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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

QATAR, LA POTENZA DEL VUOTO


1. «Poco importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda i topi». La famiglia regnante Al Tani potrebbe appropriarsi del celebre detto di Deng Xiaoping. Che si tratti di democrazie o di regimi integralisti, il Qatar fornirà sempre il suo sostegno politico, militare, finanziario e mediatico all’unica condizione che il potere della famiglia nel proprio paese e la sua influenza nel mondo ne escano rafforzati. A colpi di petrodollari e grazie al canale mediatico di Aljazeera, il Qatar cerca di svolgere il ruolo di finanziatore e di intermediario bona fide in tutte le aree critiche del mondo sunnita, dal Sudan a Gaza passando per la Somalia, la Libia, il Marocco e oggi la Siria.
La strategia dell’emiro al-Tani consiste nel rendersi indispensabile per ogni azione occidentale nella regione, a spese dell’Arabia Saudita. L’azione internazionale della famiglia regnante si sviluppa seguendo numerosi assi convergenti: rilanciare sul piatto dell’islamismo; sostituire l’Arabia Saudita come polo d’influenza islamica in tutti i dossier del mondo arabo; trasferire al Qatar la protezione che l’Occidente e soprattutto l’America accorda ai sauditi; demonizzare l’Iran e suoi seguaci sciiti, nonostante il necessario riguardo per il vicino persiano, con cui condivide il North Dome, un gigantesco giacimento di gas naturale offshore.
Per molto tempo, il Qatar ha vissuto all’ombra dell’Arabia Saudita e dell’Iran, due minacce per la sua sicurezza che lo hanno obbligato a sottoscrive un’assicurazione sulla vita. Il precedente dell’invasione del Kuwait e la politica aggressiva della Repubblica Islamica dell’Iran non hanno fatto altro che rafforzare questa preoccupazione. Quale rimedio più efficace di pagare gli alleati creando una rete di amicizie, per non dire di debitori, a suon di fondi sovrani? [1].

2. Il peso sostanziale del Qatar sullo scacchiere internazionale è dovuto a molte ragioni, prima fra tutte la riconciliazione – apparente – dell’emiro al-Tani con la casa dei Sa’ud, che gli ha permesso di imporsi al vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc). Negli ultimi due anni in particolare, questo organismo è stato spesso sollecitato a mettere in atto provvedimenti volti a limitare l’influenza iraniana nella regione. Il miglioramento dei rapporti con l’Arabia Saudita ha poi convinto l’emiro ad abbandonare da un giorno all’altro i suoi vecchi alleati (Hizbullah e Siria) per entrare direttamente nell’orbita degli Stati Uniti. Si è così completato il riavvicinamento con Washington, avviato qualche anno prima grazie alla creazione di importanti basi militari americane sul territorio del Qatar. Infine, il paese ha approfittato dell’uscita di scena di Mubarak per prendere il posto dell’Egitto tra i paesi più influenti della Lega Araba.
L’attivismo diplomatico a trecentosessanta gradi, con le sue molteplici sfumature, spiega perfettamente il modo in cui Aljazeera ha gestito le proteste arabe. È per questo che l’emittente ha trovato conveniente cedere alle pressioni saudite affinché trascurasse ampiamente le manifestazioni scoppiate in Bahrein. Il Qatar avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel via libera dato all’intervento armato saudita per soccorrere il re del Bahrein, Hamad al-Halifa. La vicinanza geografica con l’emirato e il rischio di un precedente «pericoloso» come il rovesciamento del locale potere sunnita facevano temere per la tenuta del regime qatarino, in particolare per l’indole autoritaria e dispotica del suo governo [2].
Tenuto conto del peso finanziario del Qatar, gli occidentali fanno finta di ignorare l’imprudente schizofrenia dell’emirato. Difficile rinunciare a una tale manna e rischiare di far arrabbiare un investitore strategico in quest’epoca di crisi. L’ultima visita dello sceicco, accolto all’Eliseo da François Hollande, ha dimostrato una volta di più come in questo ambito l’approccio del presidente francese non si distacchi nemmeno di una virgola da quello del suo predecessore, Nicolas Sarkozy, grande promotore in Francia della politica del Qatar.
La Francia tuttavia non trascura gli aiuti finanziari che l’emirato concede ai movimenti islamisti più radicali. Nel giugno scorso, il settimanale Le Canard enchaîné rivelava che la Direction du renseignement militaire (Drm, i servizi segreti militari) aveva raccolto notizie secondo cui gli insorti del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad, i movimenti islamisti radicali Ansar al-Din, al-Qa’ida nel Magreb islamico (Aqim) e il Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa dell’Ovest (Mujao) avevano ricevuto aiuti in dollari da parte del Qatar. Gli ufficiali della Drm dichiaravano che «la generosità del Qatar è senza eguali e l’emirato non si è accontentato di aiutare finanziariamente i rivoluzionari di Tunisia, Egitto e Libia ma talvolta ha consegnato armi» [3]. Il Qatar investe laddove, qualche anno fa, nessuno si sarebbe aspettato. Investimenti lungi dall’essere pianificati per amore della stabilità del Medio Oriente.
