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 2013  giugno 25 Martedì calendario

MANDELA PER GAZZETTA


In Sudafrica da giorni tutti pregano per Nelson Mandela, che sarebbe ormai a un passo dalla morte. Mandela, 95 anni il 18 luglio, è stato ricoverato in un ospedale di Pretoria, ed è la quarta volta in sei mesi, per un’infezione polmonare che sembra invincibile in un corpo indebolito dalla tubercolosi, eredità di ventisette anni di prigione. La figlia maggiore Magazine ha fatto sapere che il padre apre ancora gli occhi e reagisce ma, secondo quando riferito dal presidente sudafricano Jacob Zuma, per i medici le condizioni sono sempre più critiche.

Ma questo Mandela sarebbe l’uomo che ha sconfitto l’apartheid? Mi può riassumere la sua storia?
Certo. Nelson Mandela, detto anche “Madiba” (ovvero “anziano” per indicarne la saggezza), è nato da una famiglia di sangue reale dei Thembu, una tribù di etnia Xhosa, in un villaggio di capanne del Sudest del Sudafrica. Il suo nome in lingua Xhosa, Rolihlahla, significa “attaccabrighe”. Fu chiamato Nelson solo quando iniziò a frequentare il collegio coloniale britannico di Healdtown. All’università di Fort Hare, l’unica per i neri, entrò a far parte dell’African National Congress, il primo partito fondato dai minatori di colore in Sudafrica. Dopo la messa fuori legge dell’organizzazione nel 1960, passò alla lotta armata per combattere la segregazione razziale imposta dall’etnia bianca, che nel paese era legge dal 1948. Portò avanti azioni di sabotaggio, piani di guerriglia, addestramento paramilitare, finché nel 1964 fu arrestato, condannato all’ergastolo e rinchiuso nella prigione di Robben Island, un penitenziario al largo di Capetown. Divenne il detenuto numero 466/64, aveva una cella di appena 1,95 metri, con una sola feritoia di 30 centimetri. Qui si crea il suo mito. Ha poi raccontato Anthony Sampson, il suo biografo ufficiale: «Fu la prigionia ad abbattere il muro difensivo che si era costruito attorno e ad arricchire la sua capacità di comprensione degli uomini e degli avvenimenti. La cosa straordinaria è che arrivò a dominare psicologicamente la prigione. Diventò amico di alcuni guardiani afrikaner, fino a considerare anche loro quasi come dei prigionieri, con le loro paure e le loro aspirazioni».

Mi ricordo la sua liberazione, fu un momento storico.
Era la mattina di domenica 11 febbraio 1990. Il mondo intero ormai conosceva Nelson Mandela, ma nessuno lo aveva mai visto. L’ultima fotografia ritraeva un giovane avvocato nel fiore della maturità che, già latitante, improvvisava un comizio prima di tornare a nascondersi nella clandestinità. Madiba venne scarcerato grazie alla campagna internazionale lanciata dall’Anc guidata dall’allora moglie Winnie e culminata nel 1988 con un concerto allo stadio di Wembley con 72 mila persone che ne chiedevano la liberazione. Da uomo libero ha guidato il negoziato con il governo che ha permesso il superamento del regime di segregazione razziale. Trionfatore nelle prime elezioni libere multietniche del ’94, è stato presidente della repubblica finché non ha deciso di ritirarsi, nel 1999.

Se non ricordo male ha ricevuto anche un Nobel per la Pace.
Sì, nel 1993, insieme a Frederik De Klerk, l’ultimo presidente sudafricano bianco. C’è da dire che la dignità e la forza d’animo con cui Mandela affrontò la persecuzione ne fecero l’icona dei movimenti di liberazione nel mondo intero. Da presidente sudafricano, poi, realizzò il suo capolavoro politico: l’istituzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, presieduta da un altro Nobel per la pace, l’arcivescovo Desmond Tutu. Lo strumento che riuscì a svergognare gli antichi oppressori, placando allo stesso tempo la voglia di vendetta delle loro vittime. Col tempo è diventato un monumento vivente, venerato dalle scolaresche in pellegrinaggio, consultato come un oracolo dai leader del pianeta. Il padre della patria, a cui s’intitolano aeroporti e strade, biblioteche e centrali elettriche. Una specie di santo laico.

Mandela è stato un grande appassionato di sport.
«Sports has the power to change the world», lo sport ha il potere di cambiare il mondo, è una delle sue frasi più famose. Appassionato di calcio, ha ricordato quando «nella prigione di Robben Island mi chinavo verso la radio, per ascoltare la cronaca delle partite ai mondiali». Ruud Gullit gli dedicò anche il Pallone d’Oro vinto nel 1987. Mandela aveva capito che il rugby, lo sport dei bianchi nel suo Paese, poteva essere uno strumento per riunificare il paese. Fu così il grande sostenitore della Nazionale sudafricana di rugby che nel 1995 vinse a Johannesburg la Coppa del Mondo. Su questo episodio Clint Eastwood ha realizzato anche un bel film, Invictus, con Morgan Freeman nei panni di Mandela. Da ultimo ci sono stati i Mondiali di calcio nel 2010, i primi a svolgersi in africa, biglietto d’ingresso vincente per la Rainbow Nation nel consesso delle economie in crescita nel mondo. In quell’occasione un Mandela già malato si limitò a una breve apparizione, l’ultima in pubblico, poco prima della finale tra Spagna e Olanda nel soccer Stadium a Johannesburg.


Avevo letto però che i familiari stanno litigando per la sua eredità.
In effetti da mesi è in corso una battaglia legale tra le figlie di Mandela, Zenani e Makaziwe, e il suo avvocato storico, George Bizos. In ballo il controllo due fondi di investimento dal valore di 1,7 milioni di dollari destinati a una fondazione per l’infanzia. Bisogna tenere presente che Mandela, oltre che un’icona, è ormai anche un business per i sudafricani. A Qunu, uno dei villaggi dove Mandela è cresciuto, le case sono state trasformate in bed&breakfast per lucrare sulla frotta di giornalisti e turisti attesi in caso di morte dell’ex compaesano. Le stanze con vista sulla casa dove visse Mandela possono arrivare anche a 200 euro, una cifra spropositata, data la zona rurale. Gli abitanti delle palazzine di fronte all’ospedale di Pretoria dove Madiba è ricoverato da 17 giorni affittano i balconi alle troupe tv a 350 dollari al giorno. Insomma un finale poco glorioso per l’eroe dell’antirazzismo.