Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 19 Domenica calendario

IL PAPA GLOBAL

Jorge Mario Bergoglio è il primo Papa che si possa definire veramente globale. Non solo perché è stato scovato «quasi alla fine del mondo», come ha detto scherzosamente di sé. Le dinamiche del Conclave del 12 e 13 marzo hanno mostrato la fine di un’era per il Vaticano. Le Americhe sono passate dalla periferia al cuore del mondo cattolico. L’eurocentrismo è finito. E la creazione di un consiglio di otto cardinali presi dai cinque continenti per concorrere alle decisioni di Francesco, il 14 aprile, conferma l’intenzione di rivoluzionare il governo della Chiesa. La scelta di chiamarsi Francesco è un altro sintomo della sua naturale attenzione ai poveri delle baraccopoli sovrappopolate nelle maggiori città del mondo. L’approccio nasce soprattutto dalla sua esperienza quotidiana di arcivescovo di Buenos Aires, attento alla povertà di gigantesche periferie; e riflette una tendenza mondiale. I trend per il 2030 dello Us National Intelligence Council dicono che nei prossimi vent’anni il numero delle megacity crescerà, creando aree «peri-urbane» e «mega-regioni» che diventeranno potenti attori non statali, superando le dimensioni nazionali.
Francesco rappresenta questo spostamento di priorità. E segnala una diversità notevole rispetto ai predecessori. Giovanni Paolo II fu eletto nel 1978, e come Pontefice polacco contribuì al crollo dell’impero sovietico. Primo non italiano dopo circa 400 anni, viaggiò in più di 120 nazioni. Ma Wojtyla è stato un globe trotter, più che un Papa globale. I suoi valori culturali e geopolitici erano influenzati dall’esperienza di sacerdote vissuto dietro la cortina di ferro comunista durante la guerra fredda. E ancora meno globale è stato il tedesco bavarese Benedetto XVI, col suo approccio intellettuale. Joseph Ratzinger ha rappresentato il tentativo di riconquistare l’Europa al cattolicesimo mentre l’eurocentrismo era finito. E rimanendo irretito e bloccato dalla Curia romana ha dimostrato quanto difficile fosse qualunque riforma. La sua «abdicazione», quasi senza precedenti, è stato un gesto traumatico e disperato, destinato a mutare il profilo plurisecolare del papato; e a mostrare la frustrazione di fronte all’impossibilità di emancipare il Vaticano da centri di potere radicati in profondità.
Nei prossimi mesi si assisterà al tentativo di archiviare le «dimissioni» di Benedetto XVI come un’eccezione e non come un precedente. Altrimenti si accentuerebbe la desacralizzazione del ruolo papale, disorientando la comunità cattolica mondiale; ma soprattutto si potrebbe avere un’ulteriore conseguenza, più politica: la possibilità teorica di provocare nuove dimissioni al vertice potrebbe diventare un pericoloso invito a destabilizzare un futuro pontificato con campagne dall’interno o dall’esterno della Chiesa. La scelta di Bergoglio, suo concorrente nel Conclave del 2005, potrebbe essere un tentativo di ricominciare da capo e di mettere fra parentesi Ratzinger, il «Papa emerito». Francesco, primo Pontefice gesuita, segna una potenziale rivoluzione. È stato scelto come riformatore della Curia, uomo in grado di affrontare e risolvere gli scandali, e come regista chiamato a globalizzare il Vaticano. E diversamente da quanto è stato scritto e pensato all’inizio, è probabile che la sua non sia stata un’elezione dell’ultima ora. Se non programmata, è stata almeno esaminata e discussa qualche giorno prima dell’apertura del Conclave, e poi approvata da molti cardinali americani e tedeschi, e da alcuni italiani nemici della Curia.
Prima, Bergoglio sembrava un candidato di seconda fila dopo l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, e quello di San Paolo in Brasile, Odilo Scherer, quest’ultimo con stretti legami curiali. Scherer, infatti, era stato a lungo membro del consiglio di sovrintendenza dello Ior, la banca vaticana, e vicino al controverso segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Bergoglio, invece, è davvero uno «straniero». E benché il suo nome fosse stato tenuto coperto per evitare di bruciarlo, aleggiava nella testa di molti dei 115 cardinali elettori. Il 10 marzo, due giorni prima che il Conclave si aprisse, Bergoglio incontrò monsignor Thomas Rosica, canadese e presidente di Salt and Light, la più potente tv cattolica del Canada. Passeggiarono e parlarono in piazza Navona. E Rosica chiese all’allora cardinale perché apparisse un po’ nervoso. «Prega per me», gli rispose l’allora arcivescovo di Buenos Aires. «Non so che cosa mi stanno preparando in Conclave i fratelli cardinali». Un ulteriore indizio fu fornito da Timothy Dolan, presidente della Conferenza episcopale statunitense, quando disse che entro il 14 marzo ci sarebbe stato il nuovo Pontefice.

