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 2013  aprile 19 Venerdì calendario

IN CERCA DI COMPAGNIA

LOYOLA (Paesi Baschi). Quando è arrivata la notizia stavano cenando. Zuppa di pesce, maccheroni al chorizo, carré di carne con fichi e patate, pasticcini. Menù non esattamente frugale. Ma che volete, si festeggiava il compleanno di un anziano confratello. Senonché il banchetto fu scosso dall’annuncio che un altro confratello anche lui anziano e ispanofono era appena stato eletto Papa. Primo gesuita in 473 anni di storia. Gaudium magnum! Sì, ma con juicio. Giubilo tutto interiore. «Sa, nella Compagnia non è consuetudine esprimere vistosamente le emozioni» ricorda il rettore Txelma Vicente. E ci mancherebbe. Nessuno si sarebbe aspettato vuvuzelas, mortaretti e caroselli pestando sui clacson. Specie qui, nell’austera eleganza del santuario di Loyola. Che per i gesuiti è una Mecca. Almeno una volta nella vita bisogna andarci in pellegrinaggio.
Negli edifici, che inglobano la Santa Casa dove Ignazio al secolo Inigo Lopez de Loyola nacque e si convertì, vivono oggi 49 padri. Per lo più a fine carriera. Età media: 81 anni. Ma, alla notizia di Bergoglio Pontifex, tra i veterani s’è subito messa in moto l’idrovora della memoria. Di sicuro anche l’argentino avrà fatto sosta qui. Ma quando? Chi l’ha visto? In poche ore archivi, biblioteche, ricordi personali erano stati passati a setaccio. E alla fine s’è scoperto che sì, nei primi anni 70, al termine del periodo di formazione in Spagna, il futuro Papa venne a Loyola e concelebrò messa.
«Ora la speranza è che ritorni. Presto» mi dice in un italiano irreprensibile padre Félix Cabasés. Anni 82. Molti dei quali trascorsi a Roma come caporedattore di Radio Vaticana. Nel novembre 1975, fu la sua voce ad annunciare ai microfoni: Francisco Franco ha muerto. «Pregate per lui. E per la Spagna». Mi racconta i suoi Anni di piombo in Italia. Di quando tentò di intervistare Aldo Moro in piazza San Retro, ma l’Onorevole declinò, schivo: «Evitiamo. Son qui in privato. Da fedele». O della notte che, tornando a casa dalla redazione, si ritrovò sul portone una squadra della scientifica: «Prelevavano reperti da un’auto. Era quella dove i complici avevano lasciato Francesca Mambro ferita, perché venisse ricoverata nel vicino ospedale di Santo Spirito».
Vengo guidato su per le gentilizie scale dove il giovane Ignazio uomo d’arme e d’amori fu issato nella primavera del 1521. Tornava dalla difesa di Pamplona in barella. La gamba destra maciullata da una cannonata. Pareva spacciato. Invece lentamente si riprese. E subito chiese da leggere. Libri d’avventura, di cavalleria. Ma in giro non se ne trovavano. Gli rifilarono quel che c’era: la Vita di Gesù del certosino Landolfo e Le vite dei Santi di Jacopo da Varazze. «E sa da quale di quei santi m soprattutto impressionato?» mi interroga padre Cabasés. Scuoto la testa. «Da San Domenico e da San... San...?». Tiro a indovinare: Francesco? «Esatto. Come vede, il nome scelto da Bergoglio non piove da chissà dove».
Dalla cappella della Conversione (dove campeggia la scritta Aqui entregó su vida a Diós – Qui Ignazio si consegnò a Dio), ci inoltriamo per chiostri, refettori, corridoi vertiginosi e deserti che odorano di secoli, cera da pavimenti, minestra. Poi padre Félix armeggia contro un muro fino a fame apparire una porticina. E d’un sussurro scivoliamo nella basilica. Cabasés alza gli occhi alla grande cupola, onusta di fregi: «Tutto l’horror vacui del barocco, non trova?».
