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 2013  aprile 21 Domenica calendario

LA SCIUSCIÀ DEL PARLAMENTO CHE RIFIUTA I CARTIER IN DONO


Avviata a superare il record di Imelda Marcos, la moglie del deposto dittatore filippino che era arrivata a quota 2.700 (ma l’interessata ha sempre negato: «Erano solo 1.060»), Rosalina Dallago si compra 15 paia di scarpe a ogni cambio di stagione. In un mobile a muro, e nell’anta di un secondo armadio, e nel soppalco di casa, e in cantina, ne ha stivate mezzo migliaio: «Conservo con cura persino quelle che portavo da ragazza». Una cinquantina non le ha mai indossate e mai le indosserà. Rimangono lì, chiuse nelle scatole, testimoni invisibili di una passione che rasenta il feticismo. Eh sì, perché solo le calzature con alcune ben precise caratteristiche possono entrare nel guardaroba della lustrascarpe del Parlamento italiano: «Lo scollo deve lasciar intravedere l’inizio dei solchi delle dita. Guai se il tallone resta scoperto. Tinta unita. Di norma compro anche la cinta intonata».
Ma perché, ci sono ancora in giro deputati che escono di casa con la scarpa nera e la cintura marron? «Ai voja! E col calzino arrotolato no? Si siedono qua e la prima cosa che mi si para davanti agli occhi è ’sta calza a mezz’asta. Non la sopporto. Lei come ce l’ha? Me faccia un po’ vede’... Ecco, meno male, è ben tesa. Mi obietterà: ma camminando le calze calano e non è mica facile fermarsi per strada a tirarsele su. E le autoreggenti, allora? Eppure io le ho sempre in ordine».
Farsi lucidare le scarpe dall’unica sciuscià d’Italia è un po’ come passare un esame. Da Sciusciachic, la bottega di via in Lucina 16, entra solo chi è certo di non aver esaurito tutti i punti sulla patente dell’eleganza. Innanzitutto intimidisce la collocazione, un vicoletto quasi invisibile nel cuore di Roma, che sbuca in piazza del Parlamento, sul lato opposto rispetto alla facciata di Montecitorio banalizzata dai tiggì . Si viene ammessi uno alla volta, perché negli 8 metri quadrati del mondo di Rosalina, dominati da una locandina di Sciuscià, il film di Vittorio De Sica, trovano spazio solo lei e il trono di velluto rosso, rialzato da terra mezzo metro, che per il cliente spiegazzato può rivelarsi più scomodo del letto di Procuste.
Non ho osato chiedere quale sia la tariffa. Però ho visto un deputato del Partito democratico allungarle 10 euro al termine dei 20 minuti canonici che restituiscono la perduta lucentezza anche alla più scalcagnata delle tomaie. E le ho sentito chiedere 95 euro per la risuolatura di una francesina a un professionista che ne aveva spesi 130 per acquistarla. Si intuisce perché nel 2007 l’allora presidente della Camera, Fausto Bertinotti, abbia sentito il bisogno di precisare che le scarpe preferiva pulirsele da solo, soprattutto dopo «quell’unico ricorso al negozio» della signora Dallago, costatogli 32 euro. L’Espresso aveva scritto che l’ex segretario di Rifondazione comunista era solito mandare «almeno due volte la settimana» un commesso da Sciusciachic, avanzando il dubbio che l’operazione gravasse sul budget della Camera. «Che abbia usato i dipendenti di Montecitorio per mandarmi le sue scarpe, è fuori discussione», conferma la lucidatrice, «però ha sempre pagato di tasca propria».
Il lustro, come il lusso, ha il suo prezzo, specie se amministrato da un «personaggio invero felliniano», così la definì Igor Man, inviato speciale abituato a impolverarsi gli stivali su mille fronti di guerra. «Il Vecchio Cronista considera farsi lucidare le scarpe una sorta di rito brancatiano fascinosamente decadente. Come non essere grati a Rosalina?», scrisse il compianto giornalista della Stampa, equiparandola di fatto alla Gradisca di Amarcord. Potrebbero associarsi al ringraziamento, in ordine strettamente alfabetico, altri clienti famosi: Al Bano, Pietrangelo Buttafuoco, Luca Giurato, Ugo Gregoretti, Leo Gullotta, Giovanni Malagò, Mauro Masi, Cochi Ponzoni, Carlo Rossella, Gianfranco Vissani, Renato Zero. Dall’aldilà, anche Alberto Sordi: «Feci in tempo a lucidargli le scarpe cinque o sei volte. Era un uomo misurato e complimentoso, assai diverso dal cliché cinematografico. “Tu con quella voce potresti fare l’attrice”, mi adulava».
