno la polizia ci ha risarcito 75 mila dollari. Faccio qualche soldo con le consulenze e viviamo spesso in Spagna, da dove viene la mia compagna, che ha affitti bassi e sanità gratuita».
Quanto al bilancio, siamo tornati al via. A quando il Nobel Paul Krugman sentenziò: «L’ineguaglianza è tornata a essere notizia, largamente grazie a Occupy Wall Street». Rachel Schragis, figlia ribelle della borghesia bene, era diventata famosa disegnando una grande sinossi che riassumeva le istanze (richieste era l’altra parola proibita) del movimento. La incontro nello studio compreso nella retta dell’Hunter College dove a ventisette anni si laurea in arte, davanti a una rilettura del Quarto Stato, con gli stessi vestiti coloratissimi di allora. «La risposta standard è che abbiamo “cambiato il dibattito”. Abusata, ma anche vera. E come lo misuriamo il successo? Se la metrica è la partecipazione, allora migliaia di persone che non ci pensavano neanche, con Occupy hanno capito che valeva la pena darsi da fare, e continuano a farlo in forme diverse. Aver suonato la sveglia per me è stato impagabile. Le assemblee erano sfinenti, tutto quel che vogliamo, ma non è produttivo neppure ripetere “se solo non avessimo fatto...”». Lì ha trovato un fidanzato, gli amici più stretti, lavori legati al suo exploit grafico-rivoluzionario. Ha fatto parte di Occupy Sandy, di People Puppets in cui disegna burattini da portare nei cortei («L’estetica è importante: se ha bei simboli la gente è più contenta di scendere in strada»). Insomma, morta Occupy, lunga vita ai suoi fratelli, cugini e figli. Basta non parlare di sconfitta. Che sia negazione come meccanismo di difesa o gramsciano ottimismo della volontà, cambia poco. L’ultima speranza è Kanene Holder, scoppiettante educatrice trentatreenne, da Harlem. All’epoca mi aveva detto: «Un corso universitario costa ormai quanto quattro Bmw, ma non ti porta da nessuna parte». Autocritica? «Potevamo fare come il Tea Party, accettare i finanziamenti di Soros come loro quelli dei fratelli Koch? Forse. La struttura sarebbe durata di più, ma le idee resistono comunque. Siamo stati analogici e digitali, in strada e in rete. Il sindaco di Seattle, quello di Compton in California, de Blasio a New York: non ci sarebbero senza di noi. La delusione nei confronti di quest’America è irreversibile. Siamo passati dalla frangia al mainstream: non è uno spostamento da poco». Me l’hanno ripetuto, con accenti diversi, anche da San Luca e San Matteo mentre mi spiegavano il trucco che ha reso possibile il loro laicissimo giubileo. Quando i creditori di spese mediche, rate di carta di credito o bollette si accorgono che non recupereranno i loro soldi, cedono i crediti a società specializzate in riscossione. Costoro provano a incassare e se non riescono li rivendono sul cosiddetto mercato secondario. Recuperare 4 centesimi su un dollaro è già un successo. Così, con la complicità di broker simpatetici, Strike Debt ha usato 400 mila dollari, raccolti con una colletta di un anno, per ricomprare un debito pari a quasi 40 volte tanto. «È una goccia nel mare» mi spiega Andrew Ross, professore alla New York University e tra gli ideatori, «ma mostra la follia del sistema e magari incita altri a seguire il nostro esempio». L’unico modo sicuro per non cambiare niente è credere che non si possa cambiare niente. Occupy questo l’ha insegnato e le sue filiazioni non lo dimenticano. Sul parquet del seminterrato arriva l’immancabile ragazzo con la chitarra che ripropone un vecchio successo di Woody Guthrie: «Penso a cosa pensavo stamattina/la stessa cosa cui pensavo alle tre. Devo più soldi di quanti possa restituire/più di quanti ne vedrò mai». Magari non arriveranno da nessuna parte, ma queste persone hanno cancellato il debito di tanti sconosciuti. Non sarà quello americano, ma di certo per loro un sogno si è avverato.