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 2013  giugno 20 Giovedì calendario

COME SI È CHIUSO (MALE ) IL CERCHIO MAGICO DI INGROIA


Se il calcio dell’asino, la bastonata allo sconfitto, è lo sport più esercitato in Italia, allora bando ai dubbi: il ciclo palermitano di Antonio Ingroia si è chiuso nel clangore di tre catenacci e sotto una gragnuola di colpi. I cerchi magici con cui l’ultimo rappresentante togato dell’antimafia militante cautelava se stesso, in un reciproco scambio di favori, risultano frantumati. La stragrande maggioranza della Procura della Repubblica di Palermo, distintasi per anni nell’acquiescenza sostanziale dell’omaggio al più forte, si ostenta oggi per inflessibilità nei confronti del cerchio magico più vicino.
Fuor di metafora: il pool di magistrati che gestisce gli ultimi e penosi scampoli del supermegaprocesso Stato-mafia, concepito dal dottor Ingroia per ribaltare la Repubblica, è sottoposto alla mitraglia delle accuse. Il procuratore capo Francesco Messineo, usbergo gerarchico dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, viene trattato come un cencio dai suoi sostituti, e ora perfino il Consiglio superiore della magistratura propone il suo trasferimento d’ufficio per «incompatibilità ambientale», anche perché «avrebbe perso piena libertà e indipendenza» nei confronti di Ingroia.
Per colmo d’ironia, o se volete di farsa, le pallottole più micidiali contro la gestione Ingroia-Messineo sono state sparate sulle pagine palermitane della Repubblica del 14 giugno. Dio ti guardi dagli amici, raccomanda il proverbio. Vogliamo riassumere? Proviamo. Il documento di solidarietà con Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, i tre pm rimasti col cerino in mano, è stato respinto dal corpo dei colleghi palermitani a dispetto della email loro inviata dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Di più: i sostituti protestano all’unisono «per la cattiva immagine che rischia di coinvolgere l’intero ufficio». Lamentano: «Siamo diventati ostaggio del processo trattativa». Il procuratore aggiunto Teresa Principato si duole: «Dei capi d’imputazione abbiamo saputo dai giornali». E ancora: «Non ci può essere una procura delle grandi indagini e una procura delle scartoffie». «Dopo il caso Maiolini (cioè l’inchiesta su Messineo per rivelazione di segreti d’ufficio a favore dell’ex direttore generale della Banca Nuova Francesco Maiolini, indagato a Palermo e «aiutato» da una fuga di notizie; l’inchiesta è stata poi archiviata, ndr) ho preferito evitare di avere ulteriori rapporti con Messineo» ha osato Carlo Verzera, pm titolare del procedimento Banca Nuova, il quale venne prima convocato da Messineo per avere informazioni sul caso che lo riguardava e poi invitato a non iscrivere Francesco Maiolini nel registro degli indagati.
E Principato ha rincarato la dose: «Una volta ci illustrarono le modalità di gestione di Massimo Ciancimino quasi con l’aria di soddisfare una qualche nostra curiosità». Il collega Carlo Marzella: «Le riunioni sul procedimento Stato-mafia sono state solo due in 6 mesi, col risultato che nessuno di noi pm seppe nemmeno del rinvio a giudizio di Giovanni Brusca». E sapete perché non si facevano le riunioni? Punta il dito e irride, Marzella: «Ingroia e Nino Di Matteo non gradivano».
La mazzata definitiva a quello che fu il più attiguo dei cerchi magici ingroiani arriva devastante: «Sono sorte spaccature, incomprensioni dovute al fatto che alcuni ritenevano che il capo avesse perso una sua libertà, una sua indipendenza. Le vicende processuali di suo cognato e di suo fratello, e da ultimo quella di Maiolini, non possono non lasciare tracce nel rapporto di stima, di fiducia, di affidamento che un sostituto deve avere nei confronti del suo procuratore». Principato dixit. E così Messineo è stato messo a posto. Amen.
Palermo è città che non dimentica. Ma anche città di formidabili coincidenze, è. La vita di Ingroia ne è rimasta punteggiata. Tutto d’un pezzo, un vero intransigente lui lo è sempre stato. Quando Pietro Grasso se ne va da Palermo e occorre sostituirlo, l’intransigente tifa per Messineo. Schiera con lui Magistratura democratica, si da molto da fare e stravince a Roma davanti al Csm. Curioso, perché il candidato preferito dai caselliani ha già una pletora di famigliari inguaiati con la giustizia. E Ingroia era tipo da fare fuoco e fiamme per molto meno. Invece niente, coincidenza volle che proprio quella volta Ingroia mettesse fra parentesi Ingroia. Era il 2006, strade in discesa col procuratore «mascariato».
