Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 26 Venerdì calendario

CARCERE DURO E CORANO SEQUESTRATO A GUANTANAMO SCOPPIA LA RIVOLTA

LASCIATA aperta dal tradimento di Barack Obama, la piaga di Guantanamo continua a suppurare e a infettare la coscienza americana. Ora è scoppiata l’epidemia degli scioperi della fame di dozzine di prigionieri intubati e nutriti a forza. Dal 7 febbraio, giorno dopo giorno si è estesa.
Non è soltanto colpa del presidente, se cinque anni dopo la promessa di chiudere il lager di tante vergogne aperto da George Bush nella base della Us Navy in territorio cubano, Guantanamo rinchiude ancora 166 detenuti, in gran parte yemeniti, degli 800 originali. La resistenza del Congresso, la legge sulla sicurezza nazionale che subordina la scarcerazione a una impossibile garanzia
che i detenuti non commettano più atti di terrorismo, e la totale indifferenza dell’opinione pubblica e dei media, hanno contributo a prolungare l’esistenza del campo di prigionia. Ma l’accidia del presidente, che pure aveva fatto della cauterizzazione di quella ferita uno dei punti del programma elettorale nel 2008, ha permesso che Guantanamo sia ancora aperta e funzionante.
Non sono più, e da tempo, le condizioni della prigionia quelle che hanno spinto la metà dei prigionieri, 84 su 166 ad ammutinarsi. Dopo la brutalità iniziale delle stie da polli, degli «interrogatori speciali», uno dei garbati eufemismi cari alla presidenza Bush per non parlare di torture, e del disprezzo dei carcerieri militari per quelle “raghead” teste di stracci, come lo slang del soldato descrive gli arabi, la condizione degli ultimi prigionieri di Guantanamo si era cronicizzata nella routine di ogni prigionia, certamente non peggiore di altri luoghi di detenzione Quello che ha spinto gli uomini arancione, gli 88 ammutinati, a ribellarsi è l’angoscia frustrante di essere intrappolati in un limbo giudiziario e politico senza uscite. Le agenzie e le reti televisive del mondo arabo, prima fra tutte Al Jazeera, raccontano a centinaia di milioni di spettatori nell’universo mussulmano, di perquisizioni e di piccole angherie su prigionieri che non sono mai stati riconosciuti colpevoli, formalmente ancora «sospetti» e basta, come il sequestro di foto di famiglia, di ricordi personali, che in quelle condizioni divengono privazioni crudeli. Più ancora, gli avvocati difensori americani e i legali della Aclu, l’unione di legali volontari che si appellano alla Costituzione e ai diritti civili, narrano di speciali mancanze di rispetto verso il Corano di proprietà dei detenuti, ben sapendo che il Corano non è una semplice copia del testo sacro, come un Vangelo o una Bibbia per i cristiani, ma è «il» libro sacro in sé.
Sembra improbabile che dopo tanti anni, e dopo corsi di sensibilizzazione culturale inflitti ai Marines di Guantanamo i carcerieri siano tanto ottusi da scatenare una rivolta profanando il Libro. Più verosimilmente, come dicono ad Al Jazeera i parenti dallo Yemen, la loro disperazione viene dal fatto che molti sono già stati “cleared”, approvati dai tribunali militari per la liberazione, ma restano in gabbia. Per autorizzarne la partenza, il Parlamento Usa pretende dal Pentagono la certificazione che non si riuniranno a cellule o ad organizzazioni terroristiche.
Tra il “Processo” di Kafka e il “Catch 22” di Joseph Heller, le condizioni poste dalla legge non condannano per quanto un sospetto abbia fatto, ma per quello che potrebbe fare in futuro, in una nebbia che essi sperano di dissolvere soltanto con il suicidio. E che eventi come le bombe di Boston infittiscono. Tentativi di impiccagione con le tute arrotolate sono sventati dalle guardie che li tengono sotto sorveglianza giorno e notte, ma non possono costringerli a nutrirsi. A questo devono provvedere i 100 fra medici militari, infermieri (tutti naturalmente maschi) e paramedici in servizio regolare ai quali il Pentagono ha aggiunto ora altri 40 sanitari, nella certezza che l’epidemia si allargherà. Con 140 medici e infermieri per 166 prigionieri, Guantanamo ha certamente il rapporto più alto fra detenuti e sanitari di ogni carcere o campo di prigionia nella storia.
Dopo le solenni promesse, il Presidente ha voltato le spalle alla piaga Guantanamo, nella coscienza che non ci siano dividendi di popolarità per lui in questa battaglia. E la certificazione della futura non nocività degli scarcerati ha subito un colpo mortale quando, Umar Farouk Abdulmutallab, fu fermato nel 2009 dopo il fallito “attentato delle mutande”, sorpreso con esplosivi nella biancheria su un aereo. In Yemen, Abdulmutallabsi era associato ad Aqap, la filiale di al Quaeda nella penisola arabica, fondata proprio da un ex “ospite” di Guantanamo, Said Ali Al-Shihri.
Le famiglie degli ammutinati nutriti a forza gridano che più di 500 detenuti già liberati erano tutti sauditi ed afgani, quindi cittadini di nazioni i cui governi sono coccolati da Washington, per ragioni di ipocrita realpolitik. Il nuovo presidente yemenita, Abdu Rabu Mansur Hadi, ha rapporti molto più caldi con Obama e questo fa sperare. «Il Congresso ha messo molti ostacoli, è vero — riconosce Zachary Katznelson, uno degli avvocati che tenta di rappresentare i detenuti — ma Obama potrebbe fare molto di più, se lo volesse». Come le guerre sono sempre più facili da cominciare che da finire, così è sempre più facile incarcerare che liberare.