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 2013  luglio 10 Mercoledì calendario

IL BAR CINESE

MILANO Un terrestre su cinque è cinese. Un bar di Milano su cinque, pure. Anzi, un po’ di più: uno su quattro e mezzo. Nel 2007 erano appena 120. Adesso sono 522 su 2.300 totali. In sei anni, una crescita del 335%, che non ha riscontri in nessun’altra città italiana. Terzi, dopo di loro e naturalmente gli italiani, gli egiziani, con un marginale 2%. Se poi a Milano aggiungiamo l’hinterland, i piccoli bar con titolare cinese salgono a 709. Il tutto mentre nella capitale dello shopping (ex?), da gennaio a oggi hanno tirato giù la saracinesca 140 vetrine, con la prospettiva di una Caporetto entro l’anno, comparto ristorazione compresa.
Milano in saldo, con i francesi di Lvmh, colosso del lusso, che si pappano la pasticceria Cova, due secoli di storia nel quadrilatero della moda, per una cifra superiore ai 12 milioni di euro offerti e rifiutati a Prada. E con i cinesi che invece scendono a pioggia, piccole gocce da 80 a 300 mila euro.
Comprano o aprono ristoranti (e qui i prezzi salgono, fino al milione di euro): oggi sono 450 con la loro cucina, più 250 giapponesi, che di nipponico mantengono giusto il menù. Ma soprattutto collezionano, muri compresi, bar su bar su bar, a macchia di leopardo, dovunque ci sia un’occasione o un proprietario indebolito dalla crisi. Soldi in contanti (molto spesso), trattative sottobanco (molto spesso), due giorni di training per imparare l’indispensabile, e via che si parte. Un caso, un affare o una strategia?
La signora Huang Suping è consulente di Confcommercio, viene dallo Zhejiang, a sud di Shangai, come gran parte dei suoi connazionali “milanesi”.
La sua è una spiegazione quasi antropologica: «Da noi i bar non esistono, in Italia invece sono un classico, richiedono poco personale, piccolo investimento. Si può tentare. E poi i cinesi, al semaforo, non guardano se è verde o rosso: passano se vedono che gli altri passano. Così con gli affari: se uno ha successo con un’attività, altri lo seguono». E siccome gli altri sono tanti, 24.800 in regola solo a Milano, quadruplicati in 10 anni, prima città per presenze davanti a Roma (12 mila), Prato (11.800), Torino (5.400), l’effetto gregge ha risvolti considerevoli. Specie se si tiene conto che, secondo la Camera di Commercio, un cinese su 7 è imprenditore; che sono in genere lavoratori che non si risparmiano (e ancora meno risparmiano chi lavora per loro); e che infine hanno un accesso al credito che un italiano del 2013 se lo sogna e sulla cui tracciabilità regna una sorta di nebbia orientale.
Questo significa molte cose, tra le quali che se entri in un bar, escluso il centrocentro (per adesso), hai buone possibilità di trovare le stesse cose che trovi nei bar italiani, solo che costano un po’ meno (il caffè, aroma discutibile, da 60 a 80 centesimi, invece di un euro), la qualità di piatti e panini non è eccelsa ma compensata dal risparmio sul prezzo, trovi aperto molto più a lungo e molti più giorni la settimana rispetto alla concorrenza e, se non guardi in faccia chi ti sta servendo, potresti essere in qualunque bar di Milano: rarissimi, e spesso assenti, oggetti o arredi made in China, le insegne restano quelle di una volta, giusto la tv sta sintonizzata non proprio secondo il sentimento popolare, nel senso che, se magari gioca l’Italia su RaiUno, sullo schermo c’è un film d’amore o uno spara-spara.
Il bar del Cerutti Gino («ma lo chiamavan Drago»), il biliardo con le lampadone verdi a illuminare il campo, la mensola con le coppe di chissaché, il fumo e il profumo del covo anti solitudine celebrato da Gaber, Jannacci e compagnia cantante, si è ristretto come un espresso. E al posto del rumore vellutato delle palle sul panno verde o del chiasso dei biliardini, adesso comanda la musica frenetica delle slot, tre attaccate alla rete (e quindi lecite) e magari due connesse col trucco (e quindi illecite), che la solitudine la impongono come regola del gioco e a quel punto, che a servirti una birra sia un mandarino o uno del Giambellino, cambia francamente poco.
