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 2013  aprile 28 Domenica calendario

DANZANDO COL SUBLIME MENTITORE

Ricordate le immagini che chiudono 81/2?? Al centro del grande ballo in tondo di tutti i personaggi, un ragazzino vestito di bianco ne domava e orchestrava fantasmi e paure. Il film era uscito nelle sale il 15 febbraio del 1963, mezzo secolo fa. Il 17 settembre del 1953 era invece uscito I vitelloni. Il 13 dicembre del 1973, quarant’anni fa, fu poi la volta di Amarcord, mentre la prima di E la nave va risale al 7 ottobre del 1983. E soprattutto, il 31 ottobre del 1993, vent’anni fa, Federico Fellini moriva. Se ora ci osservasse da qualche posto molto lontano – libero e leggero come quell’ormai antico ragazzino vestito di bianco –, il più grande dei nostri autori sorriderebbe della nostra attenzione per ventennali, trentennali, quarantennali... Ma è questo pur sempre un modo per ricordarlo, e per ricordare i suoi film che hanno segnato la nostra adolescenza, la nostra giovinezza, la nostra maturità.
Di decennio in decennio, di anno in anno, il Paese cambiava pelle e cuore. Perduta l’anima contadina, con fatica o con spontaneità, con sicurezza o con smarrimento, con slancio o con cinismo ne cercava una nuova. Nel 1952, appunto, Lo sceicco bianco mostrava noi stessi a noi stessi, in uno specchio che aveva la grazia della musica e della danza, ma anche la cattiveria di un apologo crudele, irrealistico e realistico insieme. I vitelloni, poi, raccontava i sensi di colpa e la voglia di poesia che accompagnavano il magnifico "esodo" della grande cultura della provincia verso un centro che ancora non esisteva, e che perciò aveva il fascino di una promessa. Ma nel 1960 La dolce vita era già l’emergere dei dubbi, lo spavento di un poeta di fronte alla volgarità di cui, nel 1969, Satyricon metterà dolorosamente in scena il trionfo.
D’altra parte, non si deve ridurre Fellini alle misure della nostra storia o della nostra cronaca. Il suo cinema non è di questo mondo, nel senso che sempre ne inventa e crea altri, a esso paralleli e concentrici. «Faccio i film perché mi piace raccontare delle bugie, inventare delle fiabe», dice all’epoca di La strada (1958). E però aggiunge: «e dire le cose che ho visto e le persone che ho incontrato». Come conciliasse le due cose – abbandonarsi al gusto fantastico della menzogna creatrice, e insieme coltivare quello realistico dell’esperienza vissuta – è questione attorno alla quale si potrebbe leggere tutta la sua opera. Di certo, confortato dalla testimonianza dei cosceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, egli stesso ha più d’una volta sostenuto il carattere autobiografico di I vitelloni, salvo poi affermare l’opposto: «Io non sono mai stato un vitellone, non posso esserlo stato, non ne ho proprio avuto il tempo… Non li ho nemmeno frequentati, i vitelloni, se devo essere sincero».
Qualcosa del genere vale per La dolce vita, a suo tempo osannato o rifiutato anche in rapporto al suo asserito autobiografismo. E però c’è chi sostiene che nella via Veneto d’allora Fellini si vedesse poco o per niente.
Insomma, per dirla con le sue parole, chi pretendesse di misurarne i film con il metro della storia o della cronaca cadrebbe nell’equivoco tipico della nostra intellighenzia, sicura che «il cinema sia una cinepresa piena di pellicola e una realtà, fuori, già pronta per essere fotografata». Quell’intellighenzia, fra l’altro, reagì all’irrealismo di La strada accusandolo d’essere il capocordata di non si sa quale «cinema spiritualista», e di tradire il Neorealismo (Sergio Amidei), inseguendo «brumose e decadenti fantasticherie» (Cesare Zavattini). E qualcuno aggiunse: «Dov’era Zampanò, mentre si combatteva la guerra partigiana?». La domanda non suona solo ridicola, ma anche offensiva per chi l’abbia davvero combattuta, quella guerra.
Insomma, a noi pare che il grande Fellini sia in primo luogo un mentitore, un sublime mentitore che dalla realtà – storia o cronaca che sia – trae materiale grezzo e informe per costruirci poi altri mondi, inventati e fantastici. Per lui, come amava dire, il cinema era un magnifico «pretesto per mettere le cose in movimento», in un grande circo in cui si mescolano tecnica e improvvisazione, memoria e invenzione. «Quando arrivava sul set – disse Roberto Benigni subito dopo la sua morte –, s’alzava un vento che faceva bene al mondo». Questa era la sua leggerezza, la sua leggerezza creatrice. Nel 1963 gliela riconosceva anche Pier Paolo Pasolini, al di là delle sue stesse intenzioni. Il Giornalista di La ricotta, appunto, così si rivolge al Regista (Orson Welles): «Quarta e ultima domanda: "Qual è la sua opinione… sul nostro grande Federico Fellini?"». E la risposta è: «Egli danza…». C’è ironia, in queste parole di Pasolini. O meglio, c’era cinquant’anni fa. Ma oggi in esse risuona una definizione profonda del cinema di Fellini, della sua poesia per immagini e luce. A completarla, si può aggiungere: egli danza sui suoi ricordi, sui propri fantasmi trasfigurati in maschere.
Si pensi ad Amarcord, e alla sequenza travolgente del litigio a tavola. Il padre urla e strattona la tovaglia, i figli cercano di cavarsela come possono, la madre si dispera, il cognato salva il piatto, il nonno si allontana con la saggezza di chi ha già visto tutto. Qui ci sono appunto maschere. Se ci fanno male, si tratta di un male indiretto: il riso e la leggerezza della danza ci proteggono.
Vent’anni prima un’altra tavola, un altro litigio, un altro padre e altri figli ci avevano già fatto male. Non c’erano riso né leggerezza, in quel primo litigio di I vitelloni, ma angoscia, buio dell’anima. Era comprensibile che ci fossero. Per Fellini iniziava allora un viaggio verso l’ignoto, verso un’indefinita possibilità. Poi, come sempre, il tempo avrebbe insegnato a distanziarsi dall’immediatezza, a reinventarla nella memoria. Se si vuole, avrebbe insegnato a giocare, nonostante tutto, e ad addomesticare i fantasmi, ridisegnandoli fino a dar loro la superficialità solare delle maschere.
Anche in questo, in questa costruzione menzognera di maschere, Fellini ci ha portato per mano, anno dopo anno, decennio dopo decennio, dando forma e luce alle nostre emozioni. Quando altri in Italia stavano facendo precipitare nella volgarità il cinema – anche il cinema –, il Maestro ci insegnava che esso è invece bugia e danza: bugia e danza leggere come un ragazzino vestito di bianco.
P.S.: Che Fellini sia stato un magnifico mentitore è confermato anche da un aneddoto riportato dall’amico Tullio Kezich. Fellini, dunque, si compiaceva di raccontare d’essere venuto al mondo il 20 gennaio del 1920 «in una vettura ferroviaria di prima classe», mentre il treno correva dalle parti di Rimini. La circostanza è magnificamente, fantasticamente felliniana. Poco importa che, nella realtà prosaica delle Ffss, quel 20 gennaio del 1920 i ferrovieri di Rimini fossero in sciopero, e che nessun treno potesse sfrecciare nei dintorni.