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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

DOPO CHÁVEZ IL DILUVIO


O samba o muerte. Non ha molte altre vie d’uscita la rivoluzione di Hugo Chávez, in affanno dopo la scomparsa del suo leader. La grave crisi economica e l’iperinflazione alle porte spiegano in parte il magro risultato, neanche 280 mila voti di vantaggio sull’opposizione, con cui Nicolás Maduro, erede designato dall’ex presidente, è stato eletto. L’asse politico ed economico con il Brasile, il paese del samba, gigante latino-americano con governo saldo e moneta forte, è il porto più sicuro nel quale il Venezuela in tempesta si può riparare. I conti pubblici di Caracas ballano. Il deficit fiscale cresce. La spesa pubblica è diminuita dell’11,2 per cento tra ottobre e dicembre, nonostante il governo si preparasse già a una probabile campagna elettorale. Dalle casse dello Stato escono molti più dollari di quanti l’export di greggio riesca a far entrare. La corruzione ha costi stellari. La banca di sviluppo cinese ha prestato 42 miliardi e mezzo di dollari, debito da saldare in oro nero: 460 mila barili al giorno che Caracas spedisce a Pechino pagando anche il trasporto.
La svalutazione del bolìvar fuerte, debolissima moneta nazionale, fa ricca la mafia del contrabbando del dollaro, illegale ma tollerato. La moneta statunitense vale 6,30 al cambio ufficiale, ma in strada si cambia a 25. Dagli scaffali dei supermercati mancano spesso farina, caffé, olio e latte in polvere. Anche da quelli espropriati e gestiti dallo Stato con supervisione delle forze armate. Il presidente della Banca centrale, Nelson Merentes, nominato domenica scorsa ministro delle Finanze, ammette: «Sì, abbiamo problemi di rifornimento, una scarsità di alimenti che calcolo tra il 19 e il 20 per cento. E allora? Adesso la risolviamo».
Il Venezuela compra il 60 per cento di ciò che consuma. Anche il cacao, ottimo, di cui è stato esportatore per secoli, lo fa venire dall’estero sotto forma di barrette industriali di mediocre qualità. E così il riso dalla Cina, la carne dal Brasile, il grano dagli Stati Uniti da cui compra anche gasolio e benzina: 100 mila barili al giorno dell’uno e dell’altra. Per paradosso il Venezuela è il terzo fornitore di greggio agli Usa., ma non ha raffinerie funzionanti a sufficienza. Il petrolio pesante dell’Orinoco viene esporato a nord e poi fatto tornare raffinato. Caracas lo ricompra a prezzi internazionali e lo vende a prezzi sussidiati nel mercato interno. Nonostante galleggi sulle riserve più ricche del pianeta, il Paese rischia di sprofondare nella crisi economica. Servono infrastrutture, tecnologie, dirigenti che sappiano tessere relazioni e curare investimenti non rapaci. L’alternativa è diventare una colonia cinese, gonfia di retorica e di debiti da saldare in barili di greggio, a guida politica castrista.
Ha un solco già pronto la via brasiliana alla salvezza del socialismo inseguito da Hugo Chávez, qualsiasi cosa esso significhi («Nessuno sa come si fa il socialismo, va inventato», disse anni fa il leader venezuelano). L’ex presidente del Brasile, Lula da Silva, gli ha fatto sponda con la pazienza e la tenacia del vecchio sindacalista. La sua erede politica, Dilma Rousseff, ha mantenuto fluida la relazione con Caracas. E il capitale privato brasiliano sembra entusiasta del risultato. Sono robuste imprese brasiliane a costruire i tre milioni di case promesse dal presidente venzuelano prima di morire.
La parte pragmatica dell’asse Caracas-Brasilia funziona così. La rivoluzione lancia la "Missione vivienda", case popolari prefabbricate in tutti gli angoli del Venezuela. Il capitale privato di Consilux va e le costruisce. E fattura miliardi. La rivoluzione sbandiera la promessa: «Vamos a crear un sector siderurgico serio». Battezza il progetto industriale "Impresa basica socialista siderurgica José Inacio Abreu", col nome dell’eroe popolare che comandò le truppe di Simon Bolivar nel XIX secolo. E l’impresa Andrade Gutierrez va, si occupa dell’ingegneria, del finanziamento e della manodopera. Il piano ha già pronti 860 milioni di dollari della Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale del Brasile. Centinaia di operai venezuelani stanno lavorando alle fondamenta degli impianti sotto il cielo di brace di Ciudad Piar, 700 chilometri a sud-est di Caracas. L’investimento totale sfiora i 4 miliardi di dollari. Oppure, la rivoluzione si accorge che dopo 14 anni di governo i progetti del pomposamente chiamato "sviluppo agroalimentare endogeno" non sono serviti a far crescere l’agricoltura nazionale. Allora si affretta a lanciare il "progetto agricolo socialista" nello Stato di Lara. E l’impresa brasiliana Queiroz Galvão si inoltra nelle terre della valle con un milione e mezzo di dollari per garantire sovranità alimentare, almeno nella produzione di ortaggi, entro i prossimi sei anni. "Alleanza strategica Brasile-Venezuela" si chiama il memorandum delle grandi opere brasiliane. Un portafoglio di 20 miliardi di dollari messo nelle mani dei grandi imprenditori di San Paolo, Brasilia e Curitiba che nel miraggio socialista venezuelano hanno trovato un pozzo senza fondo di profitti da capogiro.