A partire dalle prime insurrezioni, Doha ha scelto da che parte stare: a fianco delle rivoluzioni, per imporsi come attore inevitabile dei cambiamenti in corso. Convinti che si tratti di un’onda anomala, l’emiro e il suo consigliere pensano che la cosa migliore da fare sia posizionarsi dalla parte giusta. Tanto più che in questo gioco hanno degli ottimi assi nella manica: Aljazeera, certamente, ma anche legami di lunga data stabiliti con gli oppositori dei vecchi regimi, per la maggior parte esponenti di un islam politico e conservatore che, seguendo la scia delle insurrezioni, si impone un po’ ovunque.
Tutti sono passati da Doha. Il celebre predicatore televisivo egiziano, membro dei Fratelli musulmani, Yusuf al-Qaradawi, futuro leader della ribellione in Libia; il capo di Hamas, Halid Mis’al; il fondatore del Fronte islamico di salvezza dell’Algeria, ‘Abbasi Madani. O ancora il «padrone di Tripoli» ‘Abd al-Hakim Bilhag, per molto tempo membro del Gicl [4]: nel maggio 2011, Bilhag è partito dal Qatar per andare a guidare nella guerra contro Gheddafi la brigata 17 febbraio, formata ed armata dalla Francia e dagli Emirati Arabi Uniti.

3. Il Qatar è stato uno dei primi Stati a riconoscere il Consiglio nazionale libico di transizione. Il paese ha fornito armi, uniformi e 400 milioni di dollari ai ribelli, aiutandoli a vendere il loro petrolio. Mentre la primavera araba rovescia lo status quo nel Medio Oriente e un nuovo ordine deve ancora nascere, il denaro, la diplomazia, le trattative dell’emirato hanno già contribuito a renderlo una potenza regionale in crescita. Nessun paese più del Qatar ha tratto vantaggio dalla primavera araba. Le potenze estere rivali – gli Stati Uniti e il loro avversario iraniano – hanno ottenuto dei risultati più che discordanti: Washington ha perso due alleati, la Tunisia e il presidente dell’Egitto Hosni Mubarak, ma soprattutto l’America ormai è vista come il nemico del mondo arabo. Il nuovo statuto il Qatar l’ha acquisito grazie a un doppio discorso e a slalom diplomatici incessanti, numeri da equilibrista che hanno comportato parecchie incertezze per il paese, già bersaglio di una certa ostilità da parte delle cancellerie mondiali. Infatti, all’infuori della Libia, di una parte dell’opposizione siriana e degli islamisti della rivoluzione egiziana, il Qatar ha ben pochi alleati.
L’emirato ha essenzialmente colmato un vuoto, sfruttando la distrazione dei due pesi massimi della scena araba. Primo, l’Egitto, che nel passato era lo Stato più presente a livello diplomatico ma è ora oppresso da un’instabilità postrivoluzionaria e adotta una posizione più cauta riguardo alla guerra civile siriana. Secondo, l’Arabia Saudita, governata da gerontocrati malati, tiene un profilo relativamente discreto ma non per questo passivo. Il Qatar si presenta quindi come la «potenza del vuoto» (vacuum power), secondo l’espressione del professore associato al Hudson Institute Lee Smith, «un minuscolo paese che supera gli altri Stati arabi per il semplice fatto che a Doha c’è qualcuno che risponde al telefono. Ed è proprio questo che si augura il Qatar: restare un interlocutore privilegiato per chiunque».
Questa «diplomazia del tappeto volante», come è stata chiamata dalla rivista britannica The Economist, echeggiando la «diplomazia del ping-pong» che descriveva la politica di riconciliazione fra Cina e Stati Uniti negli anni Settanta, promuove l’emirato a campione dell’intermediazione fra islamisti e americani in vista della creazione di un islam moderato. L’Arabia Saudita non ha sempre visto di buon occhio l’attivismo diplomatico del suo vicino, ma oggi lo lascia agire indisturbato in Siria: per entrambi i paesi si tratta di una convergenza di interessi nell’eventualità della caduta del regime di al-Asad. «Esiste fra loro una vera e propria rivalità mimetica», sostiene Karim-Emile Bitar, ricercatore all’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris).