Già, ma oggi il vacuum che preoccupa i gesuiti, e non solo loro, è un altro. È il vuoto delle vocazioni. Con massima glasnost ed efficienza, la Casa Generalizia mi comunica le ultime cifre. Parlano di una Compagnia ridotta a 17.287 persone. Di cui 12.298 sacerdoti; 1.400 fratelli coadiutori; 2.878 scolastici (gesuiti in formazione) e 711 novizi. Trent’anni fa, le forze sfioravano le 30 mila unità. Mentre all’epoca del boom, anno ’65, oltrepassavano le 36 mila. Fino alla designazione di Bergoglio, la Societas Jesu contava 6 cardinali. Più 77 vescovi. «Ma tenga presente» mi si avverte «che che Sant’Ignazio ha sempre scoraggiato i gesuiti ad accettare cariche ecclesiastiche a meno che non siano obbligati dal Papa. E che la maggior parte dei vescovi sono nei territori di Missione».
Attualmente, l’area a maggiore densità di gesuiti è quella di India, Pakistan e Sri Lanka (4.016). Il Paese occidentale in cui la Compagnia è più forte sono gli Stati Uniti (2.467). In Europa, la Spagna (1.446). Mentre in Italia la SJ si affida a 518 effettivi.
Se c’è gente che la famosa globalizzazione non ha preso in contropiede, questi sono i gesuiti Ordine mondializzato ab origine. Di fronte al processo di secolarizzazione, corrono ai ripari con pragmatismo. In un’Europa che almeno numericamente non è più fulcro della Cristianità, la Compagnia ristruttura. Chiudendo centri, vendendo proprietà, lasciando parrocchie, delegando attività al personale laico. Spending review, razionalizzazione delle risorse, delocalizzazioni verso continenti giovani. «Non parlerei di dismissioni, ma di riposizionamento. Non c’è esodo degli europei in altre aree, casomai il contrario. Perché è in Asia che aumentano le vocazioni!» sorride padre Davide Magni, tra gli animatori della rivista internazionale Popoli, nonché espertissimo di Buddismo e Tai Chi.
Ecco, appunto, la Cina: da Francesco Saverio (il compagno di Ignazio che si spense missionario alle porte del Celeste Impero) a Matteo Ricci (il grande marchigiano che fu accolto alla corte Ming vestito da mandarino), l’Estremo Oriente appartiene sin dall’inizio alla mappa geo-spirituale della Compagnia. «La Cina» dice Magni, «è sempre stata priorità delle priorità». I gesuiti ci son tornati negli anni Novanta, col vento delle riforme. Oggi, dai lebbrosari agli istituti culturali, la SJ è salda a Macao come ad Hong Kong, mentre sul continente-Pechino, Shanghai-la presenta è giocoforza «più discreta». C’è da sormontare un doppio handicap: quello del passato maoista e del furore antireligioso, e quello «dei trascorsi coloniali europei», la vecchia arroganza da conquistadores. Che oltretutto sarebbe ridicola, perché oggi è la Cina il nuovo conquistador. Dunque, umiltà, accortezza, negoziazioni felpate con un Potere che tollera, ma vigila.
E vigilano pure i gesuiti. Sorta di videocamera ecumenica. Essendo presenti in quasi 130 Paesi. Nella centrale di Borgo Santo Spirito, il Padre generale in arte Papa nero riunisce da sempre alle otto di mattina il suo Stato maggiore per avere il polso della Compagnia fin nelle più remote latitudini. Briefing che hanno rafforzato l’immagine dei gesuiti come Spectre. O come Cia (che, guarda un po’, nei romanzi di spionaggio viene chiamata pure lei Thè Company). L’Ordine ignaziano «raconte, jour par jour a son general, tout ce qui se passe au monde» scrivevano nell’800 i grandi storici francesi, e anticlericali sfegatati, Jules Michelet ed Edgar Quinet. Lo ricorda la studiosa Sabina Pavone in un formidabile libro dedicato al mito antigesuitico. A partire dai Monita Privata, opuscolo spuntato in Polonia nei primi del Seicento. Non un pamphiet, ma una specie di manuale ad uso interno della Compagnia per ghermire il dominio del mondo. Della Chiesa come della società secolare. Manipolando coscienze e poteri, dai sovrani alle ricche vedove. Pura Spectre. Con tutta probabilità, il libello fu scritto da tale Zahorowski, ex gesuita cacciato dall’Ordine e perciò imbestialito assai. Era un falso, ma più di ogni verità avrebbe configurato il cliché molto spesso fondato del gesuita subdolo e faccendiere, prossimo al Potere fino all’osmosi. Quelle istruzioni in arcanis sono quasi un archetipo del cospirazionismo moderno. Dagli antiebraici Protocolli dei Savi di Sion alla dietrologia NewAge che impazza sul web. In rete non leggi forse che le tenebrose menti finanziarie di Monti e Draghi si sono formate dai gesuiti?