Sta cambiando invece, e tanto, l’anima operosa di Milano. All’imbocco di via Dante, elegante passerella pedonale che collega il Castello Sforzesco all’anticamera di piazza Duomo, ci sono due edicole, una gestita da un cinese, l’altra da un ecuadoregno: a consegnare i giornali all’alba viene un albanese. L’edilizia se la stanno prendendo i rumeni, come il giro delle badanti; le pulizie quelli dello Sri Lanka, i filippini (prima comunità, con 33.700 residenti) il ramo domestiche-domestici, gli egiziani (secondi per numero, 28.600) panetterie e pizzerie. Ma il vero sole nascente sono i cinesi. Il cognome più diffuso in città resta Rossi, ma al secondo posto c’è Hu, che scavalca Colombo, terzo, e surclassa Brambilla, tristemente nono. La zona di Paolo Sarpi, che è l’ombelico dell’impero in espansione (primo insediamento, anni Venti del secolo scorso), è un budello di circa un chilometro, arteria centrale di una Chinatown che si estende ormai per strade storiche della vecchia Milano come via Bramante, via Rosmini, via Lomazzo. Siccome dentro c’è un po’ di tutto, negozi al dettaglio e magazzini all’ingrosso, e si verificava un via vai incontrollabile di camion e furgoni a qualsiasi ora, nel novembre scorso il Comune, «per riqualificare il quartiere e tutelare i residenti» ha varato un rigoroso piano di contenimento del traffico merci. È durato poco: all’inizio di luglio il Tar ha annullato il provvedimento della giunta Pisapia, «perché vìola diversi diritti costituzionalmente tutelati», e il casino è subito ripreso più allegro che pria.
«Quella cinese è una comunità molto coesa, autocratica, con una notevole capacità di lobby e una certa tendenza all’invisibilità », dice Marco Granelli, assessore alla sicurezza e alla coesione sociale, un tentativo coraggioso di unire légalité e fraternité.
«Cerchiamo in tutti i modi di dialogare con i rappresentanti delle seconde e terze generazioni, ma è indubbio che esistano zone d’ombra.
A parte i sequestri di merce contraffatta e pericolosa, le chiusure di bische clandestine o di studi ginecologici e dentistici senza requisiti, l’impressione è che esista un universo parallelo, difficilmente penetrabile, dove il cinese si organizza in proprio: dalla scuola all’assistenza medica o bancaria». E la moltiplicazione impetuosa dei bar, assessore? Alfredo Zini, vicepresidente dell’associazione pubblici esercizi di Confcommercio, li definisce «sentinelle sul territorio» in vista del grande sbarco per l’Expo 2015. Condivide la sensazione? «Non credo ci sia un piano così preciso. Certo, anche i nuovi arrivati godono di un aiuto economico considerevole da parte della comunità. Per i bar, come del resto per i parrucchieri da donna, non serve un grosso capitale d’ingresso, il costo del lavoro è azzerato nel senso che fanno tutto tra di loro, la deregulation sugli orari li ha favoriti, tengono i prezzi molto bassi. E poi, più in generale, c’è una percentuale di guadagno illecito, per esempio con le slot fuori legge o la merce taroccata, che lascia pensare che un po’ di organizzazione criminale, con legami con la ‘ndrangheta, avvocati eccetera, cominci a strutturarsi». I centri massaggi, quelli con i vetri tappezzati di immagini di coppie in relax e la scritta “aperto” in neon rosso su sfondo blu, dove le massaggiatrici esercitano arti più prossime all’eros che alla fisioterapia, a Milano sono diventati in breve 309: più della metà è cinese. Esci stanco ma pago, e vicino c’è sicuramente un bar cinese per rifocillarti dopo la fatica.
Giuseppe Gissi da Barletta, figlio di camionista, 57 anni di cui 50 a Milano, siede al tavolino di uno dei tre locali in sequenza che possiede in via Dante, tre bar vecchio stampo, servizio impeccabile, caffè di prima scelta. «Sa cosa c’è scritto su questo marciapiede? Sangue e sudore, c’è scritto, e basta». Il signor Gissi è uno che ha venduto ai cinesi: un ristorante brasiliano in via Ripamonti, lo Zythum, guadagnandoci più di 600 mila euro. «Ne volevo un milione, mi hanno detto che il resto gli sarebbe servito per ristrutturare il locale. Ok, pagamento in cambiali. L’hanno rifatto senza usare un mattone italiano: tutti container dalla Cina. Adesso è un posto di quelli che con 20 euro mangi fino a crepare. Contenti loro». E lei è contento? «Lo sono stato tanto, Milano era la città dei sogni che si avveravano se lavoravi sodo. Ti dava la possibilità. Adesso è finita». Non per colpa dei cinesi. «Al contrario, loro ne approfittano, giustamente. Con i loro soldi danno la possibilità a un vecchio barista di vendere invece che depositare la licenza in Comune. E poi devono svuotarsi». Come, svuotarsi? «Sono un miliardo e tre, giusto? Cento milioni di loro sono super ricchi che se si svegliano una mattina e vogliono una Ferrari, se la comprano. Tutti gli altri tirano a campare. Rischio implosione, meglio liberarsi di quanti più è possibile. Così, io ti do i soldi per comprare un bar ma tu in cambio fai venire altri dieci o venti e a tua volta li aiuti a sistemarsi. E guardi che un cinese ha pretese bassissime: basta che mangi». Previsioni, signor Gissi? «Ormai io ho finito. Se vogliono, gli vendo anche questi tre bar e mi ritiro. I cinesi sono come le cavallette: dove arrivano, fanno tabula rasa di tutti i concorrenti. E non si accontentano mai. Visto che il tessile a Prato sta crollando, cominciano a comprarsi cantine e vigneti in Toscana, e il Brunello se lo producono loro».
