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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

ALMENO TU NELL’UNIVERSO


[Fabiola Gianotti]

«Dovete incontrare fabiola? Qui lei è un mito. Una persona di cui si sente parlare solo bene. Quando ha annunciato che il suo team aveva scoperto il bosone di Higgs – era il 4 luglio del 2012, lo ricordo –, piangevamo tutti. Posso venire anche io?». Giulia, una giovane ricercatrice italiana, lavora al Cern. Quando ha scoperto che Vanity Fair doveva intervistare Fabiola Gianotti, si è imbucata.
In cambio, ci fa da guida in questo posto da fantascienza ai confini tra la Svizzera e la Francia dove si cercano risposte sull’origine dell’universo e dove anche la mensa è un posto da mito in cui si incontrano persone provenienti da oltre 110 Paesi, e fisici in odore di Nobel pranzano accanto a nerd appena usciti da The Big Bang Theory.
L’appuntamento con Fabiola Gianotti è in Atlas, uno dei rivelatori di particelle di Lch, il più grande e potente acceleratore finora realizzato nel mondo. Fabiola di Atlas sa tutto, lo segue fin dalla sua costruzione all’inizio degli anni Novanta, quando era appena arrivata a Ginevra subito dopo il dottorato. È stato proprio grazie agli esperimenti Csm e Atlas che, un anno fa, è stato «visto» per la prima volta il bosone di Higgs, considerato una specie di Santo Graal della fisica. E di Atlas in particolare Fabiola nel 2009 è stata eletta coordinatore (o, come dicono qui, spokesperson) guidando un team di 3 mila scienziati, soprattutto uomini. «Quando è successo ho pensato: ma che coraggio hanno avuto i miei colleghi maschi a scegliere me in un momento così cruciale», racconterà nel corso dell’intervista.
Maglietta rossa, fisico esile, capelli corvini e sguardo vivissimo, arriva all’intervista spaccando il secondo. Tutto in lei emana rigore ma anche umiltà. Parola che lei durante l’intervista userà almeno un paio di volte e che diventa ancora più sorprendente se detta da una scienziata che ha contribuito a realizzare una delle più importanti scoperte scientifiche degli ultimi cinquant’anni (i fisici erano alla ricerca del bosone di Higgs dal 1964, quando il fisico inglese Peter Higgs ne postulò l’esistenza), una scoperta che potrebbe anche valere un Nobel. Una scienziata finita nel 2012 sulla copertina del Time come candidata a persona dell’anno, e nel 2013 inclusa dall’americano Forbes tra le cento donne più influenti del mondo.
L’intervista si svolge quasi a cento metri sotto terra su una passerella sospesa davanti a una gigantesca ruota dentata, parte del rivelatore di particelle Atlas. In piedi, casco in testa, Fabiola dopo essersi sottoposta a una raffica di domande accetta anche di posare in bilico sulla ringhiera, nonostante stia per fare tardi a una conference call con gli americani, che poi la terrà impegnata fino a sera. «Quando c’è la passione la fatica non pesa», dice, «e poi io sono positiva di carattere. L’importante sono la salute e un lavoro che ti soddisfa».

