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 2013  aprile 27 Sabato calendario

ESPLODE LA RABBIA DEL BANGLADESH “LE GRANDI INDUSTRIE CI UCCIDONO”

BANGKOK — La rabbia degli operai di Dacca è esplosa ieri, mentre dalle macerie del palazzo alla periferia della città crollato mercoledì venivano recuperati i corpi delle centinaia di vittime della caduta dell’edificio, illegalmente adibito a fabbrica tessile. Da molte delle migliaia di fabbriche tessili a rischio che sono il cuore dell’economia del Bangladesh sono partiti cortei oceanici di operai: hanno sfilato davanti alla sede della Confederazione delle industrie tessili, ritenute le principali responsabili dei mancati controlli di sicurezza che hanno portato al dramma del Rana Plaza: almeno 300 operai sono morti quando il palazzo di otto piani alla periferia di Dacca è venuto giù.
Nella struttura lavoravano oltre 3000 dipendenti di cinque fabbriche tessili, partner locali di grosse industrie d’abbigliamento dell’Occidente. La stima ufficiale fornita da un ministro del governo del Bangladesh parla di altre 3 o 400 operaie – le vittime sono soprattutto donne – che si troverebbero ancora sotto le tonnellate di detriti.
Tra i documenti trovati attorno al luogo del disastro da gruppi dei diritti umani e grazie alle informazioni disponibili via Internet, sarebbe emerso che le ditte che operavano nell’immobile lavoravano per grandi aziende americane, europee e anche italiane, come la Benetton, che ha pero’ subito escluso di aver collaborato «in alcun modo » con le aziende del Rana Plaza. Nel suo sito la ditta New Wave – con centinaia di dipendenti ammassati al secondo, sesto e settimo piano del palazzo crollato – elencava la filiale Benetton di Hong Kong nella lista dei principali clienti, assieme ad altri 27 rivenditori come gli spagnoli Mango (che ammettono solo di aver avviato una trattativa per produrre in loco borse), l’americana Dress Barn e la canadese The Children’s Place (che negano commesse recenti). L’unica ad ammettere di essersi servita delle fabbriche di Savar è stata l’inglese Primark, mentre la Wal-Mart, già cliente della ditta Tazreem andata in fiamme a Dacca con 125 vittime, ha negato di avere appaltato direttamente la produzione, anche se «non può escludere» sotto-contratti.
Il crollo del Rana Plaza è l’incidente più grave nella storia dell’industria bengalese e per la prima volta ha gettato un’ombra diretta e pesante non solo sulla
corruzione e sulle responsabilità di costruttori e industriali locali avidi, bensì sul ruolo delle stesse grandi multinazionali dell’abbigliamento che si servono di aziende locali per competere con Paesi a basso costo di manodopera come la Cina e il Vietnam. Il risparmio – secondo Human Rights Watch - ricade sempre sui salari dei lavoratori, già i più bassi del mondo, e sui parametri di sicurezza. «Neanche quando hanno visto le crepe nei muri – ha commentato l’esperto Dara O ’Rourke dell’Università di Berkeley - i responsabili della fabbrica se la sono sentita di dire no ai rivenditori statunitensi ed europei che li spingevano a consegnare le merci in tempo».
«Migliorare le condizioni di sicurezza - ha aggiunto la fondazione specializzata inglese War on Want – sarebbe possibile con un semplice e contenuto aumento dei costi». Ma ben poche delle aziende mondiali leader del settore si sono dichiarate disponibili a finanziare il piano nazionale di prevenzione nelle 4500 principali aziende benga-lesi, che pagano meno di 30 euro al mese i dipendenti e producono merci per un valore di 20 miliardi di euro l’anno, pari a un terzo del prodotto interno lordo del Paese. «Non spetta a noi occuparcene», è stata la risposta di gran parte delle industrie mondiali.
Dietro al crollo ci sarebbe dunque un intreccio di politica, affari e corruzione: i membri della famiglia Rana, proprietaria dell’immobile, sono stati convocati nei prossimi giorni per essere interrogati, ma sono latitanti. Oltre ad essere uomini d’affari sono dirigenti della Awami League, partito oggi al governo: dopo aver costruito illegalmente tre piani nell’edificio, si apprestavano ad aggiungerne un altro, causa delle crepe alla struttura scoperte e ignorate proprio alla vigilia del crollo.
Il primo ministro ha annunciato punizioni esemplari «a qualunque partito appartengano i responsabili», ma più volte ieri le autorità hanno ordinato alla polizia l’uso di lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la folla infuriata, con decine di feriti e assalti a colpi di bastoni contro auto e camion che non rispettavano il giorno di lutto nazionale.