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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

IL BAR CINESE

Chiara Chin, 21 anni, è una bella ragazza. Qualcuno, fra i clienti del bar Centrale, la chiama “bimba” e cerca di allungare le mani, ma lei fugge come una trottola. «Se al banco vedono me, entrano tutti. Se ci sono il mio papà o la mia mamma, qualcuno si ferma sull’uscio. I bambini sono i più sinceri: “Mamma, ci sono i cinesi”, gridano. Vanno all’altro bar, venti metri più in là. Ma anche lì ci sono i cinesi». Due bar, in piazza Marconi. La famiglia Chin al Centrale, la famiglia Qiu al Piccadilly. «Sono qui dal 2009 – dice la signora Chunli Qiu, 32 anni – e qualcuno non si è ancora abituato alle nostre facce. I miei clienti mi raccontano che prima, quando dietro il bancone c’erano degli italiani, al mattino arrivavano anche delle signore, per la colazione. Io non le ho mai viste.
C’è un’Italia che si mescola, al bar Centrale. Su un muro decine di coppe vinte dall’Unione pescatori Panfilia e dietro la macchina del caffè il “Buddha della Felicità” e il “Buddha dei soldi”. Nel cavo napoleonico non ci sono più lucci e carpe e anche l’Unione pescatori è stata sciolta. Ma i ricordi servono a passare le giornate vuote. «Andavamo a fare le gare nel canale di Ostellato, eravamo molto bravi. In Reno pescavamo anche i branzini». Luigi Cusinati, 73 anni, è uno dei clienti fissi. Otto tavolini, sette macchinette mangiasoldi. Chiacchiere in dialetto ma con i baristi arrivati da Shanghai si parla in italiano. «Questi qua – dice Cusinati – sono campioni del mondo. Tengono il bar pulitissimo e l’italiano lo parlano meglio di noi».
Si apre alle 5 del mattino, si chiude all’1,30 della notte. Come negli altri bar del paese anche qui c’erano gestori italiani, che poi hanno contato prima le ore di lavoro e poi l’incasso quotidiano e sono andati via. Un euro un caffè, un euro un bicchiere di vino alla spina. «Se non ci fossero i cinesi, non sapremmo più dove andare». Qui a Sant’Agostino, oltre alla crisi, è arrivato anche il terremoto. Il municipio non c’è più, chiesa e campanile sono coperti da tubi e tiranti. «Noi restiamo aperti – dice Chiara Chin – perché non contiamo le ore che passiamo qui. Mio padre apre all’alba, io lavoro dalle 14 alle 22 e poi arriva mia mamma. Verso sera arrivano anche i ragazzi, per una birra e un aperitivo. Dai, si scherza anche, si ride. Per me è bello lavorare in mezzo alla gente. I corteggiatori? Sono una marea».
Al Piccadilly c’è anche una sala con i biliardi. Nel bar un grande ventaglio con la scritta che augura buona fortuna. «A me però – dice Chunli Qiu, “per tutti Giulia, che è più facile” – non è andata molto bene. Ho aperto un anno dopo l’inizio della crisi e faccio fatica ancora oggi. In paesi come questi ormai i soldi sono in tasca soltanto ai pensionati. Stanno qui una mattina o un pomeriggio intero prendendo un caffè o un bicchiere di spuma. Non spendono perché sono bravi: con la pensione comprano la benzina o una ricarica del telefono ai loro nipoti, perché tanti non hanno lavoro».
“Giulia” è in Italia da 13 anni. «Avevo un tomaificio a Civitanova Marche ma con la crisi sono cominciati i guai. Consegnavi tomaie a una ditta per due o tre mesi e alla fine quelli non ti pagavamo. Se fai causa, devi aspettare anni. Mi ha telefonato una sorella da Bologna, ha detto che in tutta l’Emilia i cinesi facevano affari con i bar. Così mi sono decisa: al massimo qualcuno non mi pagherà un caffè, almeno non rischio il fallimento». Cinque tavolini anche all’aperto. Un giornale ormai sfatto perché comincia a passare di mano in mano alle 6 del mattino. La sala biliardi apre solo una volta la settimana, quando arriva “la squadra”. Sei macchinette mangiasoldi, quasi sempre mute. «Lo sa come le chiamiamo in Cina? Macchine– tigri. Perché? Le tigri sono forti, mangiano tutti».