Fu profetico: Francesco fu eletto addirittura il 13. Un motivo è stato la spaccatura del cosiddetto «partito italiano», che pure contava 28 grandi elettori su 115. L’ambizione di far tornare sul soglio di San Pietro un italiano non era accompagnata né da ragioni geo-religiose né da una visione o un primato strategici. E gli scandali nella Curia, il furto di documenti riservati dall’appartamento papale da parte del maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, aggiunti ai conflitti tra cardinali e vescovi, hanno portato a escludere dalla lista dei papabili gli italiani, visti come membri di un poison and dagger club (espressione usata da uno statunitense: una consorteria abituata a usare «veleno e pugnale»), dalla vera lista dei contendenti. Per la prima volta, i candidati provenienti dal Nuovo Mondo erano più numerosi di europei, asiatici e africani.
A Roma per l’investitura di Bergoglio, il vicepresidente Usa, Joe Biden, raccontò con una punta d’orgoglio che l’arcivescovo di Boston, Sean O’ Malley, era stato lì lì per diventare Pontefice.
Il cattolicesimo americano si presenta oggi come la base per un rinnovamento e una rinascita della Chiesa cattolica. E il mandato di Francesco appare esattamente questo: aprire la Chiesa alle periferie mondiali; liberare il Vaticano da persone compromesse negli scandali; cambiare struttura e obiettivi dello Ior; riscrivere e resuscitare l’agenda di politica estera della Santa Sede dopo quella che è stata percepita sul piano internazionale come la passività del pontificato di Benedetto XVI, e ricostruire l’immagine sgualcita della Chiesa, tornando a privilegiare i poveri. Quest’ultimo obiettivo risulta più facile rispetto a quello di liberarsi di abiti mentali radicati nella Curia romana. Francesco ha già dato segnali inequivocabili sul piano sociale, ma sugli aspetti dottrinali è difficile pensare a un qualunque strappo. L’opposizione ad aborto e matrimoni omosessuali, per citare due temi-simbolo, è un caposaldo della lotta della Chiesa cattolica contro quello che definisce relativismo morale. C’è qualche timido segnale in materia di garanzie per le coppie di fatto, ma non è prevedibile che il nuovo Pontefice si distacchi dalle posizioni tradizionali. Tra i suoi grandi elettori, oltre tutto, ci sono i cardinali statunitensi, critici nei confronti delle posizioni per loro troppo liberali dei democratici e dell’amministrazione Obama. «Nelle relazioni Usa-Vaticano», ha confidato con una punta di pessimismo un diplomatico obamiano di primo piano, «non prevediamo cambiamenti». Un Papa proveniente dall’America Latina, ipotizzò nel 2009 il vaticanista John Allen, significa scetticismo verso capitalismo e globalizzazione; confronto culturale duro con gli Usa, nonostante il numero crescente della popolazione cattolica di lingua spagnola; più attenzione all’ambiente; e pacifismo.
Per questo è difficile dire se Francesco cambierà l’approccio vaticano su dossier come la Siria, lacerata dal regime di Bashir Assad. Non si nutre grande fiducia nella strategia occidentale verso Damasco, e il dramma delle minoranze cristiane nel Maghreb e in Egitto dopo le Primavere arabe rimane un monito. Il Vaticano teme la politica delle nuove élite islamiche nei rapporti con le altre religioni. E prevede che ogni intervento militare in Siria guidato dall’Occidente possa peggiorare la situazione dei cristiani.
Nel breve periodo, è probabile dunque che i maggiori cambiamenti si vedranno a Roma: nella Roma papale. Il nuovo Pontefice vuole sradicare l’immagine di un papato intrappolato in una «bolla» autoreferenziale e bloccato dalla Curia. E lo Ior, l’Istituto per le opere di religione, la cosiddetta «banca del Vaticano», potrebbe essere il simbolo e la cavia di questa trasformazione. La grande incognita è quanto Francesco saprà e potrà penetrare i segreti più protetti della Santa Sede. La banca è stata macchiata da scandali sul riciclaggio di denaro già negli anni Settanta e Ottanta. Il suo presidente dal 1971 al 1989, monsignor Paul Marcinkus, poi cardinale, si salvò dai processi solo perché godeva dell’immunità diplomatica vaticana. E recentemente, dal 2010 lo Ior è stato indagato di nuovo dalla magistratura italiana. Per questo il tentativo di Benedetto XVI di riformare l’Istituto è stato considerato quasi rivoluzionario. E la scelta di Ettore Gotti Tedeschi, l’economista che l’ha guidato dal 2009 al 2012, fu vista come un passo nel senso della trasparenza voluta da Ratzinger e dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, per rinnovare l’immagine dello Ior.
