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 2013  aprile 28 Domenica calendario

L’ARCHIVIO DELLE RIVOLUZIONI

Il Palazzo dei segreti è un edificio imponente, in pietra grigia, sulla Stolešnikov, una delle vie più alla moda del centro di Mosca. Ha un nome ufficiale, Rgaspi, Archivio della Storia politica e sociale, ma tra i moscoviti c’è chi lo chiama ancora Archivio del Comintern. Probabilmente è il solo luogo al mondo che per vastità di materiale e ricchezza di possibili interpretazioni si potrebbe paragonare alla Biblioteca infinita immaginata da Borges. Nell’invenzione letteraria dello scrittore argentino, il visitatore cerca il libro che contiene la Verità. Lo trova, ma scopre che ne esistono innumerevoli altri con altre verità, talvolta opposte. Nel Palazzo dei segreti sono i documenti storici a mostrare tante verità, talvolta l’una alle altre opposte. Dal primo piano un grande bassorilievo in bronzo di Lenin osserva severo le boutique di Vuitton, Fendi, Prada e il via vai delle macchine di lusso.
Per varcare l’ingresso dell’edificio, più esteso dell’atrio di una stazione ferroviaria, bisogna passare tra agenti con giubbotto antiproiettile e superare una statua di Lenin che guarda perplesso i poveri fiori di plastica lasciati ai suoi piedi da qualche estimatore. All’interno quattro piani di casseforti e armadi blindati gonfi di cartelle protetti da serrature elettroniche e piccole telecamere. Due milioni di fascicoli contenenti ciascuno una media di duecento documenti. I corridoi e gli uffici hanno un odore particolare. Non è quello acre delle carte ammuffite, semmai il profumo di documenti ben tenuti. Quello del Comintern è il più grande archivio della storia politica al mondo. Decine di milioni di fogli, su cui è scritta, e in parte è ancora da scrivere, la storia delle rivoluzioni e della politica dalla fine del Settecento a tutto il Novecento. Oltre ai documenti dei cento partiti comunisti aderenti all’Internazionale, oltre alle risoluzioni
del Politburo sovietico, agli atti e alle comunicazioni dell’Nkvd, la polizia segreta staliniana, i carteggi sulla lotta fratricida tra anarchici e comunisti nella guerra di Spagna, le carte private dei maggiori dirigenti del comunismo, l’Archivio contiene materiali di tutte le trame clandestine, di tutte le insurrezioni e le rivoluzioni dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’America latina. Carte molto invidiate dai cinesi, che ne vanno a caccia pagando fino a quindicimila euro a foglio.
In queste stanze silenziose, lungo i corridoi che i funzionari percorrono con rispetto, quasi in punta di piedi, sempre parlando sottovoce, si aggira anche un fantasma benevolo. Ha un nome che tra gli archivisti russi incute rispetto e ammirazione, quello di David Borisovic Rjazanov, l’uomo che nel 1921 fondò l’Archivio chiamandolo Istituto Marx-Engels. Eccentrico, coltissimo, dotato di una memoria eccezionale e di una capacità illimitata di lavoro, passò gran parte della giovinezza in esilio e in prigione. Già negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’ottobre, criticò la linea bolscevica di soppressione dell’opposizione e della libera stampa («Le discussioni non danneggiano il partito, lo rafforzano!») e denunciò le posizioni autoritarie di Lenin e di Trotskij, sfidando infine anche il monolitismo degli anni bui del terrore staliniano. Inizialmente il suo Archivio fu aperto al mondo e alle testimonianze. Rjazanov creò una rete internazionale unica, quasi un suo personale “servizio segreto culturale” di corrispondenti autorizzati a scovare e acquistare libri rari e manoscritti dei grandi rivoluzionari nelle maggiori città europee, tanto che negli Anni Trenta l’Istituto divenne la Mecca per gli studiosi di tutto il mondo: Kautsky, Béla
Kun, Maksim Gorkij. Quando l’Urss non aveva fondi per comprare in Occidente neppure un trattore, partivano dalle capitali europee decine di vagoni ferroviari pieni di carteggi che i segugi di Rjazanov erano riusciti ad acquistare dagli antiquari e nelle aste. Quando nel 1927 Stalin visitò l’Istituto e vide i ritratti di Marx, Engels e Lenin gli chiese: «Dov’è il mio?» lui rispose: «Marx e Engels sono stati i miei maestri, Lenin un mio compagno. Tu chi sei per me?». Un’altra volta lo irrise pubblicamente, interrompendolo mentre dissertava di questioni ideologiche durante un congresso: «Smettila, lo sanno tutti che la teoria scientifica non è esattamente il tuo campo!». Fu inviato in esilio, nel luglio del 1937 arrestato e l’anno successivo fucilato.