«Dalla Francia delle guerre di religione alla Russia post sovietica il mito della Compagnia come società segreta votata all’egemonia riemerge strumentalmente a seconda delle necessità storione» mi spiega Sabina Pavone. Aggiungendo però che la Leggenda nera dei gesuiti «nasce insieme a loro». Nel tempo, sarà alimentata non solo dagli anticattolici, ma pure da fazioni ostili interne alla Chiesa. O alla stessa SJ.
Alla radice della diffidenza antigesuitica c’è il fatto «che si tratta di un Ordine ermafrodito: ne monastico ne secolare. Un Ordine che, in più, rispondendo direttamente al Papa, può bypassare mediazioni e gerarchie ecclesiastiche». Obbedienza al Pontefice perinde oc cadaver, ma nondimeno obbedienza per così dire creativa. Visto che sui fedelissimi si è abbattuta già due volte la censura papale: nel 1773 su pressione delle monarchie europee che li accusavano di sfacciate ingerenze i gesuiti vengono sciolti da un riluttante Clemente XIV. Mentre, nel 1981, furono commissariati da Giovanni Paolo II. Il papa polacco giudicava intollerabili certe derive marxisteggianti (Teologia della Liberazione e dintorni) o relativistiche in fatto di morale sessuale, emerse sotto il generalato postconciliare (1965-1983) di Pedro Arrupe. Un basco come il fondatore Ignazio che quando scoppiò l’atomica si trovava in missione tra i giapponesi di Hiroshima. Al gelo dell’epoca Wojtyla avrebbe fatto seguito la distensione degli anni Ratzinger. Ora con papa Francesco la SJ torna al centro di una scena che nelle ultime decadi le era stata soffiata dai cosiddetti neo-Movimenti, Opus Dei in testa. Come sempre, nessuno ammetterà Resistenza di correnti all’interno della Compagnia. Eppure, con reiezione, nel 2008, del generale spagnolo Adolfo Nicolas (anche lui lungamente missionario in Giappone), l’ala globalizzatrice dell’apertura interreligiosa sembra aver prevalso su quella romanocentrica.
Ortodossia inquieta, Avanguardia obbediente... Se sui gesuiti gli ossimori si sprecano è perché la loro storia è pendolarismo tra opposti: innovazione e tradizionalismo, audacia e conservazione, curiosità intellettuale e blindature controriformiste. Con formula western si definiscono Gente di frontiera. Da intendersi non solo come confine geografico, ma pure culturale. Per il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, terra di missione è ad esempio internet. «Oggi l’uomo vive anche in rete. Perciò la Chiesa deve esserci». Non per niente, lo chiamano il Gesuita 2.0. Ha appena rinnovato la rivista aprendola a web e tablet. Cogliendomi paurosamente arretrato, un vero tecno-barbaro, cerca di spiegarmi il concetto di Cyberteologia (gli ha dedicato un saggio) o perché nei 140 caratteri di Twitter potrebbe riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Messinese, classe ’66, padre Spadaro ha scavato nella musica di Nick Cave e di Springsteen; nell’arte di Warhol e di Basquiat; nei racconti di Flannery O’Connor e di Raymond Carver. Ha fatto una tesi su Pier Vittorio Tondelli e sta per pubblicare una rilettura di Jack Kerouac in chiave «spirituale e non giovanilistica».
Nel suo ufficio vedo un mucchio libri («Ma non sono tutti qui»). Anche Baltasar Gracian (1601-58), il massimo scrittore gesuita, aveva una cospicua biblioteca. Tanto da attirarsi le invidie dei confratelli. Che lo accusarono di scarsa povertà. E siccome cesellava riflessioni sublimi su temi apparentemente profani quali laprudencia, la discreción o l’agudeza gli rinfacciarono pure di scrivere libri poco graves, cioè troppo leggeri e mondani. Però è storia d’altri tempi. D’altre frontiere.