Il Vaticano ha cercato il placet di Moneyval, il comitato di esperti del Consiglio d’Europa che attesta l’aderenza alle norme contro il riciclaggio e contro il finanziamento del terrorismo. E, accettando le ispezioni di un’istituzione laica e indipendente, ha implicitamente accettato l’idea di «confessare» i propri peccati finanziari a qualcuno estraneo al suo mondo. La parabola più recente della banca riflette il tentativo vaticano di guadagnarsi credibilità internazionale a livello finanziario, dopo un passato nel quale bastavano accordi bilaterali fra Stato della Città del Vaticano e singole nazioni. Ma l’evoluzione si è dimostrata paradossale. Gotti Tedeschi è stato sfiduciato nel maggio del 2012: si è detto che era emotivo, poco operativo e incapace di capire la struttura e le regole, scritte e non, dello Ior. E l’Istituto è rimasto senza presidente per più di nove mesi.
In realtà, nel giugno del 2012 è arrivato un via libera da Moneyval, seppure con riserva. Ma la vicenda ha fatto emergere il conflitto fra esigenza di trasparenza finanziaria e istinto di autodifesa del Vaticano. Secondo alcuni difensori dello Ior, una trasparenza eccessiva rischiava e rischia di mettere in discussione la sicurezza della Santa Sede. Ma la decisione di scegliere il successore di Gotti Tedeschi, il banchiere Ernst von Freyberg, nel limbo temporale fra la «rinuncia» di Benedetto XVI e l’elezione di Francesco, ha sollevato sospetti e critiche. E il nuovo Papa, secondo una convinzione diffusa, spingerà per accelerare la riforma dello Ior, a dispetto delle resistenze, perché è questo il mandato ricevuto dal Conclave che lo ha eletto. Ha già compiuto un gesto minore, ma significativo: il 19 aprile ha abolito il «bonus» annuale di 25 mila euro che veniva pagato ai cinque cardinali del consiglio di sovrintendenza dello Ior. D’altronde, la crisi è così acuta che non sembra esistere alternativa a una riforma radicale.

Il Vaticano è da tempo intrappolato nel ruolo di «sospettato globale» per la pedofilia, lo Ior, e i rapporti con personaggi controversi della politica e del mondo affaristico italiano. E con un’Europa immersa nella crisi economico-finanziaria, i Paesi settentrionali dell’Ue tendono a vedere la spesa pubblica in eccesso delle nazioni mediterranee come «peccati cattolici». La parola tedesca Schuld significa sia «debito» che «colpa». Questo aspetto è spesso poco dibattuto, perché tocca un tabù ed evoca i fantasmi delle guerre di religione. Ma adesso sta riemergendo come un fiume carsico, che alimenta e inquina le paure sul futuro della moneta unica e della stessa democrazia. Il giornalista Stephan Richter sostiene che se Martin Lutero fosse stato presente alla firma del trattato di Maastricht, nel 1992, si sarebbe opposto all’ingresso nell’euro di tutti i Paesi cattolici. Probabilmente Lutero, uno dei padri del protestantesimo, avrebbe detto: «Leggete le mie labbra: no nazioni cattoliche che non hanno fatto la Riforma protestante», sostiene Richter, direttore del magazine Usa online «The Globalist».
A sentir lui, il cattolicesimo sarebbe dannoso per la salute fiscale di uno Stato anche adesso nel XXI secolo. Per i Paesi «peccatori» dal punto di vista del debito pubblico (quelli a maggioranza cattolica come Portogallo, Irlanda, Italia, e Spagna, con l’aggiunta di Grecia e Cipro, di religione ortodossa), la radice di tutto il male nascerebbe dall’incapacità di emanciparsi dalla mentalità cattolica. Può darsi che sia l’ennesimo riflesso di un eurocentrismo al tramonto. Ma per l’americano Francesco, uno sfondo storico-religioso così teso pone un’ulteriore sfida. Nonostante i 76 anni di età, è sempre più forte l’impressione che non sarà un Pontefice transitorio, ma il Papa di una transizione cruciale.
Massimo Franco