I due paesi sono wahhabiti, appartengono cioè alla forma più intollerante e più esclusiva delle quattro scuole giuridiche dell’islam, e ciascuno sostiene dei movimenti fondamentalisti. Come l’Arabia Saudita, il Qatar è una monarchia assoluta di diritto divino. Più precisamente, il sostegno ai fondamentalisti ha spesso rappresentato per questi paesi un modo per assicurare l’ordine interno. Per il Qatar come per l’Arabia Saudita, ancora più esposta a tale rischio, la posta in gioco è rallentare la comparsa di una primavera araba domestica che destabilizzerebbe regimi i quali, attualmente, non posseggono alcun tipo di legittimazione democratica né rispettano i diritti umani.
Una sorta di accordo a breve termine fra i due fratelli nemici dell’islam, come confermato da Bertrand Badie, professore di Relazioni internazionali a Science Po, a Parigi: «C’è una sorta di divisione del lavoro fra Riyad e Doha: la prima, vicina ai salafiti, la seconda, vicina ai Fratelli musulmani tradizionali. Ma la prospettiva è simile da un duplice punto di vista: ricostruire un mondo arabo a partire dal baluardo della Penisola Arabica, con un inevitabile reinvestimento religioso e persino fondamentalista; il tutto, almeno in un primo momento, d’intesa con le diplomazie occidentali e con l’ulteriore obiettivo di arginare due potenze in allerta, la Turchia e l’Iran. In una congiuntura così fluida, queste iniziative hanno senza dubbio un certo peso. Comunque non scommetterei sulla loro capacità di durare nel lungo periodo senza suscitare tensioni e forti ostilità all’interno del mondo arabo, persino in alcuni principati del Golfo, e senza creare screzi futuri con le potenze mondiali, incluse quelle occidentali» [5].
Il conflitto siriano è l’emblema delle contraddizioni causate dall’alleanza delle petromonarchie del Golfo. In questa guerra, più sfide riconducono a un unico obiettivo: fra scommesse geopolitiche e religiose, i paesi sunniti, di cui l’Arabia Saudita e il Qatar sono i leader, tentano di eliminare il loro nemico sciita/alauita dalle mappe del Medio Oriente. Nelle parole di Richard Labévière, ex direttore dell’Istituto di Alti studi della Difesa nazionale: «Si tratta di una dinamica tutta regionale che mette faccia a faccia il mondo sunnita, principalmente mosso dal denaro delle monarchie petrolifere, e “l’asse del Male”, per riprendere l’espressione di Condoleezza Rice e dei conservatori americani, Iran-Siria-Hizbullah e movimenti palestinesi. È questo ora il vero scontro e nessuno crede che il Qatar e l’Arabia Saudita – come tutti sanno due grandi “democrazie” – si preoccupino di instaurare la sovranità popolare in Siria. Il loro scopo è soprattutto di far mangiare polvere all’Iran». Un vero e proprio «scivolamento tettonico», secondo il ricercatore Olivier Roy, tanto che «la frattura sciiti-sunniti diventa più importante di quella israelo-palestinese» [6].

4. Nel biliardo mediorientale, il Qatar cerca di far buca colpendo tre sponde. Primo, gioca tutti i ruoli contemporaneamente, ieri il soft power, domani l’hard power. Secondo, sostiene ogni tipo di regime, ieri le presunte «primavere arabe democratiche» oggi i rappresentanti al potere dell’islam più conservatore. Terzo, pretende di restare mano nella mano con gli Stati Uniti. Questa complessa strategia potrebbe nondimeno ritorcersi contro l’emirato. La domanda è: il Qatar non rischia forse la «sovraestensione imperiale»? Possiede davvero i mezzi per le sue formidabili ambizioni diplomatiche, in particolare nel mondo arabo?
La politologa francese Fatiha Dazi-Héeni, autrice di uno studio sul «desiderio di potenza» ed esperta del mondo arabo, non nasconde il suo scetticismo: «Nonostante il successo di Aljazeera, l’ambizione per lo sviluppo del suo soft power attraverso un’influenza economica e politica crescente potrebbe costituire la goccia che fa traboccare il vaso di un mondo arabo in pieno mutamento. Peggio ancora, la pretesa di erigersi a hard power (intervento in Libia, militarizzazione dell’opposizione siriana) potrebbe costare cara al Qatar. Tutto il credito accumulato dalla diplomazia di mediazione fra gli anni 1996-2010 potrebbe ritorcersi contro di esso, come già dimostrato dalla difficoltà di incidere sul corso degli eventi in Siria. In realtà i dirigenti qatarini sono guardati con sospetto dai loro colleghi arabi e da una parte delle società arabe, in particolare in Nordafrica, dove le ambizioni economiche del Qatar sono notevoli» [7].
