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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

«OLGIATA, VENT’ANNI DI ERRORI. IO DA SOLO CONTRO I GIUDICI»

Una porta che si spalanca su una stanza messa a soqquadro, il cadavere insanguinato di una bella donna bruna riversa a terra nella sua camera da letto, urla di paura e di dolore, due bambini portati via in tutta fretta con l’orrore negli occhi. Inizia così, la mattina del 10 luglio 1991, uno dei gialli più clamorosi, più controversi e più discussi dell’ultimo mezzo secolo: l’omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre che passerà agli annuari della cronaca nera come il delitto dell’Olgiata. Gli ingredienti per un thriller al calor bianco ci sono tutti: la vittima, ricca e fascinosa, l’ambiente d’élite, i retroscena inquietanti in cui compare perfino l’onnipresente ombra dei servizi segreti, la location, tanto chiusa quanto esclusiva come il comprensorio residenziale sulla via Cassia, invalicabile agli estranei. Colonna sonora: un coro insistente, insinuante e incessabile di pettegolezzi
al vetriolo.
Peccato che manchi quel protagonista che, in tutti i noir che si rispettino, vale più della trama e dello stile: l’investigatore sagace e testardo che non molla mai. Perché l’omicidio dell’Olgiata non è stato risolto, dopo vent’anni e passa, da un carabiniere cocciuto o da un poliziotto irriducibile tipo Montalbano. A far individuare il colpevole e costringere letteralmente la magistratura a farlo arrestare è stato il marito della vittima, Pietro Mattei, imprenditore edile dall’aria bonariamente romanesca e dal carattere d’acciaio, che non si è mai arreso e ha continuato a battersi fino al 9 ottobre 2012, quando la condanna a 16 anni dell’ex domestico filippino Winston Manuel è stata confermata in Appello. Mattei, per quasi quattro lustri, ha sopportato insinuazioni, sospetti velati, perfino denunce inconsistenti, ma ora ha deciso di passare al contrattacco: un esposto al Csm in cui chiama in causa i pm di allora, Italo Ormanni, Cesare Martellino e Nicola Maiorano (uno dei magistrati, Settembrino Nebbioso, è deceduto) parlando di un’indagine sciatta, superficiale e arruffata. «I giudici hanno girato il mondo per cercare una verità che avevano sotto gli occhi fin dall’inizio» spara a zero Mattei. «Quell’indagine è stata uno scandalo, vogliamo una sanzione per questi magistrati e un risarcimento che devolveremo alla fondazione intitolata ad Alberica ».
Cominciamo dalla fine. Da quella macchia di sangue che, dopo due richieste di archiviazione della procura impugnate dai legali della famiglia Mattei, diventa la pistola fumante che inchioderà definitivamente Winston. Il Dna non mente e quel sangue è sicuramente del filippino, che aveva battezzato una figlia col nome della contessa e che resistette due giorni prima di confessare e chiedere perdono. Winston Manuel, tipo litigioso con la passione del whisky, era stato tra i due primi indagati insieme a un giovane vicino di casa, ma sembrava ormai lontano da ogni sospetto perché gli esperti della prima ora (ma anche quelli della seconda, dopo che il caso fu riaperto nel 2007 su richiesta di Pietro Mattei) quella macchia di sangue grossa come una moneta da due euro proprio non la volevano vedere. Eppure l’evidenza sembrava lampante: il lenzuolo con cui l’assassino avvolse la testa della vittima, come per celarne lo sguardo, era punteggiato di piccole macchie rosso
scuro, tutte della contessa. L’unica eccezione era quella più grande, color rosa tenue, che sembrava uscita da un’abrasione o da una ferita superficiale esattamente come quella che l’ex domestico aveva sul gomito e che giustificò spiegando che si era grattato, per il nervosismo, nell’attesa di un interrogatorio. E non ci voleva molto a capire che se i cani non avevano abbaiato l’assassino, quasi certamente, era qualcuno di casa ma gli investigatori, in quel momento, erano troppo occupati dietro le tracce dei servizi segreti, dei conti correnti all’estero e di una vecchia e nota amicizia tra Michele Finocchi e la famiglia Mattei.
Ma non basta. Nessuno pensò di analizzare le tracce sul Rolex della contessa uccisa, quell’orologio rimasto al polso del cadavere e su cui qualche investigatore della domenica elaborò la brillante teoria della rapina simulata. Il Rolex fu riconsegnato al fine di eseguire analisi del Dna da Pietro Mattei e permise di rilevare altri, minuscoli, frammenti di Dna. Ma la commedia nera degli assurdi riserva un terzo colpo di scena a scoppio ritardato. Il 13 settembre, pochi giorni dopo l’omicidio, l’ex domestico confessa indirettamente il delitto al telefono. Parlando con un ricettatore filippino, gli spiega che ha un gioiello da vendere, una frase che l’avrebbe catapultato in carcere alla velocità di un cacciabombardiere. Non era intercettato? Naturalmente sì, ma il problema è che nessuno fece tradurre e ascoltò quella conversazione. Su 14 registrazioni, solo 5 furono consegnate agli interpreti. Ci pensò, vent’anni dopo, il pm Francesca Loy (una bionda tosta, che non sfigurerebbe in una puntata di Closer) decisa a indagare come se il delitto fosse avvenuto una settimana prima e di riesaminare tutte le prove una per una. Distrazioni, sviste clamorose, errori, false piste. E una soluzione fin troppo semplice che arriva vent’anni dopo, come la seconda puntata della trilogia di Dumas padre. Nei thriller non succede mai. Nella realtà, purtroppo, si. Altro che Montalbano.