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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

PERCHE’ NON FERMATE IL DECLINO DELL’ENEA?

Lo chiudano piuttosto, se hanno il fegato di farlo. Ma è indecente tenere in vita l’Enea come fosse un peso morto, da alimentare controvoglia sparagnando sui centesimi. Il governo, quale che sia, pensa che l’Italia dei Fermi, degli Amaldi, dei Rubbia non abbia più bisogno della ricerca? Si assuma l’onere di dirlo. O si regoli come nei Paesi civili.
I numeri dicono tutto. Nella seconda metà degli anni Ottanta, quando si vantava di avere la quinta economia al mondo e un Pil quattro volte più grande di quello cinese, l’Italia dava al nostro Ente nazionale per l’energia atomica, che aveva oltre cinquemila dipendenti per quattro quinti impegnati nel nucleare, l’equivalente attuale di 976 milioni di euro. E già l’allora presidente Umberto Colombo si lamentava dei tagli. Quest’anno ne ha dati sei volte di meno: 152. Una sessantina al di sotto di quanto l’ente deve spendere solo per pagare i dipendenti (ridotti a 2.700 dei quali poco più di un decimo ancora addetti ai settori originari) e i servizi e la sicurezza degli impianti.
Colpa dell’abbandono del nucleare, si dirà. Sì e no. Berlusconi, ad esempio, esordì nel 2008 col suo ultimo governo sostenendo che bisognava «andare in maniera decisa verso una fonte energetica nucleare». Una scelta «indispensabile per garantirci l’energia per il futuro e tutelare meglio l’ambiente». Parole: poi tagliò anche lui.
Certo, l’Enea, pur conservando l’acronimo originale si è sempre più diversificato. Tanto che si occupa, oltre che dello «sviluppo di nuove fonti di energia quali la fissione nucleare sicura e la fusione nucleare controllata», di un mucchio di cose. Dall’«efficienza nell’uso dell’energia nei vari comparti economici» alle fonti rinnovabili, dalla gestione dei rifiuti a progetti di security come la messa a punto di un sistema che sarà sperimentato in una stazione della metro parigina in grado di individuare se una persona porta addosso materiali esplosivi o se li ha di recente maneggiati. Per non dire della creazione di basi antisismiche per i Bronzi di Riace, delle proposte sulla prevenzione del rischio terremoto del Duomo e della rupe di Orvieto o degli studi sugli oltre 1.100 impianti chimici a rischio di incidente rilevante (Rir) come quelli siciliani di Milazzo e Priolo Gargallo.
Decenni di studi d’avanguardia sul nucleare, però, secondo gli scienziati della «cittadella» di Frascati, spingono nonostante tutto all’ottimismo: «L’industria italiana ha la leadership nel settore della produzione di componenti per la fusione nucleare, un settore di nicchia, che attrae però importanti finanziamenti da tutto il mondo». Lo conferma il progetto internazionale Iter per la costruzione a Cadarache, in Provenza, del primo impianto a fusione di dimensioni paragonabili a quelle di una centrale elettrica convenzionale.
Un colossale sforzo finanziario e scientifico paragonabile solo, dicono gli esperti, allo sbarco sulla Luna: se avremo energia sicura lo vedremo lì. Bene: del miliardo e 300 milioni di euro finora assegnati per i lavori, 750 milioni sono andati a imprese italiane produttrici di magneti superconduttori, sistemi di controllo, scambiatori di calore speciali… «Imprese che si sono qualificate lavorando con noi», spiega l’ingegner Giovanni Lelli, che dell’Enea è il commissario, «in pratica l’Italia partecipa a Iter col 13 per cento delle risorse e ha già acquisito oltre il 50 per cento degli ordini. Gli altri Paesi sono seccatissimi per questa nostra leadership».
