Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 19 Venerdì calendario

DEEP PURPLE

Il sapore di whisky nei rari baci di mio padre e l’odore della moquette polverosa sulla quale ci sdraiavamo a sentire i dischi. Poi ricordo una foto: cinque busti di uomini di cera con una fiammella in testa, immersi nel viola. Bum, “brucia”. Un avvertimento, ma anche l’ottavo album dei Deep Purple, che mio padre ascoltava incessantemente. Era il 1974: tre anni dopo lui sarebbe morto, lasciandomi i suoi dischi. All’epoca i Deep Purple avevano già affrontato l’abbandono di Ian Gillan e Roger Glover, rispettivamente cantante e bassista. Tra il 1968 e oggi, la band ha subito numerose metamorfosi sia musicali che strutturali, continuando a strappare giorni, mesi e anni a un’ipotetica morte discografica e biologica. Hanno registrato album più o meno belli, e continuato a girare il mondo aspettando solo di poter ruggire ancora una volta.
Da qualche giorno è nei negozi il loro nuovo album, intitolato NOW What?!. Per realizzarlo hanno chiamato Bob Ezrin, produttore di alcuni tra i dischi più belli degli anni ’70 e ’80: da The Wall dei Pink Floyd a Berlin di Lou Reed. Al primo ascolto sono rimasto impietrito davanti a un suono così monumentale e a una libertà compositiva finalmente senza regole. Un canto del cigno? Forse. Sicuramente, quello che spira lì dentro è un vento nuovo, ma al tempo stesso antico. Lo stesso che rosicchia le rocce preistoriche dei canyon, trasformandole nel corso dei secoli. Per capirci qualcosa di più, Rolling Stone mi ha spedito a Singapore a incontrare i Deep Purple durante una tappa del nuovo tour mondiale che a luglio li porterà anche in Italia.
L’appuntamento è allo storico Hotel Raffles, che a Singapore è una specie di monumento nazionale. Fuori ci sono 33 gradi, e 10 non dormo da 24 ore. Mi viene incontro Kathie, australiana tutto pepe, un mix tra Kylie Minogue e Margaret Thatcher, da anni loro assistente. Da come parla, capisco che i Deep Purple non sono semplicemente una band, ma una famiglia allargata. Meglio ancora: una famiglia disastrata, in cui tutto si regge grazie a una strana alchimia organica e misteriosa. Ordino caffè, caffè, caffè. Ma quando i Deep Purple entrano dalla porta non ho più bisogno di caffeina per rimanere sveglio.
IAN GILLAN: A livello di suono, questo è probabilmente il migliore album che abbiamo mai fatto. A parte forse Made in Japan, che però era un live. Bob è riuscito a ottenere una separazione tra gli strumenti come mai era successo prima! Quando abbiamo ascoltato il primo “take” registrato nel suo studio a Nashville, siamo rimasti senza parole. E questa la caratteristica essenziale di Bob: 11 suono. E poi la concentrazione e l’intensità che ti chiede di metterci. Sa essere molto autoritario: su alcune canzoni mi ha costretto a riscrivere tre o quattro volte i testi, ah ah.
A proposito dei testi: non deve essere esattamente semplice continuare a scrivere roba sempre originale per 40 anni...
IAN GILLAN: Già. Tantissimi anni fa ero con mia figlia e stavamo guardando uno show musicale in tv. A un certo punto arriva questa band di vecchietti, e lei rimane inorridita dai loro lunghi capelli grigi e dai testi infantili: roba di ragazze e macchine veloci. Mi ripromisi che a noi non sarebbe mai successo...
Ora però sei tu, quello in televisione...
IAN GILLAN: E infatti bisogna essere pronti a cambiare. Da ragazzo ti vedi come immortale, ma scopri presto che non è esattamente così... Oggi i miei testi hanno a che vedere con la politica, la spiritualità: il mondo osservato con gli occhi di un adulto.
Questa porta per la spiritualità, dove l’hai trovata?
