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 2013  aprile 27 Sabato calendario

VENT’ANNI DI MAFIA, STRAGI E CORRUZIONE. LA PESTE DI MILANO

Leggerete dialoghi come questo:
«E adesso che fai con la sigaretta?».
«La sto accendendo».
«E la accendi sul cerchione?».
«No, sul disco dei freni. È rovente, vuoi toccare?».
Tenete presente: questo dialogo è vero. La scena è vera. S’è ripetuta più d’una volta, nella Milano dei primi anni Novanta, quando un gruppo di ragazzi che si sentivano dei leoni faceva gare folli. Dalla periferia (la loro periferia) al centro città. E poi, sbruffoni e onnipotenti, si accendevano le Marlboro sui dischi dei freni delle macchine che avevano tirato a mille all’ora. In una sera spendevano quattro milioni (di lire). Locali, alcol, coca. Potevano permetterselo: con lo spaccio d’eroina guadagnavano 40 milioni a settimana. E per fare il loro «lavoro», molto prima che l’opinione pubblica sentisse la parola Scampia, avevano trasformato il loro quartiere in un fortino. Il Fortino era in via Emilio Bianchi, estrema periferia Nord-Ovest di Milano. Nel libro di Fabrizio Gatti, Gli anni della peste (Rizzoli, in libreria da ieri) l’indirizzo non lo troverete. Seguirete invece la storia dei ragazzi che lì, dentro il Fortino, ci sono nati, cresciuti e morti ammazzati. La loro epopea bruciata, intensa, violenta, lanciata contro un muro col piede sull’acceleratore. Ma troverete anche la storia di un Paese intero, l’Italia, che in qualche modo ha seguito lo stesso percorso di rovina. Su una strada balorda e sotterranea: ’ndrangheta, corruzione, mafia, stragi, trattativa. Fino alla «normalizzazione»: oggi, quando il panorama delle macerie sembra ricomposto. E per terra restano i cadaveri: quelli dei ragazzi del Fortino massacrati dai nemici criminali; quelli delle vittime delle bombe di mafia.
Prima di leggere questo libro però è necessaria una premessa. Da qualche anno il sistema editoriale italiano propone al pubblico la figura dell’infiltrato. Giornalista infiltrato, ricercatore infiltrato, sociologo infiltrato. Diffidate. È marketing (spesso si può parlare di vere e proprie bufale). Fabrizio Gatti è un cronista, uno dei migliori in Italia, ha lavorato per molti anni al Corriere della Sera, ora è un inviato dell’Espresso. Cronista, nel senso più alto del termine, vuol dire portare tutto (intelligenza, umanità, corpo) dentro le storie di cronaca. Questo ha fatto Gatti, fin dal suo lavoro sul Fortino, che grazie alle sue inchieste è stato poi smantellato. Questo è il percorso che l’ha portato a «travestirsi» da clandestino e a farsi rinchiudere nei centri di espulsione per gli stranieri (a Milano prima, a Lampedusa poi) per raccontarli dall’interno. Ecco perché è l’unico infiltrato vero del giornalismo e dell’editoria italiani. Infiltrato prima di tutto nella realtà. È da lì, pur se in forma di romanzo, che nasce la storia de Gli anni della peste. Storia vera. Nel senso di fatti reali. E di un’umanità che risale con forza viva e feroce attraverso la scrittura.
A riemergere, però, sono anche pezzi di verità inedite. Come nel racconto di una scena di fine luglio 1993, 33 ore dopo l’autobomba di via Palestro a Milano. Il protagonista/giornalista (non è il solo, a dominare la scena è per la maggior parte l’altro protagonista, il criminale Rocco) chiede a un funzionario di polizia: «Quali indizi ci sono (così poco tempo dopo l’esplosione, ndr) per dire che sia stata Cosa nostra?». Risposta: «Ma quale Cosa nostra? Questa roba puzza di Casa nostra». Quando ancora l’odore del tritolo impregna l’aria, è già la rivelazione della trattativa Stato-mafia. Quella su cui oggi, a vent’anni di distanza, non conosciamo ancora la verità. Gli anni della peste che abbiamo attraversato.
Gianni Santucci