Nessuno osò però distruggere il suo lavoro. Così, da allora, i preziosi scritti di Marx e Engels sono ancora conservati dentro il caveau sotterraneo fortificato, chiuso non solo al pubblico ma sovente anche agli studiosi e in cui vengo eccezionalmente accompagnato. Superare le sue enormi porte blindate, che sembrano uscite dalla fantasia di Jules Verne, è come accedere alla macchina del tempo. Nell’immenso caveau spettrali corridoi, rivestiti di piastrelle, portano a numerose porte blindate che proteggono grandi locali stipati di austeri armadietti grigi e anch’essi blindati. Il responsabile del settore è Valerij Fomichev, un sessantenne che ha trascorso molta parte della sua vita qui dentro. Ogni giorno, come facevano una volta i tre decrittatori ufficiali degli scritti di Marx, sfoglia pagine e pagine seguendone la scrittura minuta e le annotazioni veloci in cui saltava tutte le vocali, per svelarne poi l’ultimo segreto. Con aria divertita osserva dei documenti sul figlio che Marx ebbe dalla domestica Helene e che il padre del comunismo non volle mai riconoscere, e estrae poi un foglietto dove Stalin ha scritto: «È una cazzata. Lasciate sepolto questo materiale per sempre». Qui è custodito persino il fiocco rosso che Marx era solito indossare: «Era ricavato dalla stoffa di una bandiera dell’ultima barricata della Comune di Parigi», ci racconta con appena un filo d’emozione.
Negli uffici dei piani superiori è conservata in perfetto ordine anche una preziosa collezione di manoscritti che spaziano dal ’700 al ’900 e che riguardano
tutta l’Europa. Atti della Rivoluzione francese, lettere di Voltaire e di Rousseau, l’originale della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, lettere di Garibaldi e di Mazzini. «Ma il più grande segreto di tutti i segreti del Novecento sono i carteggi dell’Nkvd, la polizia segreta sovietica… » racconta il vice direttore dell’Archivio, Valerji Šciepeliov. Attraverso le carte del Politburo è possibile ricostruire molte trame ancora sconosciute, e per esempio si può scoprire che molti dei membri della dirigenza sovietica erano tenuti all’oscuro delle strategie di Stalin. «Non era affatto matto, giocava sempre d’anticipo…» commenta Šciepeliov, che conosce bene quelle carte. Con un semplice ma efficace sistema di numerazione dei dossier, ad esempio, Molotov veniva informato di un fatto che invece Zdanov non doveva sapere. Anche il caveau di Lenin è uno dei grandi segreti custoditi in questo edificio. Sta sottoterra ma nella parte opposta dell’edificio, protetto da una serranda corazzata e, di nuovo, da enormi porte blindate fabbricate appositamente dai tedeschi della Krupp negli anni ’30: uno scudo d’acciaio in grado di resistere a una bomba di 500 chili. All’interno casseforti
a tenuta stagna per permettere in caso d’incendio il completo allagamento dei locali. La mastodontica impresa letteraria di Lenin è fatta di trattati, tesi, proclami, risoluzioni, saggi di storia, filosofia, economia. «Come avrà trovato il tempo di scrivere tutto questo… » sfugge detto a Svetlana Kotova,
l’esperta del reparto nonché curatrice dei due musei smantellati negli anni Novanta per far posto ai club della nuova aristocrazia russa, il Museo della Rivoluzione e il Museo di Marx e Engels.
Un vero cruccio per gli archivisti, espertissimi e necessariamente poliglotti, è quello di non essere riusciti a fare passi avanti con la decifrazione dei codici segreti che il Comintern usava nei messaggi più riservati. L’allora Kgb, ora Ffb, non ha mai dato la chiave di decodificazione: «Segreto di Stato». Ma anche il processo di desecretazione di molti altri documenti essenziali a comprendere la storia del Novecento è stato avviato solo in minima parte. L’archivio online, finanziato negli anni Novanta anche da istituzioni straniere, è solo una goccia nell’oceano delle carte dell’archivio reale. Ma del resto non è neppure questo il problema più impellente. Oggi questi custodi dei grandi segreti del Novecento guardano sconsolati dalle finestre l’assedio al loro fortilizio. Invece di essere tutelato dall’Unesco, come meriterebbe, è circondato dalle grandi firme della moda che puntano a questo grande spazio come all’ultima casella che ancora manca loro per poter aggiungere un’altra vetrina di lusso per lo shopping dei ricchi del post comunismo. Nella notte moscovita il rigido volto di Lenin, sulla facciata di pietra grigia del Palazzo, è un’ombra che pian piano scompare tra le insegne multicolori.