IAN GILLAN: Ho letto questo libro, tempo fa, The God Delusion di Richard Dawkins (in italiano L’illusione di Dio, Mondadori 2007, ndr). Una merda. Dawkins fa l’errore di dare addosso a tutte le religioni indiscriminatamente, incluse quelle che con la fede hanno davvero poco a che vedere. Io la Chiesa l’ho lasciata da ragazzino, dopo una conversazione sui miracoli con il mio parroco. Volevo delle spiegazioni in merito, ma lui mi consigliò di non farmi troppe domande. In altre parole, chiedeva che staccassi l’intelligenza dalla spiritualità, perché è questo che vogliono tutti i preti. Successivamente ho intrapreso un viaggio tutto mio, e l’evidenza della presenza di un Dio mi ha colpito senza preavviso. E ovvio che lo spirito umano esiste, ce l’abbiamo tutti. E allora chiamiamolo pure Dio, senza cercare altri nomi.
Cosa intendi per “miracolo”?
IAN GILLAN: Ti racconterò una storiella. Da piccolo ero un fan del calcio, e spesso mio padre mi portava allo stadio con lui. Al ritorno, mentre aspettavamo l’autobus che ci avrebbe riportati a casa e che nei weekend non arrivava mai a un certo punto mio padre diceva: “Ian, conta fino a cinque!”. Io contavo, e quando arrivavo a cinque il bus appariva puntualmente in fondo alla strada! Impazzivo per questa cosa, e ogni volta gli chiedevo come diavolo facesse. Lui allora si faceva tutto misterioso e mi diceva che un giorno, da grande, avrei capito. Gli adulti — era la mia impressione di allora erano a conoscenza dei segreti dell’universo, e io non vedevo l’ora di crescere. Mio padre poi morì senza rivelarmi il segreto, ma tanti anni dopo successe che mi ritrovai a quella fermata di autobus, e naturalmente mi tornò in mente quella cosa del conto alla rovescia. Guardai in fondo alla strada e vidi che da sopra le case si vedeva un pezzettino del tetto del bus che arrivava: da bambino ero troppo piccolo proprio nel senso dell’altezza per potermene accorgerei Ecco: quello che faceva mio padre con me allora, per me è un miracolo. Perché era un piccolo trucco, ma a me sembrava magia. I miracoli sono esattamente questo: condividere con gli altri un tuo stato di consapevolezza più alto, più evoluto.
La notte, mentre torno in albergo, il tassista sbaglia indirizzo e mi scarica in una stradina buia di Little China. Incomincia a piovere. Devo trovare un riparo alla svelta e aspettare che smetta. Vedo un portone aperto e mi ci infilo. All’interno è buio, c’è odore di incenso. Mi viene incontro un signore cinese che mi chiede di togliermi le scarpe. Lo faccio senza neanche chiedere il perché, poi lo scopro: sono all’interno del primo tempio buddista di Singapore. Il giorno dopo (e io nel frattempo non ho ancora chiuso occhio) ci incontriamo di nuovo al Raffles. I Deep Purple arrivano uno dopo l’altro e si siedono su un divano di una strana sfumatura arancione per fare qualche scatto. Ho la sensazione di scattare una foto di famiglia (su rollingstonemagazine.it la gallery, ndr): queste cinque persone si sfiorano con un agio e un’amorevole indifferenza che si raggiunge solo con persone che conosciamo da sempre e di cui abbiamo visto tutto. Anche il peggio.
IAN PAICE: Una band è una famiglia. Molto spesso disfunzionale. In questa particolare famiglia c’è gente che è andata e gente che è venuta. Se mi guardo indietro, provo un grande dispiacere: forse in certi casi avrei potuto evitare che qualcuno se ne andasse...ma evidentemente era necessario. Negli anni ’70, quando lan e Roger lasciarono la band, io non l’avrei voluto. Ma ero il più piccolo, e non avevo gli strumenti per fermarli. Mi si spezzò il cuore. Così Ritchie (Blackmore, ndr) e Jon (Lord, scomparso nel 2012, ndr) diventarono i miei genitori. Mi dicevano dove e quando presentarmi. Io obbedivo. La vita era facile: dovevo solo farmi trovare lì e suonare. Poi le cose sono cambiate. Anche Ritchie e Jon se ne andarono e io rimasi Punico membro originale. Ma non ho mai avuto dubbi su cosa fare. Sono rimasto, e ho anche preso le cose in mano. Oggi sono io a dare gli ordini: il grillo parlante...
Sei così anche nella vita privata?