Esattamente un anno fa avete annunciato la scoperta del Bosone di Higgs: che ricordi ha?
«Grandissima gioia e soddisfazione, ma anche momenti davvero frenetici. Gli ultimi quattro anni sono stati molto intensi, ma dietro ci sono due decenni di lavoro fatto da migliaia di fisici, ingegneri e tecnici: l’acceleratore e i rivelatori, strumenti
senza precedenti per tecnologia e complessità, hanno funzionato benissimo appena accesi, e i risultati sono arrivati in tempi relativamente brevi».
Perché questa particella è così importante?
«Perché è una particella cruciale, che “fornisce massa” alle altre particelle. Se non esistesse, l’Universo non esisterebbe, o sarebbe molto diverso da com’è. Prima della sua scoperta conoscevamo sedici particelle elementari, fra queste i quark e gli elettroni, che costituiscono la materia ordinaria, e il fotone, responsabile di trasmettere la forza elettromagnetica. Il bosone di Higgs non è né una particella di materia né una particella che trasmetta una forza: è una particella che dà massa».
Come avete festeggiato la scoperta?
«Abbiamo fatto un piccolo brindisi in una delle caffetterie del Cern, ma niente di più perché molti di noi la mattina dopo dovevano prendere un aereo per andare in Australia a una conferenza».
Tutto qui?
«La scienza funziona così: si fa un passo avanti e poi si continua. Ogni scoperta apre nuove domande. Quello che sappiamo è pochissimo rispetto a quello che non sappiamo: ci vogliono grandi dosi di modestia e umiltà».
In questi anni non ha avuto momenti di scoraggiamento?
«Pochissimi. Forse uno nel 2008, subito dopo l’accensione dell’Lhc, quando l’acceleratore si è guastato. Ma è durato pochi giorni. Poi ci siamo rimboccati le maniche e siamo ripartiti».
E rinunce ne ha dovute fare?
«Mai rinunce causate dal lavoro. La vita è anche frutto di casualità. Non ho rimpianti, anche perché non servono a molto».
Quindi una vita interamente dedicata alla scienza, la sua?
«Per la scienza e per il mio lavoro ho un enorme passione, ma è importantissimo, per essere buoni ricercatori, conservare una mente aperta e avere anche altri interessi».
Come il pianoforte per esempio, visto che lei è anche diplomata al Conservatorio di Milano?
«In questi ultimi anni ho suonato un po’ meno, ma la musica mi accompagna in ogni momento della vita. Se sono stanca, le Suite inglesi di Bach mi ridanno la carica».
E a correre ci va ancora?
«Sì, spesso, la sera dopo il lavoro».
Ho letto che un’altra delle sue passioni è la cucina.
«È vero, perché è come la scienza: servono precisione ma anche una buona dose di inventiva».
Il suo piatto forte?
«Sono per metà sicilana (da parte di madre, mentre il padre è di orgini piemontese, ndr), quindi pesce spada e pasta con le sarde. Però evito gli spaghetti perché non posso vedere i miei amici stranieri mangiarli con il cucchiaio».
I suoi amici sono tutti scienziati?
«Ho molti amici qui al Cern, ma altri vengono da ambienti completamente diversi dal mio. Ho ancora contatti anche con alcuni compagni del liceo e delle medie, e altri che avevo perso hanno richiamato dopo aver letto delle mie ricerche».
In un mondo come il vostro ci saranno anche molta competitività e gelosia.
«Rivalità ci sono in tutti gli ambienti, ma qui c’è molto spazio e c’è posto per tutti. Inoltre la scienza è democratica: a contare sono le idee, non il ruolo. Contano le buone intuizioni, anche se arrivano dal più giovane degli studenti».
In Italia è così?
«L’Italia ha ottime scuole e una tradizione eccellente in fisica delle particelle. E l’ente di ricerca nel nostro settore, l’Infn – Istituto Nazionale di Fisica Nucleare –, è un fiore all’occhiello della ricerca italiana. Purtroppo la scarsità di fondi penalizza soprattutto i giovani. E così i nostri ricercatori, che sono tra i più bravi al mondo, sono costretti a emigrare all’estero, con grave danno per l’eccellenza italiana in questo campo».
A lei manca il suo Paese?
«Ci torno spesso, sia per motivi di lavoro che in vacanza. Per chi vive in un ambiente internazionale come il Cern è molto importante mantenere la propria cultura e l’attaccamento alle proprie origini».
Sono molti i ragazzi che le scrivono?
«Moltissimi, e da molti ­Paesi: Italia, Singapore, Brasile, Stati Uniti. Mi chiedono consigli, suggerimenti, mi parlano dei loro sogni. Magari non subito, ma cerco di rispondere a tutti. Lo considero un dovere».
E lei da giovane com’era, una secchiona?
«Sì, studiavo molto, anche perché oltre alla scuola c’era il pianoforte. E poi sì, ci tenevo e riuscivo bene».
Aveva già il pallino della fisica?
«Mi piacevano tante materie. Avevo pensato di studiare storia, filosofia, greco antico. Poi ho intuito che la fisica poteva dare risposte concrete alle domande fondamentali».
Quindi da piccola non sognava di studiare l’universo?
«Da piccola sognavo di fare la ballerina, ma non una qualunque: volevo diventare una étoile del Bolshoi».
I suoi genitori saranno orgogliosissimi dei traguardi che ha raggiunto.
«Certo. Mia madre del resto è una donna di molta inventiva e mi ha sempre stimolato moltissimo, facendomi fare attività diverse fin dalla più giovane età».
Che cosa le dicono?
«Nulla, ma ho scoperto che collezionano tutti gli articoli che parlano di me».