Eppure, a Frascati si sentono un po’ come il tenente Drogo nella fortezza Bastiani di Dino Buzzati. Lontani, estranei, dimenticati. Circondati dal nulla. Te lo dicono arrossendo d’imbarazzo, come se si scusassero loro per la cecità altrui: «Sono anni che non vediamo un ministro. Anni. Siamo una voce nel bilancio ma di cosa facciamo, di come collaboriamo con le imprese, di come riusciamo nonostante tutto a recuperare soldi per continuare a lavorare e scoprire e fare brevetti pare che non importi a nessuno». Ogni tanto, racconta Lelli, qualche ministro lo incrocia: «Gli dico: posso spiegarle cosa potremmo fare per aiutare operativamente il rilancio dell’Italia? Mi rispondono: ha ragione, bisogna che ci vediamo…». E poi? «E poi il vuoto…».
Colpa della crisi? Rileggiamo Barack Obama: «In un momento così difficile, c’è chi dice che non possiamo permetterci di investire in ricerca, che sostenere la scienza è un lusso quando bisogna dare priorità a ciò che è assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca è più essenziale che mai alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita. (...) Per reagire alla crisi, oggi è il momento giusto per investire molto più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base».
Facciamo un paio di confronti? Il tedesco Karlsruher Institut für Technologie riceve, per la sola ricerca, 77.419 euro per ogni addetto, il francese Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives 153.153, l’Enea tutto compreso 58.519. Che senza le entrate proprie dovute ai brevetti e alle commesse non basterebbero neppure a pagare le spese vive. Basti dire che su 152 milioni di finanziamento complessivo l’ente deve pagarne addirittura nove all’anno all’Enel, che nonostante sia in buona parte pubblico manda le bollette all’ancora più pubblico Enea come fosse un’azienda privata produttrice di motoseghe, bacinelle o turaccioli.
Risultato: chi lavora in questo vuoto pneumatico, se non ha motivazioni patriottiche ed eroiche, se è giovane sogna «quasi quasi vado in America» e se è anziano rimpiange «era meglio se quella volta fossi andato in America…». Ce li invidiavano tutti, un tempo, i nostri fuoriclasse. Ora non più. Nel senso che via via che crescono ce li sfilano sotto il naso. «Negli ultimi anni abbiamo tirato su una cinquantina di giovani scienziati bravissimi — sospira amaro Lelli —, ce ne sono rimasti tre». E gli altri 47? «Se ne sono andati. Anche quelli più motivati alla fine hanno ceduto».
Hanno 49 anni di media, i ricercatori dell’Enea. Molti sono entrati quando la cittadella sui colli romani, un fiore all’occhiello poco alla volta appassito dal taglio dei fondi, era un concentrato di ragazzi e ragazze che non dormivano la notte proiettati com’erano nel futuro.
È tutta la nostra ricerca, va detto, a essere in condizioni simili. Una tabella elaborata su dati Eurostat 2011 da Observa Science in Society dice che gli scienziati e gli ingegneri occupati in campo tecnico-scientifico con meno di 34 anni sono da noi il 23 per cento: sette punti in meno rispetto alla media europea. La classifica dei più anziani, dai 45 ai 64 anni, ci vede nelle posizioni di testa con quasi il 43 per cento: cinque punti sopra la media continentale, sei sopra il Regno Unito, quasi nove sopra l’Austria, dieci sopra l’Irlanda… Solo alcuni Paesi ex comunisti hanno ricercatori più vecchi dei nostri.
E se domani mattina spuntasse dalle parti di via Panisperna un nuovo Ettore Majorana di ventidue anni, per dirla con le parole di Edoardo Amaldi, dall’«aspetto di un saraceno» e dagli «occhi vivacissimi e scintillanti»? All’Enea non saprebbero come tenerlo. E dovrebbero offrirgli, con difficoltà, un contrattino a tempo di 1.700 euro al mese per due anni per poi estenderlo a cinque e stare lì ad aspettare che arrivi un concorso. «Nel frattempo ce lo fregano». Ma se non punta sulla intelligenza dei nostri ragazzi, come può pensare l’Italia di uscire dalla crisi: con qualche «aggiustatina»?
Gian Antonio Stella