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 2013  giugno 20 Giovedì calendario

LA SPINTA DI BERNANKE E I FRENI DELL’EUROPA

QUESTA estate, oltre ai nuovi amori di attrici e personaggi tv, potrà essere utile prestare attenzione alla politica monetaria delle banche centrali, dal Giappone agli Stati Uniti, all’Europa. I nodi di un quinquennio di crisi stanno venendo al pettine. È un momento di eccezionale interesse e di grande incertezza. Ci sarà molto da imparare osservando le decisioni delle banche centrali e le reazioni dei mercati. A partire dalla Fed di Ben Bernanke, che ieri ha confermato le sue strategie di politica monetaria, annunciando un possibile stop all’acquisto dei titoli di Stato solo a partire dal 2014.
La banca centrale del Giappone ha recentemente iniziato ad attuare una politica monetaria estremamente espansiva. Tale politica monetaria è associata ad una politica fiscale di spesa altrettanto espansiva. L’obiettivo è di spingere a forza il paese fuori dalla stagnazione economica che lo attanaglia ormai da venti anni. L’americana Fed ha inondato l’economia di liquidità dall’inizio della crisi nel 2007 (anche in questo caso simultaneamente ad un notevole stimolo fiscale). Ma ora che l’economia sembra riprendere a creare lavoro e investimenti essa si trova nella situazione di dover “risucchiare” liquidità in modo da limitare eventuali spinte inflazionistiche senza congelare la ripresa. La Banca Centrale Europea invece, come è noto, ha, per voce di Mario Draghi, promesso di difendere l’Euro a costo di usare il bazooka. Ma spera che i mercati continuino a fidarsi della sua parola, senza andare a “vedere” la consistenza delle munizioni di cui realmente dispone.
Molti osservatori interpretano questa situazione internazionale in modo semplicistico: Giappone e Stati Uniti hanno reagito alla crisi con politiche monetarie e fiscali espansive mentre l’Europa (specie i cosiddetti PIIGS) hanno attuato politiche di austerità. Questi osservatori si aspettano quindi di poter iniziare questa estate a confrontare i risultati delle diverse politiche economiche e sentenziare un vincitore.
Nulla di più errato. Le tre economie, Giappone, Stati Uniti ed Europa, hanno reagito a situazioni simili solo in apparenza ma in realtà diversissime. Gli Stati Uniti hanno sperimentato una crisi finanziaria che ha indotto una severa recessione, hanno cioè reagito ad un fenomeno fondamentalmente ciclico (crescevano ad un tasso medio di poco più del 2% prima della crisi del 2007 e torneranno con ogni probabilità a farlo a breve). Inoltre il settore pubblico negli Stati Uniti, anche considerando gli interventi strutturali dell’amministrazione Obama (ad esempio nella sanità), è comunque circa un terzo dell’economia del paese: esso presta quindi spazio a politiche fiscali anticicliche, senza indurre in nervosismo gli investitori nel debito Usa. L’intensità e la severità della crisi hanno richiesto però misure eccezionali mai prima sperimentate da parte della Fed, note col nome di «quantitative easing», e sarà interessante osservare come reagiranno i mercati al loro alleggerimento. I primi effetti, per ora soprattutto in termini di aumento della volatilità, si sono già verificati dopo un pur timido accenno alla situazione da parte del governatore Bernanke. Non ci resta che sperare che l’ottimismo della Fed nelle proprie capacità, continuamente ostentato, sia ben fondato.
Il Giappone e i paesi che più hanno sofferto della crisi in Europa, come l’Italia, non affrontano invece affatto una crisi ciclica. La loro è una crisi strutturale, di crescita, che si protrae da molti anni e che la recessione ha semplicemente peggiorato. Politiche monetarie e fiscali espansive sono con ogni probabilità inutili e dannose senza prima agire sui fondamentali, sulle cause della stagnazione permanente. Ciononostante il Giappone ha deciso di procedere in questa direzione. È ancora presto per dire se con successo, ma è naturale chiedersi se non sarebbe il caso che i Piigs si lanciassero con lo stesso entusiasmo del primo ministro giapponese in politiche fiscali e monetarie espansive. La risposta è negativa e dipende da una fondamentale differenza tra la situazione economica del Giappone e, ad esempio, dell’Italia. Il Giappone, nonostante un rapporto debito-Pil ben più elevato di quello italiano, non è passato attraverso una crisi di fiducia da parte degli investitori esteri come quella patita dal nostro paese. Il Giappone nel corso dei suoi venti anni di stagnazione economica ha continuato a indebitarsi a bassi tassi, tassi che cioè non attualizzavano né un possibile default né una sostanziale svalutazione della moneta. Naturalmente il cambio di politica che stiamo osservando sta mandando in fibrillazione gli investitori, e sarà interessante vedere se e quanto i mercati finanziari in Giappone resisteranno; e soprattutto se, quanto, e quando, si vedranno effetti reali sulla crescita pur in assenza di riforme strutturali.
La Bce e i governi dei Piigs hanno invece la pistola degli investitori puntata alla testa e hanno quindi molto poco spazio di manovra: l’unica strada è quella stretta e dolorosa delle riforme strutturali, di tasse, spesa, liberalizzazione dei mercati, nella speranza di indurre al più presto una sostenuta prospettiva di crescita. Naturalmente la questione che si pone è perché gli investitori internazionali riservino così poca fiducia alla sostenibilità fiscale dei Piigs rispetto ad esempio a quella del Giappone o degli stessi Stati Uniti. Urlare al complotto degli speculatori cattivi è poco utile: gli investitori fanno i propri interessi con i propri soldi, nulla che urla scomposte possano evitare o mal giudicare da un punto di vista etico. Risposte diverse sono possibili ed interessanti, ma non cambiano la realtà. Non ci resta che sperare che un serio piano di riforme dei Piigs permetta alla Bce di limitare la propria politica monetaria agli annunci.