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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

GRANDE FRATELLO ALL’ AEROPORTO IN ISRAELE CONTROLLANO LE E-MAIL

Il nome, Najwa Daughman, suonava non tranquillizzante. Le origini palestinesi della famiglia, costretta ad abbandonare Haifa nella guerra del 1948, accrescevano il senso di disagio. A ciò si aggiungeva la netta sensazione che la giovane architetta appena sbarcata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv dopo un volo notturno dagli Stati Uniti fosse un’attivista filo-palestinese dell’International Solidarity Movement, possibilmente in procinto di entrare in azione nei Territori.

Per cui - era il maggio 2012 - la responsabile dei servizi di sicurezza israeliani all’aeroporto le disse: «Adesso facciamo qualcosa di interessante». Le presentò un computer e le disse di entrare nella propria casella postale Gmail. Lo stato di Israele desiderava dare una scorsa alla sua corrispondenza...

L’episodio - denunciato con grande evidenza un anno fa da «Haaretz» - ha allarmato l’associazione israeliana per i diritti civili Acri, secondo cui le violazioni della privacy di stranieri in arrivo sono divenute un fenomeno preoccupante. Ieri però queste apprensioni sono state trovate ingiustificate dal consigliere legale del governo israeliano, Yehuda Weinstein, che si sente di poter invece giustificare «in casi straordinari» le intrusioni degli agenti di frontiera nella corrispondenza di quanti suscitino una serie di sospetti. Costoro, precisa, non sono costretti a mostrare le proprie mail. Ma il loro rifiuto potrebbe indurre gli agenti a negare l’ingresso in Israele.

La Daughman (e come lei altre tre donne statunitensi, di origine araba, citate in quell’occasione da Haaretz) fu sbigottita dalla richiesta e accettò di collaborare. Avrebbe poi riferito che la agente si era interessata ai messaggi che contenevano le parole: Israele, Palestina, Cisgiordania e aveva preso nota dei suoi contatti. Dopo alcune ore la Daughman fu costretta a rientrare negli Stati Uniti.

Israele, sottolinea il consigliere Weinstein, non ha alcun obbligo di garantire l’ingresso a cittadini stranieri. Quei controlli sono dunque giustificati per determinare il «background» di chi desideri entrare nel Paese. Parole che non acquietano l’Acri: in Israele, rileva, la ispezione della corrispondenza di un cittadino deve essere autorizzata da un giudice; altrimenti rappresenta una violazione della privacy. A ciò le autorità replicano, in via informale, che gli stessi israeliani che chiedono un visto all’ambasciata degli Stati Uniti d’America di Tel Aviv possono essere sottoposti a lunghi e dettagliati interrogatori. Talvolta basta essere nati nel Paese «sbagliato» (come l’Iran) per vedersi negare il permesso di sbarcare negli Stati Uniti. Dove pure capita per altro che computer siano ispezionati alla frontiera.

L’Acri comunque non si dà per vinta. Adesso, anticipa, la battaglia passerà alla Knesset. «Vogliamo spiega l’avvocato Lila Margalit - che in merito si faccia una legge ben chiara. E, cosa più importante, che le pratiche all’aeroporto Ben Gurion siano costantemente controllate dalla magistratura».