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 2013  giugno 20 Giovedì calendario

IL SULTANO

DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL
Alle 9 di sera precise, quando il buio cala a Istanbul e in tutte le grandi e piccole città della Turchia, persino quelle lontane dell’Anatolia e delle zone curde, scatta l’ora del concerto. Nessuno lo dirige, ma a battere è come se fosse un cuore solo: migliaia di pentole che picchiano una con l’altra, mestoli che tintinnano contro piatti, mani che pigiano clacson per strada. Tutti quanti accompagnati da un’invocazione che riunisce in sé la protesta: Tayyip, istifà!, Tayyip vattene, dimettiti.
Lo spettacolo continua nelle case. Basta mettersi fuori, e osservare: mentre la notte avanza, le luci delle stanze si accendono e spengono come fossero intermittenti. Sui balconi la bandiera turca con il volto di Ataturk, padre della Turchia moderna, sventola. Dieci minuti così. E la rivolta della Turchia laica finisce per saldarsi con i dimostranti picchiati di Piazza Taksim, gli ecologisti dispersi di Gezi Park, i giovani che si riuniscono adesso sulla salita di Besiktas e con la penna in mano fermano i passanti: «Signore, vuole firmare per le dimissioni di Recep Tayyip Erdogan?».
«Erdogan si atteggia come un sultano, come fossimo ai tempi dell’Impero e non nel Duemila», dice un manager d’albergo che pure viene da Uskudar, quartiere anatolico oltre il Bosforo, ma che come tanti connazionali non sopporta più l’autoritarismo del leader, il tentativo di imporre leggi a sfondo religioso, il suo pugno inflessibile con dimostranti e oppositori. Spesso, ora, è la stessa gente che lo ha votato a dichiararsi delusa. Non solo i ragazzi sollevatisi a difesa del parco, destinato nei deliri faraonici a diventare un centro commerciale in stile Doha o Dubai. Ma gli scrittori come Orhan Pamuk, gli intellettuali come Murat Belge, gli imprenditori un tempo attratti dall’energia nuova impressa alla società, a manifestare un dissenso crescente per l’involuzione mostrata dal 59enne leader nato a Kasimpasha, sobborgo di Istanbul fatto di pietre e case.
«Erdogan è un combattente di strada — spiega l’opinionista liberale Kadri Gursel — uno a cui piace lottare. Con le manifestazioni ha perso una battaglia, e per lui questo è drammatico. La sua reazione è quella di uno che è stato picchiato». Ma l’agire da bullo e il mostrare chi è il capo della banda non sembrano giovare all’immagine interna né soprattutto a quella estera di un uomo che comunque, va ricordato, ha vinto le tre elezioni degli ultimi 10 anni con un consenso sempre più vasto.
E’ piuttosto l’atteggiamento sprezzante, divisivo, autoritario a sorprendere i connazionali e a far disamorare cancellerie e osservatori. Il soprannome “sultano”, sarcastico quanto quello da lui usato per definire «vandali» i dimostranti, capulcu, nasce non solo dai legittimi progetti espansionisti della nuova forte Turchia ottomana, ma dalla sua difesa a spada tratta dell’immagine di un sovrano imperiale, a suo dire svillaneggiato in uno sceneggiato tv perché troppo dedito a gonnelle e bicchieri.
L’Europa vive questa involuzione con imbarazzo e dispiacere. Il premier turco è l’uomo con cui, bene o male, i negoziati per fare entrare Ankara nella Ue sono stati avviati. Era il garante dell’esperimento con cui far convivere democrazia e Islam. Il volto rassicurante di un’economia lanciata a livelli cinesi. Ma la credibilità del leader adesso è saltata, e chi ha creduto nell’arrivo di un sultano illuminato si sente tradito. Un tradimento che – a onor del vero – i laici di qui hanno sempre provato. La loro frustrazione è una rabbia accumulata da anni, legge dopo legge, imposizione dopo imposizione. «Quando uno ha fatto un contratto direttamente con Allah – spiega Omer, imprenditore che da tempo avverte il fiato dei pii devoti sul collo – tutti gli altri accordi svaniscono».
