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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

MI TOLGO IL MAGLIONCINO E VI MOSTRO COME SONO

PONZANO VENETO. AB ha fatto le valigie a suo modo. Ha svuotato armadi, aperto cassetti, ritrovato cose. Per una nuova avventura, per tornare a casa, ad occuparsi del regno di famiglia. Ora deve dire di sé, di come non sia più figlio, di quello che vuole fare. Non gli è facile, per timidezza carsica (fuori regione) e perché il fuoco se lo tiene lutto dentro.
C’erano da spiegare radici e ritorni, curve e svolte. Tutto Alessandro Benetton, 49 anni, dentro e fuori. Da un anno presidente dell’azienda, nata nel ’65. Così l’hanno convinto a scrivere un libro, anzi un catalogo: a spogliarsi, a rivestirsi, a mostrarsi. AB a Playlife story ( Electa, pp. 208, euro 70, in libreria dal 3 maggio, il ricavato delle vendite andrà alla Fondazione Unhate). Lui non l’avrebbe mai fatto: «Quelli che raccontano la loro prima metà della vita li ho sempre trovati un po’ patetici. Ho fatto leggere il libro alla mia famiglia: mi ci ritrovate, ho chiesto? Hanno risposto di sì. Ma ho preferito lasciare parlare i miei bauli, perché io non butto via niente, l’usa e getta non fa per me. Indumenti, foto, ricordi. Ci tenevo a dimostrare che un marchio deve essere vero e vissuto. Ad esprimermi con leggerezza, senza dare lezioni. Se sai ascoltare, le cose parlano». Eccome, odorano pure. Suole, cinture, golf, giacche, pantaloni, tavole da surf e biciclette.
«Il giubbotto Fay acquistato da un vigile del fuoco a Newport nell’84, la coperta di guanaco comprata in Argentina, le fibbia che indossava il barcaiolo in Messico, gli stivali usati comprati in Arizona, gli scarponcini presi a Boston nell’85. Frequento mercati e mercatini, annuso con curiosità le vite altrui. Sono per il consumismo al contrario: trovare cose uniche e belle che costino poco. A un’asta ho preso gli scarponi di Stenmark, la giacca di Thoeni me l’ha regalata il suo allenatore». Tranquilli, non è un libro di un voyeur dei consumi, piuttosto un patchwork su pezzi di vita, infanzia, adolescenza, maturità. Lui dice work in progress. Gli piace l’idea del movimento. Da Luciano ad Alessandro, always Benetton. Nuova responsabilità: rilanciare il marchio, reinventare i negozi, risollevare gli utili. In un Nord-Est cambiato.
«Oggi si naviga controvento e controcorrente. Tutto è in salita. L’arma non può essere restare lì passivi, bisogna osare, guardarsi dentro, ripartire: come fai a cambiare le cose, se non hai cambiato te stesso? Al 92 per cento l’Italia è fatta di piccole imprese che ora subiscono la caduta di un modello, non sempre ci può essere l’autosufficienza, non sempre i può salvaguardare a tutti i costi il proprio lavoro, bisogna avere il coraggio di fare rotture, ritrovare incisività. Il passato conta, ma non può guidarci sulla stessa strada, ci vuole una sterzata, una discontinuità. Io stesso vengo da fuori, a 25 anni non sono rimasto in famiglia, dopo l’esperienza alla Goldman Sachs potevo accomodarmi in azienda, non l’ho fatto e nel ’92 ho creato 21 Investimenti, per operare nel private equity. Ora dico che bisogna percorrere altre vie, la Benetton è stata un po’ troppo gestita dalla sua storia, adesso in azienda è tempo di sparigliare le carte. Di proporre un nuovo concetto di vendita, multi-brand, uno shopping experience, il negozio da cui compro gli sci non può essere lo stesso del surf, per questo credo sia meglio avere più marchi capaci di esprimere rinnovamento. Il rilancio del marchio Playlife, nato sportivo e agonistico, indossato dall’Italia alle Olimpiadi di Sydney nel Duemila, viene dalle mie passioni e dalle nostre storie, come Jeans West, Killer Loop. Significa identità. Nei negozi Playlife che stiamo aprendo si troverà uno stile di vita, ma anche altro». L’altro nella vita di Alessandro è sempre avvolto nel pudore. Le prime scappatelle sentimentali di notte a Londra nell’82 con jet privato, l’esperienza da modello con William Baldwin a New York, con annessi attrici e jet-set allo Studio 54, il campus a Boston, il master ad Harvard, i viaggi in Vespa, l’avventura in FI, la stima per Ayrton Senna, il mondiale vinto con Schumacher (’94). «Chiamai Flavio Briatore e gli segnalai il nome di Schumacher, mi rispose che per averlo bisogna fare un putiferio. E io: facciamolo».
Alessandro si definisce impaziente: «È la mia qualità e il mio difetto». In un’occasione però è stato pazientissimo: nell’accompagnare all’altare la futura moglie. In gran segreto. Il matrimonio, tenuto nascosto a tutti, con Deborah Compagnoni, ex sciatrice e campionessa, donna di montagna, è stata una questione privata.
«Ci siamo sposati nel 2008, perché ce lo hanno chiesti i ragazzi. L’avremmo dovuto fare nel ’99, quando stava per arrivare Agnese, ma avevamo sempre i fotografi addosso e non volevamo pubblicità. Così in un viaggio in America ci siamo fermati fuori New York, in una chiesetta di Tuxedo, e abbiamo celebrato la cerimonia. Noi e i figli. Deborah mi ha molto aspettato sulla spiaggia quando facevo kitesurf, ma sugli sci e in bici nessuno aspetta nessuno».
L’altro è la vita passata e spazzata, i canali con i pesci, la roggia a Treviso dove le signore lavavano i panni, l’insegnante di filosofia, Don Tarcisio, il fiume Silo, le strade fatte di sassi, le sfide a biglie fino al tramonto, la bici per andare a scuola anche d’inverno. La supermamma Maria Teresa, molto avvolgente, e il superpapà Luciano, molto dedito al lavoro. Su contrasti e grovigli di famiglia, magari irrisolti, non una parola. Nessun dolore. Lui si difende con la sua positività. «Cerco di trovare serenità, anche nel vuoto che ha lasciato mia nonna».
Una specie di Albero degli zoccoli, nebbia e nostalgia. «Non è una contraddizione, credo che il territorio vada salvato, non impoverito e distrutto. Rispetto la maestria degli artigiani, cerco un altro sguardo, il contemporaneo non deve annullare il passato, il vecchio non può essere una diminuito. Ho davanti i miei tre figli e mi chiedo: io alla loro età dov’ero, che cosa volevo? Anche lo sport si è trasformato, e mi dispiace. È la prima scuola di vita, forma ed educa, insegnai il rispetto delle regole, a cadere e a rialzarsi. Ma oggi lo fa ancora? Io vedo esasperazione, fanatismo, genitori che sui campi litigano a nome dei figli per un orgoglio distorto. Non è certo un aiuto a essere buoni cittadini. Anzi, mi lancio: genitori statevene a casa, lasciate liberi i vostri figli».
C’è anche un ultimo consiglio, anzi un affondo, sempre con iniziali AB. E non è una cosa, ma un modo di vivere. «Siamo figli di un sistema e di un giudizio culturale dove se provi e fallisci vieni espulso, dove ti dicono dove sederti e stare. Non fatelo, non obbedite».