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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

RIPARTIAMO DA PIÙ ELASTICITÀ E MENO

BUROCRAZIA –
La moda italiana trionfa a Londra, stando alle cronache di ieri che narrano dell’inaugurazione con una sfilata di una nuova boutique di Dolce e Gabbana nella sfarzosa Bond Street. Le grandi multinazionali del lusso, però, trionfano sulla moda italiana, stando alle cronache dell’altro ieri: siamo stati informati che il controllo di uno dei marchi più importanti della moda italiana, quello di Loro Piana, è stato assunto dalla Lvmh una grande multinazionale francese specializzata, appunto, in articoli di lusso.

Il caso Loro Piana conferma che, quando investono nel «made in Italy» le grandi imprese straniere hanno come obiettivo principale l’arricchimento del loro «catalogo» di prodotti già noti, non la creazione di nuovi posti di lavoro o prodotti innovativi. L’elenco di investimenti di questo genere è lunghissimo e molto vario: si va dalla Ferretti, costruttrice di yachts, comprata dai cinesi, alla Bulgari, grande creatrice di gioielli, ora controllata dalla stessa Lvmh.
I gioielli di Pomellato sono andati a Pinault, un altro gruppo francese che possiede anche il marchio Gucci, mentre il marchio TwinSet è finito al fondo americano Carlyle. Anche le imprese italiane del «made in Italy» hanno effettuato acquisti all’estero, insufficienti, però, a modificare il quadro globale: questa categoria di beni di consumo, diventata uno dei pilastri dell’economia italiana, è in Italia, nel complesso, poco dinamica e contribuisce alla stasi più che alla crescita del Paese.

Mentre i grandi vengono comprati, i piccoli se ne vanno. Sono forse più di un migliaio le piccole imprese industriali, un tempo localizzate in prossimità dei confini italiani, che negli ultimi anni hanno trasferito sedi e attività nei Paesi limitrofi anche quando, come per la Svizzera – che è forse il fulcro di questa singolare e allarmante migrazione – il costo del lavoro è più alto di quello italiano. A quest’esodo, certo non piccolo, si aggiunge l’emigrazione dei «cervelli»: si può tranquillamente stimare, sia pure in assenza di statistiche precise, che il numero dei giovani laureati, spesso dotati di eccellente preparazione, che si trasferiscono all’estero per lavoro stia toccando nuovi massimi. All’estero trovano carriere più rapide, maggior soddisfazione professionale e retribuzioni mediamente più elevate di quelle ottenibili presso le imprese italiane.

Nel momento in cui in Italia si osservano i primi, sia pur deboli, segnali di ripresa (a maggio l’indice previsionale dell’Ocse indica per il nostro Paese una crescita dello 0,23 per cento rispetto a un anno fa, il doppio della bassissima media europea), è opportuno che governo, classe politica e cittadini riflettano sui motivi per cui imprese importanti per il futuro del sistema produttivo vengono vendute a gruppi stranieri e giovani preparati «scappano» all’estero. Solo se i motivi di debolezza verranno compresi l’attuale, modestissimo, recupero potrà davvero rafforzarsi anziché andar perduto.

Questi motivi sembrano essere essenzialmente due. Il primo, e più importante, è che qualcosa di profondo sembra essere mutato nell’atteggiamento degli italiani nei confronti delle imprese, della produzione, della crescita: negli Anni Cinquanta e Sessanta, le autorità locali erano più che disposte a modificare i propri piani regolatori per fare spazio a nuovi insediamenti produttivi, ora chiedono imperiosamente alle imprese di modificare i piani aziendali per adeguarsi al territorio. Non è il caso di domandarsi se ciò sia bene o male, è sufficiente constatare che su questa strada l’Italia è quasi unica e che altri Paesi (la cui sensibilità ambientale e sociale è spesso maggiore della nostra, come a esempio la Germania) sono più accomodanti e accoglienti nei confronti di nuove iniziative economiche. Ogni iniziativa che incide sull’ambiente, dalle discariche alle nuove linee di trasporto, dagli inceneritori ai rigassificatori e alle centrali elettriche, suscita accanite resistenze che contribuiscono fortemente alla minore crescita italiana.

Il secondo motivo per cui non si investe in Italia, e molti giovani scappano, è quello che può essere definito l’intreccio tra burocrazia e molte professioni «libere». La burocrazia continua a produrre norme e procedure particolarmente complicate e lente; avvocati, notai, commercialisti e altre figure professionali si offrono di risolvere, o quanto meno di gestire, queste complicazioni. Tutto ciò implica un costo molto elevato non tanto, o non solo, in termini finanziari ma soprattutto per quanto riguarda i tempi di realizzazione dei programmi delle imprese, in un mondo in cui la rapidità dell’esecuzione è essenziale.

Va poi considerato il diffondersi di un atteggiamento corporativo che tende a tutelare il lavoro esistente più che a favorire le nuove iniziative. Nelle stesse «libere» professioni viene limitata fortemente l’entrata dei giovani, costretti per legge a lunghi periodi obbligatori di praticantato poco pagato; e le risorse finanziarie che tutelano i lavoratori «ufficiali» (come quelle per la lunghissima cassa integrazione dell’Alitalia) sono obiettivamente sottratte ad altri impieghi, potenzialmente più dinamici. Il tutto forma un blocco che rallenta o scoraggia l’afflusso di capitali finanziari e favorisce il deflusso verso l’estero del «capitale umano» rappresentato da giovani preparati.

Sulla base di questa analisi, per sfruttare e potenziare le modeste tendenze alla ripresa attualmente in corso pare necessario agire in due direzioni: la prima è lo snellimento delle procedure di insediamento sull’esempio francese o tedesco, forse anche con l’istituzione di una «piattaforma burocratica» per chi (italiano o straniero) intende fare investimenti, evitandogli di trattare direttamente con i singoli enti; la seconda è l’introduzione di una maggiore elasticità, troppo lungamente rinviata, nelle libere professioni, che costituiscono un punto essenziale e troppo a lungo dimenticato del rinnovamento italiano. Una tutela meno rigida dell’esistente, una maggiore apertura all’estero e ai giovani sono premesse indispensabili perché l’Italia torni, se non a correre, almeno a camminare.