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 2013  aprile 21 Domenica calendario

HO SCRITTO DON CHISCIOTTE MA IL CONFRONTO E’ DISASTROSO - II

povero ascensore è certamente incolpevole. Tuttavia ostenta, in un cartello di avviso, uno di quelli che intimano di non aprire le porte in anticipo per non restare imprigionati, un verbo “essere” alla terza persona singolare con l’accento acuto (é). È grave, ci si domanda? In assoluto forse no, tuttavia questo ascensore ha la ventura di trovarsi nel palazzo sbagliato, perché qui abita un famoso e intransigente critico letterario. Intanto lo sgrammaticato elevatore è giunto a destinazione e Pietro Citati già sorride sulla porta. Il salotto è stranamente povero di libri, ma è un tranello: la casa è un susseguirsi di porte che si aprono su scaffali affollatissimi di capolavori, più vissuti che impolverati. Amati di sicuro perché leggere libri è soprattutto un piacere, anche se lo si fa per mestiere. Lo si capisce da come, nel corso della conversazione, Pietro Citati s’illumina, la voce cambia e gli occhi severi improvvisamente ridono. E da come dà del tu ai libri (la Leggerezza di Milan Kundera, invece che L’insostenibile leggerezza dell’essere) o agli autori (come Tomasi di Lampedusa che confidenzialmente lui chiama Lampedusa). In tutto, tra queste stanze e la casa delle vacanze, la sua biblioteca conta trentamila volumi. Più uno, uscito da qualche giorno: Il Don Chisciotte (Mondadori, 147 pagg; 17 euro), un saggio sul capostipite del romanzo moderno. Un libro universale – meglio: una teoria di libri e di narratori – che ha “insegnato” la fantasia a generazioni di lettori.
Don Chisciotte, perché ora?
È il più bel libro moderno, da cui deriva tutta la letteratura moderna. Mi ha sempre incantato. L’anno scorso l’ho ripreso in mano – è uscita un’edizione spagnola a cura di Francisco Rico con un commento utilissimo, il Don Chisciotte non è un libro facile – e allora ho ripreso a leggerlo. E ho detto: “Bè, faccio un librino”.
Ino?
Sì è proprio un librino, in cui tra l’altro non si parla nemmeno di tutto il romanzo. Racconto soprattutto la storia di Don Chisciotte e Sancio.
C’è poca critica.
Quello che di solito avrei detto in tre pagine ho scelto di dirlo in dieci righe. Ho cercato di fare un lavoro leggero, per avvicinare alla lettura anche chi magari non lo conosceva. Una piccola cosa da leggere in poche ore. E poi al mio ipotetico lettore sarebbe venuta – pensavo – una gran nostalgia del Don Chisciotte e allora lo avrebbe riletto. Naturalmente, passando dal mio librino al Don Chisciotte, il confronto è disastroso!
Perché il Quijote è così importante per la letteratura moderna?
Perché ci sono tanti narratori. Prima comincia a raccontare Cervantes. Poi smette di parlare lui e narra un saggio, un negromante. Poi queste storie raccontate dal negromante finiscono nelle biblioteche della Mancia e Cervantes le cerca lì. Infine il libro s’interrompe, Cervantes non sa cosa raccontare. Ma qui accade un fatto divertentissimo. Cervantes va a Toledo, dove incontra un ragazzo che vende scartoffie. Lo scrittore le prende, le fa leggere – erano scritte in arabo – a un morisco, cioè un arabo convertito al cristianesimo. E a un certo punto si rende conto che si sta parlando di Dulcinea. Il libro era il Don Chisciotte di Cide Hamete Benengeli. Allora fa tradurre al morisco tutto quanto e così nasce il Don Chisciotte. Secondo quanto ci dice Cervantes, il Don Chisciotte è scritto da un arabo. E gli arabi, secondo le credenze di quel tempo, erano tutti bugiardi. Ma Benengeli è un singolare tipo di bugiardo: è anche lo storico più veritiero che si possa immaginare. Quindi Don Chisciotte è insieme un libro assolutamente vero e assolutamente falso. Ciò che è vero è falso, ciò che è falso è vero: questa è la chiave fondamentale.
La cosa complicata è come nasce il personaggio dell’hidalgo.
Tutti sanno che Don Chisciotte vive i primi quarant’anni della sua esistenza chiuso in casa mangiando modestamente, vestendosi modestamente e divorando libri di cavalleria. A un certo punto decide di uscire, andare per quelle stesse strade percorse dai suoi cavalieri. Ma non ha nome. Ed è essenziale, il nome. Don Chisciotte inventa un nome, sia per sé sia per Ronzinante, il suo cavallo. Lui diventa quello che è il nome. Il nome che Don Chisciotte si attribuisce è contemporaneamente un nome sublime, don (lui era un semplice hidalgo), e un nome farsesco.
Elogio della contraddizione?