Non solo, se è per questo. E’ appena sbarcata a Milano la Dagong, cioè la più importante agenzia di rating di Pechino. Obiettivo: contestare la legge delle “tre sorelle” S&P, Moody’s e Fitch, instaurando (imponendo) nuovi criteri di valutazione per le prime cento istituzioni finanziare e le prime cento imprese. Sempre a Milano, la Bank of China ha aperto i due primi sportelli attivi in Italia. Ed a febbraio c’è pure un sito, www.vendereaicinesi.it, ideato da Alessandro Zhou, nato in Italia da genitori cinesi, fresco di laurea in Bocconi, e dall’imprenditore cuneese Alberto Toppino, ramo sale da gioco e macchinetta mangiasoldi. Il portale ospita annunci con offerte di piccole attività, immobili, negozi, al prezzo di 37,50 euro ad inserzione, il tutto in doppia lingua, già 2.500 visite al giorno, la soglia delle 5 mila proposte pubblicate online ormai a un passo. «Anche Francia e Spagna sono già in rete», dice Stoppino, «e proprio in questi giorni partiremo con www.turisticinesi.it, per favorire i viaggi in Italia del più grande mercato del mondo, senza dover sottostare al sovrapprezzo dei tour operator».
La comunità cinese di Milano non ha un capo riconosciuto, ma Angelo Ouci somiglia parecchio. Ha 66 anni, figlio di un cinese e di un’italiana, moglie veneta («ho testa europea e cuore cinese»), non fa parte di nessuna delle 18 associazioni dei suoi connazionali, si definisce «libero consulente aziendale», arriva all’appuntamento su uno scooterone e si capisce subito che ha un mare di cose che l’attendono. «Il mio lavoro? Do buoni consigli a tutti. Per hobby, mi diletto in ideogrammi. L’alba, per esempio. Bellissimo: un sole, una linea che rappresenta la terra e un bastone sotto, che spinge il sole ad alzarsi». Immagino lei sappia che i cinesi si stanno comperando i bar di tutta Milano. «Anche dell’hinterland. Normale: è un’attività con pochi rischi, compri prodotti finiti, non devi pagare i familiari che lavorano con te. E poi noi, in genere, abbiamo una memoria folle: vediamo una persona una volta e la riconosciamo per sempre, per cui chiamiamo subito i clienti per nome. Questo crea presto un clima di amicizia e di integrazione, che fa bene agli affari e anche ai rapporti tra i nostri popoli». Sì, ma i soldi per comprarsi un bar? «Le banche si fidano di noi perché sanno che onoriamo i nostri impegni. E poi c’è il mutuo soccorso: se cento amici mettono mille euro l’uno, fanno 100 mila euro e tu puoi partire con la tua avventura imprenditoriale. Senza contare l’Expo, che può diventare un’occasione allettante di investimenti». Allettante a che condizioni? «La giunta Pisapia non ci ha forse capiti abbastanza. Ha aperto uno sportello per extracomunitari pretendendo che noi lo frequentassimo come se fossimo, perdoni, dei filippini o dei senegalesi». E’ grave? «Il sindaco non è mai venuto a una nostra manifestazione, né organizzato un incontro con la nostra comunità, ha ospitato il Dalai Lama ad Assago, dove di solito facciamo le feste cinesi. Quest’anno siamo stati costretti a spostarci al PalaSesto, essendo che Assago era ormai contaminato». Per quanto grandi e potenti, siete ospiti, signor Ou. «Certamente. Ospiti particolari, però. Ho riunito i nostri giovani e ho detto loro: va bene laurearsi in Bocconi o al Politecnico, ma adesso è arrivato il momento di impegnarsi anche in politica. Vedrà che alle prossime amministrative la nostra comunità comincerà a dare segni di sé. D’altronde, amiamo l’Italia. Il nostro ideogramma per il vostro Paese è un sole e un cuore».
Signor sindaco, lei non sta simpaticissimo ai cinesi che contano a Milano. Pisapia sorride mite. «Hanno una disponibilità finanziaria non paragonabile a quella degli altri gruppi etnici. Ultimamente c’è stato un salto di qualità con l’acquisto di immobili, ma vorrebbero fare di più, cercano aziende importanti a cui partecipare, li frena soltanto l’instabilità governativa dell’Italia». Insomma, troppo ricchi per creare incidenti. «All’Expo avranno il padiglione più grande, porteranno un milione di turisti e un investimento da 50 milioni di euro. E in più la disponibilità a rimanere anche dopo». Breve pausa, ripresa appena meno mite: «E’ anche l’unica comunità gestita militarmente. Gli strumenti di controllo e di punizione sulla loro gente paiono molto efficaci. Mi stupisce che così pochi cinesi iscrivano i figli alle scuole italiane: forse è un modo di lasciare a un gruppo ristretto la possibilità del dialogo. E poi non muoiono mai, ma mi hanno assicurato che i loro vecchi preferiscono farlo tornandosene a casa ». L’ultimo sorriso è di chi non ci crede.