Anche il commercio bilaterale fa affari d’oro. Il volume degli scambi è salito dagli 880 milioni di dollari del 2003 ai 6 miliardi del 2012. Negli attivi della bilancia commerciale brasiliana il Venezuela occupa quest’anno il terzo posto, preceduta solo dalla Cina e dall’Olanda, porta d’entrata all’Europa.
Un Eldorado senza ombre? No, a porte chiuse quasi tutti i manager brasiliani trasferiti qui si lamentano dei ritardi nei pagamenti. «Abbiamo problemi, ma li risolviamo. Quando si va a casa d’altri non si impongono le proprie regole», spiega uno dei dirigenti della principale impresa paulista a Caracas. «Arrivi per restare, guardi come va e poi, o impari ad adattarti o te ne vai», conclude.
A tessere la tela delle relazioni politiche a sostegno di questa miracolosa alleanza, dal movimento dei Sem terra alle lobby progressiste di Sao Paulo, Hugo Chávez spedì tre anni fa da Caracas un suo pupillo, il giovanissimo direttore dell’ufficio relazioni internazionali della presidenza, Maxilien Arvelaiz, attuale ambasciatore a Brasilia. Che conferma: «Abbiamo una relazione molto fertile, politicamente molto stimolante con il Brasile. Lula e la presidente Dilma ci aiutano moltissimo ed è un sostegno prezioso». D’altra parte, il video di appoggio di Lula a Maduro racconta in tre minuti di girato il grado d’esposizione dell’ex presidente brasiliano, che è tuttora un pilastro della politica latino-americana. «Maduro è il paese che Chávez ha sognato», dice Lula con voce commossa. Un grande omaggio. Alla memoria del suo amico Chávez scomparso e anche ai suoi amici imprenditori, che da una continuità di governo in Venezuela hanno tutto da guadagnare.
Molto attiva la diplomazia brasiliana anche nei concitati giorni successivi alle elezioni presidenziali. Mentre l’opposizione venezuelana giudata da Henrique Capriles, governatore di destra dello Stato di Miranda, contestava il risultato elettorale, senza peraltro impugnarlo formalmente (e mentre da Caracas a Maracaibo si inseguivano voci di golpe e nove persone venivano uccise in confusi episodi di violenza politica) molto ha brigato la diplomazia brasiliana perché sulla crisi venzuelana si convocasse rapidamente a Lima una riunione strordinaria di Unasur, organismo multilaterale latino-americano. Detto, fatto. L’appoggio unanime arrivato dai governi continentali a Maduro, riconosciuto come presidente legittimo, è stato un balsamo per il governo venezuelano, al limite del collasso nervoso. La presidenza della Repubblica brasiliana è sempre molto attiva quando c’è da sbloccare una crisi politica in America latina. L’ha fatto anche nei casi recenti di golpe (riusciti) in Honduras e Paraguay. Ma mai è stata così efficace. E in questo caso il golpe è stato solo denunciato, nessuno ha visto carri armati in strada in Venezuela.
Rigirandosi in mano un succo di papaya gelato, Richard Gott, grande amico di Chávez e storico corrispondente britannico delle rivoluzioni latino-americane dice: «Brasilia-Caracas è il vero asse politico del Continente, è su questa tratta che si gioca la partita ora. Di certo l’assenza del comandante peserà nel gioco delle alleanza continentali, l’unico leader radicale che potrebbe prenderne il posto è il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ma chi se l’immagina un progetto di ribellione continentale con comando politico a Quito?».
A Caracas come se la caveranno? Maduro non è Chávez, come fa a mantenere la leadership interna se l’inflazione esplode? Imperturbabile, Gott esclude che l’urgenza del governo sia la crisi economica: «Maduro non cambierà di una virgola le decisioni prese da Chávez. Compreso il rapporto con Cuba. L’inflazione in America latina è un problema diverso dall’inflazione in Europa: qui si può convivere per anni con prezzi che corrono al 35 per cento senza pagare una sanzione politica. L’inflazione in Venezuela colpisce la classe media e qui la classe media non è determinante. Il problema è che manca un grande capo». Maduro vagheggia una direzione collettiva. «Figuriamoci», conclude Gott, «qui è sempre servito un capo».
Più ottimista è Alexander Main, analista politico. Per anni è stato uno dei consiglieri diplomatici di Chávez per il Nord America. «In politica estera non ci saranno grandi capovolgimenti», dice: «Il ruolo internazionale del Venezuela si è consolidato, è nel Mercosur, Maduro per sei anni è stato ministro degli Esteri di Chávez. Ha confermato che manterrà gli accordi già presi».