IAN PAICE: Guarda, sono sposato da 36 anni e non ho mai avuto un dubbio. Non mi sono creato problemi dove non ce n’erano. Se sai di essere nel posto giusto, perché andarne a cercare un altro? Quando sono diventato padre, mi sono preso del tempo per dedicarmi alla famiglia, alla paternità. Ma poi ho rischiato di impazzire. Perché in me c’è anche l’altro, quello che vuole stare in giro a suonare la batteria. Così ho ricominciato.
Ma la vita in tour deve cambiare? lo ho 45 anni, e delle volte la sera mi addormento con mia figlia alle nove di sera!
IAN PAICE: Succede anche a me, ma lo faccio da talmente tanto tempo che ho imparato a centellinare le energie. Se devo dormire dormo, e se devo suonare suono.
Sembri molto organizzato. Sveglio, nell“’hic et nunc”.
IAN PAICE: Faccio un lavoro assurdo, ma ho una vita normale. Ho capito che, più ero normale nella vita privata, più sarei riuscito a far durare a lungo la mia carriera.
Mi stai dicendo che bisogna sviluppare una distanza, un distacco da quello che si fa, per farlo al meglio?
IAN PAICE: Già.
A quanto pare i ragazzi si trovano bene con me. Al punto che mi chiedono se voglio andare insieme a loro al soundcheck, nel pomeriggio. Ma succede di più: alla fine della session fotografica, Roger Glover mi prende da una parte e mi chiede se mi va di andare a pranzo con lui. Ci incamminiamo a piedi fuori dall’hotel. Fa un caldo ridicolo e noi sembriamo due personaggi di una sit’com che dagli anni ’70 vengono trasportati nel futuro. Roger vuole comprare dei regali alle sue bambine di 3 e 5 anni. E per le sue nipotine, figlie della primogenita avuta da un precedente matrimonio. Mi parla della sua attuale moglie, incontrata in aereo. E svizzera e ha 30 anni meno di lui. Mi fa vedere una sua foto: è una ragazza bellissima e solare, con uno sguardo blu che va lontano, come quello di Roger — il suo forse appena un po’ più marinato nella vita. Non è un caso se si sono incontrati in cielo: Roger è il ritratto dell’uomo che si fa sparare dal cannone. Nella sua vita ha visto di tutto, è sopravvissuto a 40 anni di rock&roll, e pure a una causa di divorzio che l’ha praticamente messo sul lastrico. Ma non c’è nulla che una buona birra non possa allontanare per un po’. Ci sediamo in un caffè e ordiniamo da mangiare e bere.
Fare un disco è come fare la cacca: non vuoi arrivare al bagno ne troppo presto ne troppo tardi.
ROGER GLOVER: (Ride) E verissimo. Ultimamente, poi, fare un disco non è proprio un grande investimento economico. Sei fortunato se vai in pari. Noi, a un certo punto, abbiamo anche pensato di mettere le canzoni su Internet a mano a mano che le registravamo. Ma poi non l’abbiamo fatto: i Deep Purple sono una band da album. Non è stato tutto facile, eh. Quando abbiamo incontrato Bob Ezrin, la prima svegliata che ci ha dato è stato disilluderci circa le possibilità di scrivere dei riff che passassero alla radio. "Tirate fuori il musicista che c’è in voi, invece", ci ha detto. Ci aveva visto improvvisare sul palco per 20 minuti, ed era impazzito.
Beh, se si parla di riff... quello di Smoke on the Water è la prima cosa che abbiamo imparato tutti alla chitarra! È tipo le cinque note di Incontri ravvicinati del terzo tipo. E tu, se posso dirti, mi sembri runico che ha conservato quella rabbia iniziale.
ROGER GLOVER: Sarà la mia insicurezza. La voglia di lasciare un segno. Biologicamente un segno l’hai lasciato eccome! Ma il sesso, inteso come energia sessuale, c’è ancora nei Deep Purple? Non diciamoci cazzate, i musicisti vivono per la fica. Che sia idealizzata, o reale, o sublimata In un pensiero filosofico. Te lo chiedo perché sembri l’unico carnale, contraddittorio, sexy.
ROGER GLOVER: Cavolo. Mi hai fatto ricordare di una volta che ero con Ian e stavamo scrivendo... Io alla chitarra, lui con carta e penna. A un certo punto lui canta una cosa che non c’entra nulla con quella prima, e io rimango un po’ interdetto. Lui mi guarda e dice: “Ha a che vedere con lo sperma. Tutto ha a che vedere con lo sperma”. Quindi sì, forse hai ragione.