Ma nel 2010 la sequenza delle coincidenze fu davvero straordinaria. Claudio Martelli aveva già fatto il nome di Nicola Mancino in televisione, eppure venne chiamato per testimoniare al processo Mori proprio nell’udienza del 6 aprile. Curioso, ammetterete, perché il 7, vale a dire il giorno dopo, il Csm avrebbe dovuto nominare il nuovo procuratore generale di Caltanissetta. Martelli, il 6 aprile, ufficializzò l’accusa a Mancino. Mancino se ne spaventò molto. E sempre Mancino, il giorno dopo, presiedette il Csm che nominò a Caltanissetta Roberto Scarpinato, grande sodale di Ingroia e caselliano della prima ora. Così le cronache dell’8 aprile: «Santi Consolo, vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato sconfitto dai 16 voti ottenuti da Scarpinato grazie al consenso di Nicola Mancino, della maggioranza dei consiglieri di Unicost e degli interi gruppi di Magistratura democratica e del Movimento per la giustizia».
Il caso, col favore della luna, aveva fatto sì che il migliore amico del dottor Ingroia andasse a occupare, col contributo decisivo di Mancino terrorizzato da Ingroia, la sede giudiziaria incaricata di vigilare sulla correttezza disciplinare di Palermo. Dove, ma tu guarda la combinazione, il procuratore aggiunto Ingroia faceva il bello e il cattivo tempo.
Cerchi magici addio, adesso, certo. Ma che pacchia, prima. Csm ostile, in questi ultimissimi mesi, ma che tappetino, allora, e quante deliziose cortesie. Vogliamo dirne un’altra? E diciamola. Due volte il Tar del Lazio, l’ultima è stata il 6 settembre 2011, aveva annullato la decisione del Csm (sempre presieduto da Mancino) di elevare il dottor Ingroia al rango di procuratore aggiunto. Riaffidiamoci alle cronache. «Roma, 7 settembre. Secondo la valutazione del Tar, dopo la decisione del Consiglio di Stato che aveva obbligato il Csm ad assegnare 6 punti per l’anzianità ai due candidati battuti, a Giuseppe Fici e Ambrogio Cartosio sono stati ridotti i punteggi per meriti e attitudini, in maniera quasi arbitraria e non motivata, per consentire comunque la promozione del dottor Ingroia più altri».
Non decadrà lo stesso dall’incarico, il nostro. Il Csm aveva trafficato in modo che i due concorrenti, i dottori Fici e Cartosio, venissero promossi: il secondo come aggiunto a Trapani, mentre il primo a rivestire la carica di procuratore nella stessa città. Perché non c’è miracolo che la casualità non possa compiere, quando s’incontra con un pizzico di disponibilità e di malizia.
Poi, anche questo è vero, esistevano purtroppo taluni cerchi magici i quali, più che a cerchi, somigliavano a rombi. Ed era obiettivamente difficile, per il dottor Ingroia, imbastire il processo del secolo cementando l’accusa con tre malacarne del calibro di Massimo Ciancimino detto «’u Junior»; di Giovanni Brusca, detto «’u Verru» (il porco, ndr); e di Michele Riccio, ex colonnello dei carabinieri fatto arrestare e condannare a 9 anni da Mario Mori per sottrazione e vendita di una partita di 288 chili di cocaina, il quale un bel giorno si sveglia, va dal sostituto Nino Di Matteo e gli racconta: «Senta questa, dottore: il generale Mori ha impedito che catturassi Bernardo Provenzano».
Da complicata che era, la partita era diventata addirittura impossibile dopo i papelli falsi, 13 candelotti nel giardino più detonatori, telefonate più che imbarazzanti, i patrimoni di papà padrino riciclati all’estero e via col tango. Questo per quanto riguardava ’u Junior. Mentre ’u Verru, chiamato in fretta a sostituire ’u Junior caduto sul lavoro, appoggiava la credibilità delle proprie accuse al generale Mori, al colonnello Mauro Obinu e all’ex ministro Mancino, sulla solida piattaforma di un’estorsione organizzata fra le pieghe dei permessi, di una protezione cancellata per indegnità e del sequestro di un tesoretto malandrino, restituibile forse a testimonianza avvenuta.
Troppo sbilenco, come cerchio magico. Né, a renderlo rotondo, avevano potuto valere gli sforzi volonterosi dell’ultimissimo cerchio magico di Ingroia, quantunque forse primo per importanza. I libri di Francesco La Licata, gli articoli di Attilio Bolzoni e di Liana Milella, le tragediazioni televisive da Michele Santoro che innalzarono ’u Junior a madonna dell’antimafia, il Fatto Quotidiano nel suo complesso, Marco Travaglio nella sua unicità, ciuffi di redazioni compiacenti, le agende rosse e i parasoli viola: tutto faceva, tutto contribuiva, ma il brodo era poco. Si asciugò del tutto, quando la compagnia di giro pretese di cuocervi il Quirinale come fosse un tortellino. La corporazione dei magistrati s’irrigidì. Arrivò la disperazione. E, con la disperazione, quel gesto estremo del dottor ingroia di candidare alle elezioni Sandro Ruotolo, Saverio Lodato e Sandra Amurri. Però non era un cerchio, quello, tutt’al più un cerchietto che portano le ragazze in Valle d’Aosta.