Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 27 Sabato calendario

DAI PLOTONI DI FRANCHI TIRATORI ALLE MINORANZE RUMOROSE ADDIO ALLA DISCIPLINA DI PARTITO

«È CHIARO - ammoniva l’altro giorno l’iperlettiano onorevole Francesco Boccia - che chi vota contro il governo, è fuori». Ma davvero, come dice lui, è chiaro? Perché Boccia ha senz’altro le sue ragioni. Però, diamine: per come si sono messe le cose al giorno d’oggi, e specialmente nel Pd, tutto è e tutto sembra, quell’automatismo, meno che chiaro.
E infatti i dissidenti, più che protestare o dirsi offesi, continuano nella loro dissidenza. E Renzi, se non li appoggia, né li capisce, dice: andiamoci piano. E lo stesso Boccia un po’ si placa. In anni ormai abbastanza lontani, nel fatidico 1993, messo alle strette e in condizioni minoritarie, Giulio Andreotti rispose ad un’analoga minaccia riportando un brano delle Opere scelte di Mao Ze Dong: «Dobbiamo riaffermare la disciplina di partito. E quindi: 1) L’individuo è subordinato all’organizzazione; 2) la minoranza è subordinata alla maggioranza; 3) Il grado inferiore è subordinato al grado inferiore» e così via.
Il ricordo della sottile provocazione cinese e andreottiana vorrebbe segnalare che in questi ultimi vent’anni lo stato della disciplina
di partito si è vieppiù imbrogliato. Dal 2009 il Pd ha in effetti una commissione di garanzia, presieduta dal professor Luigi Berlinguer. Non molto tempo fa è anche intervenuta nella formazione delle liste cassando alcuni «impresentabili», in Sicilia e nel Mezzogiorno. Ma senza voler mancare di rispetto ad alcuno, l’impressione è che vivacchi in perenne crisi esistenziale.
Vero è che prima ancora della sua nascita il partito era stato investito dal caso di Paola Binetti. La quale, su una certa norma (legge sull’omofobia) aveva votato contro il governo Prodi, ma senza poi smettere di dedicarsi alla stesura dell’imperdibile Manifesto dei Valori. Nessuno la cacciò. Comunque in seguito Binetti è uscita. Mentre è stato espulso - ma lui aveva già deciso di andarsene - il
senatore Riccardo Villari, che era stato eletto dal Pdl presidente della Commissione Vigilanza.
Ogni tanto nel Pd qualcuno salta su: «Non siamo una bocciofila ». E tuttavia nel momento in cui ci si definisce per negazioni, è sempre un guaio. E così eccoci arrivati all’oggi. Non tanto agli avvisi di Boccia, quanto agli ultimi eventi parlamentari dove è successo di tutto: chi votava quello e chi quell’altro, chi diceva una cosa e ne votava un’altra, e sedi occupate, tessere bruciate, agguati ai dirigenti sotto la sede del partito.
Trovala, in questo tempo, una fedeltà non solo responsabile, ma anche minimamente degna di questo nome. Il sospetto è che proprio questa vana ricerca mette a nudo l’avvenuta e inconfessabile trasformazione, cioè la fine definitiva di quella che lo storico Pietro Scoppola, nel 1991, aveva legittimamente designato come «La Repubblica dei partiti» (Il Mulino).
Altro che comitato dei garanti! Riemergono ormai in forma di pallidi ricordi le pene, i sacrifici e le lacrime versati da tanti sull’altare della militanza - altra parola scomparsa dal lessico. Terribili assiomi - meglio aver torto con il partito che aver ragione contro restituiscono il senso di una temperie che nessuno oggi arriverebbe mai a comprendere. Più che disciplina, al giorno d’oggi, si richiama «il rispetto delle regole»,
dal quale però nulla ci si aspetta; e appena possibile, su mille temi e mille scelte, s’invoca libertà di coscienza, ma la coscienza s’è ristretta, immiserita, spesso risponde a convenienze, ipocrisie, capricci.
Era il 1997 quando Peppino Fiori, senatore e studioso, provò a tracciare un bilancio: «La disciplina di partito di una volta sapeva di dispotismo - disse - l’odierna anarchia di partito sa di farsa». Vero. Sennonché a tre lustri di distanza, e senza considerare i conati e gli stranguglioni pseudo disciplinari del Pd, si profila all’orizzonte la graziosa novità di una dispotica anarchia, o di un dispotismo anarchico.
Vedi il modo in cui Grillo e Casaleggio maneggiano il dissenso nel M5S - almeno fino al momento in cui, prima o poi, cominceranno a litigare. Nel frattempo, all’insegna della democrazia diretta, il Predicatore e il suo Consigliere teorizzano e mettono in atto dispositivi interni ad alto rischio, tipo che gli eletti rispondono solo al MoVimento, cioè a loro due, secondo logiche di cui si trova traccia nello statuto del Pcus.
E tuttavia. Chi ha la coscienza a posto per dargli lezioni di democrazia? Chi gli dice che il dissenso
è anche utile? Grillo e la Casaleggio Associati l’hanno chiamati i partiti, o quel che ne resta. Si pensi alla cultura carismatica cresciuta nella Lega, a quanti non erano d’accordo con Bossi, che li ha regolarmente cacciati «a calci in culo», prima che toccasse al Cerchio magico, poi ai parenti e infine a lui stesso.
Come pure si pensi alla concezione aziendale, monarchica e proprietaria del partito berlusconiano. «Che fai, mi cacci?» disse l’improvvido Fini, anche lui fino a quel momento dispotico leader e celebratissimo oppressore di colonnelli. E il Cavaliere puntualmente l’ha cacciato. Per cui tutto torna e niente torna, con buona pace dell’onorevole Boccia, nel-l’Italia dei partiti vuoti e del pieno di tribù un po’ selvagge.