Buon giocatore di calcio, fondatore di un partito islamico-conservatore, sindaco di Istanbul, il giovane Tayyip nel 1998 era già stato imprigionato per qualche mese per «incitamento all’odio religioso». Adesso, dopo più di due lustri al governo, il distacco crescente fra il leader che viene dalla strada e il popolo che non lo riconosce più è colto pienamente dalla piazza. «Erdogan non ascolta — dice il commentatore Cengiz Candar — vive ormai isolato. In più, ha un carattere tremendamente cocciuto, è convinto di avere sempre ragione. E alla gente ormai dà fastidio come parla, cosa dice e come si comporta». Sconcerto ha suscitato ieri la notizia che sua figlia Sumeyye, da tradizione velata come la madre e la sorella, viene retribuita con uno stipendio di 25 mila euro al mese come consigliere del premier. E l’opposizione ha presentato un’interpellanza in Parlamento.
La protesta è arrivata alle stelle. Dopo la giovane con la giacca rossa investita dagli idranti della polizia, dopo la nonna che getta la fionda contro i blindati, ora la nuova icona della rivolta è l’uomo in piedi che protesta in silenzio. Un angelo muto, solitario, arrabbiato. E in questo la figura tersa del coreografo Erdem Gündüz, le mani in tasca, un lembo della camicia fuori dai pantaloni, è perfetta nella sua rappresentazione scenica. Tutta la Turchia che si oppone a Erdogan lo sta imitando, con replicanti in decine di città. «Io non sono nessuno — dice — domani al mio posto ci saranno altri». E questa protesta civile, rilanciata via Twitter e Facebook («stiamo studiando norme contro i social media che provocano il pubblico e lo conducono ad azioni che minacciano la sicurezza», è la risposta del ministro degli Interni), rischia davvero di mettere il potere all’angolo e il leader nel ridicolo.
I siluri cominciano ad arrivare. Come le parole durissime ma sacrosante pronunciate dal presidente del Parlamento europeo. «Forse la Turchia è matura per l’Europa — dice Martin Schulz — ma non lo è Erdogan. I nostri partner sono gli uomini e le donne per strada. Sono i rappresentanti di una società civile che è la stessa che abbiamo in Europa, e per questo il dialogo con la Turchia deve andare avanti. Se non parlassimo più con la Turchia, attaccheremmo alle spalle questa gente. Erdogan mostra un’aggressività che mi sconvolge. La cosa che mi sconvolge di più è che i suoi sostenitori vengono invitati a protestare in strada per provocare scontri fra una massa e l’altra. Questo non è un atteggiamento degno di un uomo di stato».
L’orizzonte del leader turco, del resto, dopo le frasi contundenti pronunciate contro l’Europa («non riconosco le decisioni del Parlamento europeo, chi pensate di essere?») , è sempre più legato al mondo arabo e mediorientale. Eppure, anche lì adesso, la sua stella, brillante nella cosiddetta “primavera” di Egitto, Tunisia e Libia, comincia a offuscarsi perché considerato troppo vicino ai Fratelli musulmani.
La cartina da tornasole è stata chiara domenica. Quando, nella manifestazione convocata dai suoi ultras alla periferia di Istanbul inzeppata di anatolici e donne velate, in un crescendo retorico ha gridato alla folla plaudente: «E’ qui il Pakistan, è qui Lahore. E’ qui Gaza, la Mecca, Beirut. E’ qui Baku, Sarajevo e la Medina». Nessun riferimento, e nemmeno per sbaglio, a Parigi, Berlino oppure Londra.
Pure il fronte musulmano interno è ora diviso e frastagliato. Uno dei contrasti più forti è quello consumato con Fethullah Gulen, pensatore trasferitosi dalla Turchia agli Stati Uniti negli anni Novanta, voce dell’Islam moderato e del dialogo fra religioni, intellettuale a capo di una fitta rete di scuole, tv e giornali in tutto il mondo. In esilio negli Stati Uniti dal 1999 per sfuggire alle accuse dei militari di lavorare a un piano di golpe islamico, Gulen guida oggi un movimento influentissimo che ha favorito l’ascesa di Erdogan. Ma adesso la fiducia si è incrinata. In un video diffuso sul suo sito il potente vegliardo ha dichiarato: «Se si dice che i manifestanti non stanno rivendicando i loro diritti, si ignorano le istanze di tanti giovani. Se innocenti vengono uccisi, se vengono affrontati con i lacrimogeni e se qualcuno è cieco abbastanza da non vedere, l’incendio divamperà». Parole che molti leggono come profetiche.
L’altro distacco è quello da Abdullah Gul, il capo di Stato attuale, rivelatosi più morbido e conciliante verso la piazza. Sarà Gul, anzi, il suo vero sfidante, nella battaglia per salire nel 2014 al colle di Ankara. Ma se a Erdogan riuscirà il sogno di diventare il nuovo «sultano » della Turchia, non sarà il presidente di tutti. Solo di una parte. E certo, non quella pronta a entrare in Europa.