Difficile resistere allo charme dell’ex mannequin formatasi da Koefia,l’accademia d’alta moda fondata nella capitale un secolo fa, che ancheggiava a Donna sotto le stelle e a Pitti, che sfilava per Fendi e Pancaldi 1888. Era una top model, ma smise per amore di un marito abituato a servirsi solo da Marini, la bottega artigiana di via Crispi che faceva le scarpe a Marcello Mastroianni e Robert De Niro. Dopo il divorzio, si ritrovò a crescere da sola due figli. Missione compiuta: Marika, 29 anni, laureata in economia aziendale, oggi lavora per la Sony; Nicholas, 28, si occupa di arredamenti d’interni. «Divenuta madre, non me la sentivo di rimettermi a fare la modella. Trovai posto in un’azienda che organizzava congressi medici. Con le industrie farmaceutiche coinvolte in Tangentopoli, crollarono gli affari. Finii a fare la cameriera nei ristoranti. Di uno divenni direttrice, di un altro proprietaria in società con mia sorella. Durò poco: me ne andai per disaccordi. E a quel punto mi venne in mente Celletto».
Chi è Celletto?
«Mario Narducci, detto Celletto perché assomiglia a un uccelletto. Cominciò a fare lo sciuscià a 12 anni. Aprì questa bottega nel 1952. Ci venivo a farmi lucidare le scarpe. Un giorno un mio amico fotografo gli chiese di poter realizzare un servizio glamour a parti invertite: io nei panni della geisha che serve il maschio. Dal via vai di clienti capii che poteva essere un lavoro remunerativo. E così aprii una bottega tutta mia in via Emilia, traversa di via Veneto. Mi pareva un’idea talmente bizzarra che non ebbi neppure il coraggio di dirlo ai miei figli».
Invece ha funzionato.
«Sì, perché pochi mesi dopo l’inaugurazione un vecchietto spalancò di botto la porta del negozio ringhiandomi: “Chi so’ io?”. Era Celletto, furioso perché gli stavo portando via clienti. Del resto lui era un tipo lunatico. Non rispettava gli orari. Se pioveva, non apriva nemmeno. Poteva permetterselo: pagava appena 50.000 lire di affitto. Gli proposi un accordo: tu continui a fare come ti pare e io ti copro quando sei assente. “T’attacchi!”, fu la risposta. Alla fine si stancò e mi cedette la sua bottega».
Non è facile inventarsi un mestiere.
«Per me sì. So fare un po’ tutto, incluso aggiustare gli scaldabagni e riparare gli impianti elettrici. Ho preso da mia madre. A 87 anni sale sull’autobus ogni mattina e aspetta 15 fermate per andare nel suo negozio di filati e tessuti a Porta Pia».
Sciusciachic adesso è un franchising.
«Avevo esteso l’esperimento all’aeroporto di Fiumicino, ma ho dovuto chiudere: i lustrascarpe si tenevano i soldi. Resiste il corner che il neopresidente del Coni, Giovanni Malagò, l’uomo più elegante che io conosca, mi ha lasciato aprire al Circolo canottiere Aniene. Avrei voluto fare lo stesso al Grand Hotel et De Milan di via Manzoni a Milano, a Malpensa, a Linate, ma non trovo manodopera».
Allora non è il lavoro che manca, ma la voglia di lavorare.
«Può dirlo, prova ne sia che in 13 anni nessuno mi ha copiato. Alla sera torno a casa sporca come un metalmeccanico. E per fortuna hanno inventato un gel colorato per coprire le unghie annerite. Nonostante indossi guanti da chirurgo, devo ripetere questo maquillage ogni 15 giorni».
Dicono che il suo sia una sorta di confessionale.
«Ho la capacità di tirar fuori i pensieri più intimi delle persone. Sono la Mata Hari del terzo millennio. M’è capitato di lucidare le scarpe a clienti che intanto ordinavano per telefono tre pacchetti rigorosamente uguali al loro gioielliere di fiducia. Non credo che fossero tutti per la stessa donna».
Ma di che parla con gli uomini?
«Posso dirle di che cosa non parlo: di mogli e di soldi. Mi chiedono il punto di vista femminile sui temi sentimentali».
E le mandano mazzi di rose rosse.
«Diciamo fiori. Sono clienti contenti del servizio. Da un paio non voglio farmi pagare e loro si sdebitano in questo modo.
Oddio, poi c’è sempre qualcuno che spera di spingersi oltre...».
E come?
«Be’, una volta è arrivato da via Condotti un commesso di Cartier con un pacchetto. Dalla forma doveva essere un orologio o un bracciale. Nessun biglietto. Presumo che l’anonimo galante si sarebbe fatto vivo in seguito. Non ho mai saputo chi fosse. Rimandai il regalo al mittente perché allora ero fidanzata».