Tutto nel Don Chisciotte è contraddizione. Per esempio nelle prime pagine Cervantes ci dà conto dell’amore di Don Chisciotte per una contadina, nemmeno troppo bella. L’aveva vista tre o quattro volte: lei neanche si era accorta di lui. Più avanti, quando Sancio deve portare Don Chisciotte nella casa di Dulcinea, che era poi una contadina, Don Chisciotte gli dice che lui non ha mai visto Dulcinea e quindi non sa dove sia la sua casa. Da un lato Dulcinea è una contadina esistente, che Don Chisciotte ha visto, dall’altro Don Chisciotte non l’ha mai vista. E lì nascono le tremende burle di Sancio.
Come quando Sancio dice a Don Chisciotte che tre contadine di passaggio sono Dulcinea e le sue madamigelle.
Don Chisciotte s’avvicina, cerca di far scendere dalla sua asina la presunta Dulcinea e avverte – cosa terribile – che l’alito di lei sa di cipolla. Invece di essere la più saggia e la più bella della donne, come lui l’aveva immaginata, è una contadinaccia puzzolente e piena di peli. E qui è il momento di massima tragedia del Don Chisciotte: lui non riesce a risollevarsi. O ha un solo sistema per risollevarsi, cioè dire che alcuni incantatori hanno trasformato la bellissima, civilissima e saggissima Dulcinea in una contadinaccia. Tutto il Don Chisciotte è costruito in questo modo.
Il personaggio Don Chisciotte è attuale?
Attualissimo. Un uomo che vive di nomi, che vive secondo i libri. È una costante dell’umanità: Alessandro Magno aveva l’Iliade sotto il cuscino. E oggi vivere secondo i libri è ancora più diffuso che al tempo di Don Chisciotte.
Davvero? Letteratura e la lettura sono molto meno centrali che in passato.
Vivere d’imitazione è una cosa fondamentale dell’esistenza dai tempi di Omero. Non credo sia cambiato.
A Don Chisciotte è spesso associato l’aggettivo pazzo. Non da lei.
È un uomo dominato dall’immaginazione, un visionario. Si lega spesso anche all’idea di fallimento. Ma un uomo con visioni simili non può essere un fallito. Come quando, davanti a caproni e pecore, lui vede degli eserciti da combattere. È un trionfo della fantasia: sa i loro nomi, i loro amori. C’è un solo libro dove ci sia un tale trionfo immaginifico, l’Orlando furioso. Io penso che ognuno dentro abbia un modello. Certo non grandioso come Don Chisciotte: il mondo è un po’ decaduto, si sa. E poi non si può dire che sia uno pazzo che morendo rinsavisce. È sempre doppio, è un visionario che fantastica sulle storie di Spagna e insieme un uomo che muore ripetendo le parole che aveva detto Cristo. È questo che ha entusiasmato nei secoli i lettori.
I lettori del Don Chisciotte non sono italiani.
La letteratura inglese, da Sterne a Dickens, è tutta “donchisciottesca”. Grande eco in Francia e nel Romanticismo tedesco. In Italia, nulla. C’è una sola traccia di Don Chisciotte. Quando Leopardi va da Recanati a Roma, dove passerà alcuni mesi nella casa dello zio. Sale sulla carrozza e porta con sé i due tomi del Don Chisciotte in spagnolo. E durante il viaggio che dura parecchi giorni lo legge tutto. Ma non ne scrive nulla, anche se sicuramente Leopardi ha adorato il Don Chisciotte: del resto omettere le cose fondamentali è tipico di Leopardi.
C’è il manoscritto che Manzoni dice di aver ritrovato e da cui racconta di aver appreso la storia dei Promessi sposi.
Certamente viene di lì. Manzoni e Leopardi sono i due lettori italiani del Don Chisciotte, ma con rilievo immensamente minore rispetto ad altri Paesi.
Lei ha spesso scritto dell’importanza di leggere i classici. Quanto è ascoltato il suo appello?
Negli ultimi anni abbiamo letto meno libri buoni, certo rispetto a trent’anni fa non c’è paragone. Trent’anni fa i libri belli venivano venduti tanto. Penso alla Leggerezza di Kundera. Oggi le grandi tirature sono legate ai libri cattivi.
Quali sono i libri cattivi?
Un libro cattivo è un libro senza forma. La qualità essenziale di un libro bello è il trionfo della forma. Si aggiunga poi l’essere senza forma, di solito ha come conseguenza che il libro in questione è anche stupido, volgare e così via. Però non credo che altrove le cose vadano molto meglio.
C’è una linea di confine temporale?
Vent’anni fa, più o meno. Pensiamo alla grandezza della letteratura italiana del Dopoguerra: Gadda, Calvino, Lampedusa, Bertolucci, Caproni, Montale. Abbiamo avuto una letteratura bellissima negli anni che vanno dai Trenta ai Sessanta. Forse anche fino agli anni Ottanta, fino alla morte di Calvino.
Eravate amici, vero?
Molto. Eravamo vicini di casa al mare, anche con Fruttero e con l’editore della Utet, Merlini. Ora non c’è più nessuno.
Il diffuso prodursi di cattiva letteratura non dovrebbe spingere a una riscoperta dei classici?
