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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

L’IRAQ DOPO LE FALKLAND: L’ALTRA GUERRA DI MARGARET

La sua risposta relativa a Margaret Thatcher mi spinge a chiederle un suo intervento sul ruolo della stessa nella decisione americana di scacciare Saddam Hussein dal Kuwait.
Cesare Scotti
cesarevittorecarlo@gmail.com
Caro Scotti, come quasi tutte le autobiografie, anche quella di Margaret Thatcher, pubblicata in italiano da Sperling & Kupfer nel 1993, è una perorazione pro domo sua, un monumento innalzato alla sagacia e al coraggio della protagonista. Quando Saddam iniziò l’invasione del Kuwait (erano le due del mattino, il 2 agosto 1990), Thatcher era da qualche ora a Aspen, nel Colorado, in attesa del presidente americano George W. H. Bush e dell’inizio di una conferenza organizzata dall’Istituto che porta il nome della città. Nelle sue memorie racconta di non avere avuto alcun dubbio, sin dall’inizio della crisi, sulla necessità di una reazione forte. Non aspettò l’arrivo di Bush e approfittò dell’esperienza fatta qualche anno prima, con la guerra delle Falkland, per lanciare i primi ordini: due navi inglesi sarebbero partite immediatamente per il Golfo, la delegazione britannica all’Onu avrebbe fatto approvare dal Consiglio di sicurezza una risoluzione particolarmente ferma, i fondi del Kuwait nelle banche britanniche sarebbero stati congelati e sottratti in tal modo alle eventuali rapine di Saddam Hussein.
Arrivato a Aspen poche ore dopo, Bush sembrò avere qualche perplessità. Disse a Thatcher che due leader arabi (il presidente egiziano Mubarak e re Hussein di Giordania) lo avevano esortato alla calma e che sarebbe stato opportuno lavorare per una «soluzione araba» della crisi. Ma la calma e la soluzione araba non facevano parte dello stile di Margaret Thatcher. La primadonna britannica disse che occorreva proteggere l’Arabia Saudita dalla possibilità di una invasione irachena, evocò un Golfo dominato dal tiranno di Bagdad, sostenne che era necessario dare al mondo una lezione di fermezza. Vi fu una telefonata a Bush del presidente yemenita nel corso della quale questi sostenne che l’invasione irachena del Kuwait assomigliava, dopo tutto, a quella americana di Grenada (un’isola dei Caraibi membro del Commonwelth britannico) durante la presidenza Reagan. Ma questa mancanza di buona educazione irritò Bush e lo spinse ancora di più nelle braccia di Thatcher. Da quel momento cominciò il conto alla rovescia, scandito da altre risoluzioni dell’Onu, mediazioni fallite, ultimatum.
Uno degli aspetti più interessanti di questa fase della crisi è l’assoluto silenzio sulle cause del conflitto tra l’Iraq e il Kuwait. Per buona parte degli anni Ottanta Saddam Hussein aveva combattuto una costosa e sanguinosa guerra contro l’Iran. Alle monarchie sunnite del Golfo non spiaceva che qualcuno desse filo da torcere agli ayatollah e il Kuwait, in particolare, aveva garantito a Bagdad gli indispensabili finanziamenti. Ma ora, terminata la guerra, chiedeva la restituzione del denaro e, per di più, violava gli accordi dell’Opec gettando sul mercato quantitativi di petrolio che superavano largamente le quote fissate dall’organizzazione: una politica petrolifera che abbassava i prezzi e nuoceva agli introiti dell’Iraq. Saddam Hussein aveva molte colpe, ma il Kuwait non era completamente innocente.
Fra le vittime della guerra irachena vi fu anche la signora April Glaspie, ambasciatore degli Stati Uniti a Bagdad. Non appena l’Iraq cominciò ad ammassare truppe sulle proprie frontiere, Glaspie chiese udienza a Saddam Hussein. Era stata incaricata di fargli questa comunicazione: «Non abbiamo alcuna opinione sui vostri conflitti inter-arabi, come il contenzioso con il Kuwait. Il segretario di Stato Baker mi ha chiesto di sottolineare ciò che avevamo già detto negli anni Sessanta: che la questione del Kuwait non ci concerne». Saddam Hussein si considerò autorizzato a fare la guerra e April Glaspie fu trasferita in un modesto ufficio del Dipartimento di Stato.
Sergio Romano