Ok, capisco il senso spirituale dello sperma che intendeva lan, ma per me il R&R ha più a che vedere con l’energia eruttante e fertile dell’eiaculazione. Voi come fate a coniugare questo in un’età in cui il sesso dovrebbe fisiologicamente avere un significato diverso? Dove trovate la forza per salire sul palco tutte le sere?
ROGER GLOVER: Infatti è tosta salire ogni sera. Prima di entrare in scena, si parla di politica, sport, famiglia: roba da vecchietti al pub, insomma! Poi, un secondo prima di uscire sul palco, accade qualcosa: il corpo cambia, una vera mutazione biologica. L’età non esiste più, e tu ridiventi un animale da palcoscenico.
Ma allora gli spermatozoi siete voi! E l’utero che vi accoglie è il pubblico.
ROGER GLOVER: E ti dirò di più: c’è chi dice che il basso sia molto fallico. Altro che “fallico”: a me sembra proprio un cazzo! Nel pomeriggio, poco prima del soundcheck, ho appuntamento con Ian Paice e Don Airey. Don, da 11 anni tastierista della band, è un turnista che ha suonato in oltre 200 album: appena salito sul palco inizia a giocare con il suo meraviglioso organo Hammond, poi passa al piano dove, giusto per sgranchirsi le dita, suona una cosetta di Bach. Mi racconta che a Singapore c’è venuto per la prima volta a 21 anni, quando suonava sulle navi da crociera. Il padre gli aveva detto di non mancare l’appuntamento del tè pomeridiano all’Hotel Raffles. A distanza di 30 anni è di nuovo qui a bere il tè. L’atmosfera dietro le quinte è rilassata. Tutti si conoscono da tanto tempo: sembra il backstage di un musical tipo Cats, con 30 anni di repliche a Broadway. L’unico un po’ teso sembra Steve Morse: il solo a essersi portato lo strumento nel camerino. Storico chitarrista dei Kansas, Morse è nella band dal 1994. Famoso per il suo perfezionismo, è diventato il coach musicale della band, che sotto la sua guida pare essere nettamente migliorata.
La sala nel frattempo si riempie. Un mix assurdo di età ed etnie. Il concerto è di una semplicità disarmante. Cinque signori, dell’età che oggi avrebbe mio padre, che rompono il culo a gran parte dei poser di oggi, e tutto questo divertendosi genuinamente. Non devono dimostrare più niente a nessuno, eppure ogni sera alzano la sbarra. Un miracolo che i Deep Purple dicono essere strettamente correlato a questo nuovo disco, NOW What?!. Così, tornato a Roma, ho voluto parlare con l’artefice di questa piccola rinascita: Bob Ezrin. L’avevo conosciuto a Los Angeles nel 1990. Suonavo la batteria in una band con il suo figliastro. Quando Bob aveva intravisto la mia deriva con l’eroina mi aveva quasi adottato, obbligandomi a fare karaté con lui tutte le mattine. Uno spirito buono, anche se duro. Con se stesso e con gli altri.
BOB EZRIN: Quando li ho incontrati in Canada, Roger mi ha detto una cosa stupenda: “Voglio rimettere la parola deep (profondo, ndr) in Deep Purple”. E per quella frase che ho deciso che avrei prodotto l’album. All’inizio mi sembravano dei bambini maltrattati: dalle circostanze, dalla discografia, e da gente che per anni ha ripetuto loro: “No, questo non si può fare”. La prima cosa sulla quale ho lavorato è stata aiutarli a perdere questo senso di rassegnazione, di disfattismo. Volevo ritrovassero i loro superpoteri. Cosa hai imparato da questa esperienza con loro?
BOB EZRIN: Pure io, in qualche modo, sono stato un bambino maltrattato. Hanno cercato di sottomettermi, di convincermi a pensare commercialmente, e così anche io ho perso i miei superpoteri: superpoteri che consistevano nella forza di portare gli artisti a essere al meglio delle loro possibilità, senza compromessi. Beh, credo che questa volta i ragazzi siano andati molto oltre i loro limiti. Ed è stato molto bello farne parte.