Né la Libia né la Tunisia, per quanto alla ricerca di nuove risorse per rilanciare la loro economia, hanno accettato le condizioni della petromonarchia e guardano con diffidenza l’infiltrazione o il rafforzamento islamista proveniente dagli aiuti del Qatar. L’Egitto, sia pur malvolentieri, ha accettato in agosto un aiuto di due miliardi di dollari e un piano di investimenti quinquennale per 18 miliardi. Pura filantropia? Un’intensa lotta infuria per riuscire a influenzare i Fratelli musulmani egiziani. Molti osservatori si sono resi conto che il Qatar si è ritagliato un ruolo al Cairo, in un momento in cui l’influenza saudita e quella americana sono incerte. Stranamente lo slancio di generosità del Qatar nei confronti dell’Egitto ha coinciso con il vertice dell’Organizzazione della cooperazione islamica a Gedda. Poco riconoscente, qualche giorno dopo, Muhammad Mursi ha proposto la formazione di un gruppo di contatto, di discussione e di riconciliazione per risolvere la crisi siriana attraverso mezzi pacifici. Chi costituisce questo gruppo? L’Arabia Saudita, l’Egitto, la Turchia e l’Iran. Vista l’esclusione del Qatar dal quartetto, l’emiro al-Tani non ha nascosto il suo dispiacere. Invano. Ecco i limiti della diplomazia del portafoglio.
L’attacco al consolato americano di Bengasi dell’11 settembre 2012 ha fornito un’altra prova delle debolezze della strategia del Qatar – sviluppata in collaborazione con le potenze occidentali e soprattutto con gli Stati Uniti – per «addomesticare» i partiti islamici emersi dalle primavere arabe. Per ragioni storiche, il Qatar finanzia soprattutto i Fratelli musulmani, lasciando il sostegno dei salafiti all’Arabia Saudita. In mancanza di prove schiaccianti, è però difficile sapere precisamente secondo quali termini il Qatar e l’Arabia Saudita si dividano il sostegno ai salafiti e ai Fratelli musulmani.
Non potendo accordarsi con l’islam jihadista, gli Stati Uniti hanno lasciato che il Qatar e l’Arabia Saudita lo finanziassero per controllarlo meglio, come parte di una strategia di arginamento che fatica a dare risultati. Voltandosi dall’altra parte sul mancato rispetto dei diritti umani e mostrandosi indulgenti verso i paesi in cui sale al potere l’islamismo cosiddetto «moderato», gli Stati Uniti cercano in realtà di premunirsi contro qualsiasi attentato terrorista sul loro territorio. L’obiettivo degli Usa è circoscrivere l’islam all’interno delle sue frontiere per così dire «naturali», per limitare i danni collaterali sul suolo americano.
L’attacco al consolato di Bengasi dell’11 settembre 2012 e le svariate manifestazioni antiamericane che hanno avuto luogo in Egitto, Libia e nel resto del Medio Oriente dovrebbero incitare gli americani a riflettere sull’efficacia di questa nuova Realpolitik in terra islamica e, in particolare, a relativizzare il ruolo strategico di intermediatore del Qatar, finora incapace di promuovere la nascita di un «islam soft».
(traduzione di Elena Bonfiglioli)

Note:
[1] R. SOUBROUILLARD, «E il Qatar comprò la Francia», Limes, «La Francia senza Europa», n. 3/2012, pp. 263-272.
[2] «Is Al Jazeera Turning a Blind Eye to Bahrain?», Reuters, 14/4/2011.
[3] «Notre ami du Qatar finance les islamistes du Mali», Le Canard enchaîné, giugno 2012.
[4] Il Gruppo islamico combattente libico, ad oggi scomparso, era un’organizzazione islamica armata che lottava contro il regime della Gamahiriyya araba libica guidata dal colonnello Muammar Gheddafi. Tale milizia si era distinta per i suoi attacchi omicidi a Bengasi e a Derna prima di essere sciolta dalle autorità libiche. Molti dei suoi membri avrebbero raggiunto al-Qa’ida in Afghanistan e in Iraq.
[5] B. BADIE, «Le printemps arabe a révélé l’existence d’un islamisme hétérogène et composite», Le Monde, 19/1/2012.
[6] Nella sua opera Les dollars de la terreur: Les Etats-Unis et les islamistes, Paris 1999, Grasset, Richard Labévière spiegava i legami fra Cia, al-Qa’ida, Arabia Saudita e Qatar.
[7] F. DAZI-HENI, «Désir de puissance: Le Qatar a-t-il les moyens de ses ambitions diplomatiques dans le monde arabe?», Actuelle de l’Ifri, Institut français de relations internationales, 21/7/2012.