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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

PONTI, TUNNEL E INFRASTRUTTURE LA CINA FA RICCA LA TURCHIA

Fare un tour in Turchia è come essere dotati del dono dell’ubiquità, stando in due posti contemporaneamente. La Turchia è un ponte sospeso tra due continenti, una piattaforma rettangolare che collega l’Europa all’Oriente. La propensione verso Occidente è dimostrata dalla sua stessa storia. Dopo la caduta dell’Impero Romano, Costantinopoli è stata l’ultimo baluardo della romanità nel Mediterraneo, custode di una tradizione scomparsa dall’altra parte del mare nostrum. Anche dopo l’avvento dell’Islam, la tensione dell’Impero ottomano si è diretta verso Ovest, stavolta nel tentativo di conquistare l’Europa anziché di custodirne le sacre vestigia.
Oggi piuttosto, dopo le perplessità dell’Ue sull’ingresso della Turchia nel suo progetto politico, lo sguardo di questo Paese volge a Est. Dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone stanno affluendo cospicui investimenti, che si traducono nella realizzazione di imponenti infrastrutture e nella startup di imprese a capitale straniero.
La meta privilegiata di questa notevole immissione di denaro è Istanbul, «una città non da vedere, ma da penetrare come fosse una donna», ci dice Hanefi Ayar, general manager dell’agenzia turistica Vetta Travel. I cinesi stanno provando ad attraversarla scavalcandola, ovvero costruendo ponti avveniristici sul Bosforo; i giapponesi, invece, scavandola, realizzando cioè canali sotterranei che colleghino la sponda asiatica a quella europea. Il primo «tunnel della Manica» turco dovrebbe sorgere entro il 2014. Le difficoltà sono date, come per Roma, dalla presenza sotto terra di numerosi reperti archeologici, eredità del millenario passato di questa città, fatto di rimozioni e sedimentazioni.
SGUARDO BIFRONTE
Da un lato, infatti, Istanbul prova a dimenticare se stessa. Nel tempo ha cambiato tre volte nome (prima Bisanzio, poi Costantinopoli, quindi Istanbul) e, con l’arrivo degli ottomani, ha cancellato per buona parte le tracce della sua storia cristiana e latina, come dimostra la damnatio memoriae messa in atto dal sultano Maometto II nei confronti delle basiliche bizantine e degli acquedotti romani. Al contempo, però, Istanbul tenta di guardarsi dentro e recuperarsi. Sono passati esattamente 560 anni dalla fine dell’Impero romano d’Oriente e 90 dal crollo dell’Impero ottomano. Questi due anniversari segnano, per la città e tutti i turchi, l’urgenza di fare i conti con la propria memoria. In quest’ottica, con uno sguardo bifronte diviso non solo tra Est e Ovest ma anche tra ieri e domani, Istanbul si proietta verso il futuro, puntando a un evento decisivo per l’affermazione della Turchia come grande potenza mondiale: le Olimpiadi del 2020. Nell’attesa che venga premiata la sua candidatura, il Paese ha già potenziato enormemente il suo traffico aereo con tutto il mondo. A Istanbul dovrebbe essere costruito il più grande aeroporto del pianeta, mentre la Turkish Airlines, la compagnia di bandiera, è già la numero uno al mondo come Paesi raggiunti, ben 98, e viene considerata la migliore compagnia in tutta Europa (ha vinto per il secondo anno consecutivo il Skytrax World Airline Awards). Con una flotta di 202 velivoli, che saliranno a breve a 375, e un numero di dipendenti pari a circa 16mila persone - tra piloti, personale di volo, tecnici e altri professionisti - la Turkish Airlines, solo nel 2012, ha fatto volare 39 milioni di passeggeri e registrato un fatturato in crescita del 26 per cento. Anche il traffico con l’Italia, ultimamente, si è intensificato parecchio. «Ogni anno», racconta Mehmet Fatih Özlük, general manager della Turkish Airlines a Milano, «arrivano dall’Italia in Turchia, con la nostra compagnia aerea, circa 700mila persone». I fitti collegamenti tra i due Paesi sono resi possibili dalla presenza della Turkish Airlines in 7 aeroporti italiani (Milano, Roma, Venezia, Bologna, Torino, Genova e Napoli) e dall’esistenza di 17 voli giornalieri Italia-Turchia. Uno scambio quotidiano favorito, negli anni passati, dalla particolare relazione tra Berlusconi e il premier turco Erdogan, che ha consentito al nostro Paese di guardare alla Turchia come meta turistica e sede di possibili investimenti per le nostre aziende.
«Fosse stato per il centrosinistra italiano», continua Özlük, «questi rapporti oggi sarebbero ancora inesistenti. Nel 1998, ai tempi del governo D’Alema, la vicenda di Ocalan indusse Fausto Bertinotti, allora parte della maggioranza di governo, a porre una sorta di veto nei confronti di Ankara. Un atteggiamento miope, che danneggiò i curdi, il vostro e il nostro Paese».
Alla Turchia moderna, aperta agli investimenti e basata su tecnologia e grandi opere, se ne affianca un’altra, rurale e artigianale, che fa dei prodotti della tradizioneuno strumento di business. In Cappadocia, nel cuore dell’Anatolia, la produzione di tappeti, ceramiche e gioielli fatti con il turchese, pietra preziosa autoctona, consente al Paese di esportare il made in Turkey in tutto il mondo e di affrontare con successo la concorrenza cinese. «La qualità della materia prima, la cura nella realizzazione dei prodotti e il basso costo del lavoro», ricorda Hanefi Ayar, «garantiscono alla nostra piccola e media impresa la possibilità di sopravvivenza nel mercato globale». Ma la Cappadocia è anche la regione degli spazi immensi, punteggiati da abitazioni coniche modellate dal vento, che favoriscono la contemplazione e la preghiera.
LA CAPPADOCIA
Qui trovarono rifugio i primi cristiani perseguitati dai romani e attecchì la predicazione di san Basilio, fondatore dell’ordine monastico che da lui prende il nome. A Cesarea, la «città di Cesare » capoluogo della regione, scopri come i cristiani riuscirono ad applicare alla perfezione il motto evangelico «dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», esprimendo una prima forma di laicità, tesoro prezioso di questa nazione. La Cappadocia sta poi tutta nel volto di Gremet, donna dall’età indefinibile e dalla pelle scavata dal tempo, come le pieghe di questo territorio, vestita con cappello rosa, maglione verde e mantello viola, uscita da una Turchia antichissima, che ricorda il nostro Sud più profondo. Qua senti il richiamo del muezzin abbinato ai suoni di musica che accompagnano le danzatrici del ventre, qua vedi l’Islam laico, moderato e nazionalista che si interroga ancora sulla propria sorte politica. «Perché», ci chiede Alphan, studente turco all’Università Cattolica di Milano, «in un’Europa che non riconosce le proprie radici cristiane, la Turchia deve essere esclusa in quanto musulmana?». Quesito legittimo e necessario, come necessaria è la sconfitta di tutti i cliché. In Turchia non si fuma più come turchi - in molti locali, anzi, fumare è vietato - né si bestemmia come turchi - l’offesa verso il divino non è contemplata nel linguaggio comune. Della Turchia resiste invece l’immagine di una penisola felice che - per dirla con Davide Pozzi, nostro compagno di viaggio - si trova per destino geografico tra la Grecia in crisi economica e la Siria in crisi umanitaria, eppure sa splendere di luce propria, unendo alla mezzaluna e alla stella del proprio vessillo il sole raggiante di ogni Meridione.