Che cosa guarda per prima cosa in un uomo?
«La bocca. Deve avere i denti candidi, perfettamente in ordine. Poi le mani. Poi le scarpe: se mi viene a prendere a casa un amico che le ha color cognac, lo caccio».
Che altro non sopporta, a parte il calzino srotolato e il color cognac?
«La suola di gomma portata sotto il vestito. Nell’uomo elegante è ammessa solo la scarpa inglese nera o al massimo testa di moro con suola di cuoio».
Col cuoio, quando piove, si scivola.
«Basta farlo scartavetrare un po’. Posso capire che il presidente Giorgio Napolitano preferisca le Hogan con la para, ma giusto perché va per i 90».
Il suo miglior cliente fra i politici?
«Francesco De Luca, avvocato napoletano, classe 1961, del Pdl».
Un buon partito. De Luca, intendo. Anche se non l’hanno rieletto.
«Viene sempre qui lo stesso. È fidanzatissimo e molto innamorato. E poi l’ex ministro Gianfranco Rotondi. Uomo ironico e di gran classe. Indossa solo scarpe su misura fatte da Giacopelli, una calzoleria di Parma. Sa osare sia con i colori sia con i materiali: ne ha un paio celeste polvere e uno in pelle d’anguilla».
Altri politici?
«Ai voja! So’ passati più o meno tutti, da Italo Bocchino ad Alfredo Papa. Compresi Francesco Belsito, il tesoriere che investiva i soldi della Lega in Tanzania, e Franco Fiorito, detto Er Batman. A un certo punto volevo avviare la lucidatura ai domiciliari, anziché a domicilio».
Il cliente più simpatico?
«Luca Giurato. È una bottiglia di birra lasciata aperta in frigorifero».
Un po’ svaporato.
«Mi piace da morire perché non se la tira. Come la moglie, Daniela Vergara, quirinalista del Tg2. E poi Ugo Gregoretti, carinissimo, fantastico. Mentre mi parla della nipotina, si commuove».
Il più antipatico?
«Renato Zero. Pretendeva la lucidatura gratis. Ma anche Gianfranco Vissani si batte bene. Quando ha visto che gli trattavo le scarpe col saddle, il sapone inglese, mi ha chiesto: “Ma che è? Chiara d’uovo?”, solo perché lui la usa in cucina per sgrassare i piatti. S’è indispettito perché non l’avevo riconosciuto».
È vero che i nobili invecchiano le scarpe nuove facendole indossare per qualche tempo alla servitù?
«Ho fra i miei clienti i Colonna, i Ruspoli, gli Orsini, i Cesarini Sforza, ma non mi risulta. Certo, le calzature appena uscite dalla fabbrica non sono molto eleganti. Quelle dei nobili hanno come minimo 20 o 30 anni, spesso le lasciano in eredità ai figli. Le scarpe sono belle quando invecchiano. Come i mobili. Altrimenti non esisterebbe l’antiquariato».
I segreti per farle invecchiare bene?
«Mai lucidarle con quelle maledette spugnette dei supermercati: il silicone liquido non si toglie più, schiarisce la pelle e si stratifica fino a plastificarla. Adoperare solo il Meltonian, una crema inglese. Non indossarle per più giorni di seguito: bisogna lasciarle respirare. Usare tendiscarpe di cedro, a poro aperto. Se bagnate, non avvicinarle a fonti di calore per asciugarle. Occhio alle gocce di pioggia: si trasformano in macchie indelebili».
Avrà visto il film Sciuscià, suppongo.
«Un paio di volte».
Ricorda i nomi dei due bambini che lustrano scarpe nella Napoli del dopoguerra?
(Sbircia la locandina appesa in negozio). «Tamburella?».
Guardi che quello è il cognome del produttore. Pasquale e Giuseppe. E il primo da chi era interpretato?
«Oddio, come si chiama? Abita pure vicino a casa mia...».
Franco Interlenghi. Sa dirmi qual è l’origine del sostantivo sciuscià?
«Ma che me fa? La iena della situazione? Mo’ me chiede andò sta’ er Darfur... È una storpiatura di shoeshine, lucidatura di scarpe, coniata nel 1945, durante l’occupazione americana di Napoli».
Contenta della nuova presidente della Camera, Laura Boldrini?
«Devo essere sincera? Appena arrivata qui, ero orgogliosa di stare a due passi da Montecitorio. Adesso... Lassamo perde’, che so’ tutti miei clienti».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Hic sunt leones (Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 56 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Tredici libri: La versione di Tosi e Hic sunt leones i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.