La gente non si rende conto che è pessima letteratura. Le classifiche sono intasate di robaccia. I premi letterari sono irrilevanti, sia chiaro. Però quarant’anni fa allo Strega concorrevano la Morante, Lampedusa, Calvino contemporaneamente. Le persone non si rendono conto: c’è un degrado del gusto e una diminuzione della lettura.
Newton Compton ha messo in commercio piccoli classici a 0.99 centesimi.
Come riescano a cavarsela non lo so. Hanno avuto molto successo, del resto se un libro costa meno di un giornale... Loro lavorano così, non bene. Pubblicano volumi immensi, che non si riescono a tenere in mano e a volte sono scritti in una lingua... Penso alla Recherche, un solo volume di 2500 pagine. Spaventoso, tradotto malissimo.
Bè, poi abbiamo una traduzione talmente bella di Raboni.
Non è bella nemmeno quella. Proust non si può tradurre. Provi a tradurre in italiano la prima riga: Longtemps, je me suis couché de bonne heure. Come la mette viene male. Proust non è traducibile, anche se Raboni è di gran lunga la migliore versione che abbiamo.
L’italiano, nell’uso comune, è ridotto a pochi lemmi. Che relazione c’è tra lo svuotamento della lingua e il degrado del pensiero?
Una forte relazione. È successo prima nel mondo anglofono che da noi. Il periodo inglese è di pochissime parole, un sistema linguistico in cui non si può pensare. Da noi c’è da un lato la lingua elementare, dall’altro la lingua diffusa. Leggiamo i giornali: non è che siano scritti con frasette di una riga. Galli della Loggia, che so, scrive dei periodi lunghissimi. E non scrive bene. È rimasto il periodare di Aldo Moro, che scriveva e parlava in modo mostruoso. Quel discorso da giudici, da avvocati, faticoso e incomprensibile. Dall’altro, Berlusconi per esempio, si esprime con frasette, sul modello inglese. Sono due mostruosità coalizzate tra loro per distruggere la lingua. La lingua non è solo un’entità reale, ma anche potenziale. Con l’italiano, volendo, si può fare tutto ciò che si vuole. La nostra è ancora una lingua di grande ricchezza e libertà, anche se viene poco adoperata. Io credo che il francese oggi sia molto decaduto e che con il francese oggi non si possa più fare quasi niente. Il francese è più asintattico dell’inglese.
Però è la lingua di Proust...
... e di Chateaubriand, certo. Ma è anche la lingua di Voltaire, cioè una linguetta deliziosa in cui è difficilissimo esprimersi in modo ricco. Con l’italiano è diverso, non c’è la lingua che urta contro il desiderio o le aspirazioni dello scrittore. Voglio dire: è ancora possibile, anche se sono pochissimi quelli che scrivono ancora bene in italiano.
Facciamo dei nomi?
(Passano quaranta secondi di silenzio). No. E guardi che anche i giornali sono peggiorati.
Scrivere bene non è ritenuto un valore.
I giornalisti devono farsi capire. Se uno non si fa capire non è un buon giornalista e danneggia la testata per cui lavora. L’articolo deve cominciare con un colpo, tac, e deve finire, tac, con un altro colpo. Una cosa che non si vede quasi mai. Non è che un tempo i quotidiani fossero scritti bene, ma c’era l’abitudine di riscrivere. Certi articoli bisogna riscriverli. Questo accade con i libri, almeno nelle case editrici dove ci sono buoni editor. Il risultato è che quando un libro viene riscritto bene, ha successo. Quindi non è vero che non serve scrivere bene.
La musicalità è una delle caratteristiche smarrite nella scrittura contemporanea: d’accordo?
La nostra lingua è talmente musicale... sì, purtroppo si è perduta quasi completamente.
Perché ha detto che Aldo Moro scriveva male?
Io avevo una passione per i democristiani. Non politica, antropologica. Pensi a cosa c’era prima: fascisti starnazzanti e retorici. Poi arrivano queste persone che fanno il possibile per non farsi vedere, che cercano di scomparire. Mentre i comunisti allora ostentavano un sistema di idee, loro facevano come Kutuzov in Guerra e pace: si cancellavano, cercando semmai di trasformare gli altri in se stessi. Anche fisicamente tentavano di confondersi, si assomigliavano tra loro. E avevano questa inimicizia con la lingua: i comunisti si esprimevano meglio di loro, avevano un certo rispetto per la sintassi. Anche se pure loro, quando imitavano il linguaggio sovietico, erano tremendi. Quella dei democristiani invece era la lingua dei giuristi e dei professori: la peggiore lingua italiana. Non amavano che le cose fossero dette chiaramente, inseguivano l’ambiguità, preferivano il grigio.
Torniamo ai libri: nessuna speranza per il futuro?
Non sono così pessimista. Pensi a cosa è stata la letteratura mondiale dalla nascita di Goethe fino al 1950: due secoli meravigliosi. Oppure guardiamo la letteratura italiana: tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento tace per un’ottantina di anni. Allora io penso che la letteratura obbedisca non a ragioni storiche, ma biologiche. La letteratura è stanca e si riposa. Forse fra trent’anni, si risveglierà.