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 2013  aprile 21 Domenica calendario

L’ULTIMA RIVINCITA DI BERLUSCONI “HO FATTO UNA STRAGE DI LEADER PD”

Sto aspettando un altro avviso di garanzia” dice Silvio Berlusconi appena entra a Montecitorio. I volti dei parlamentari Pdl intorno a lui si fanno subito scuri. “É per strage. Ho distrutto il Pd”. L’ennesima barzelletta, si torna a ridere fino a sbellicarsi. Da Occhetto a Veltroni la lista era già lunga, ma questa volta è andata anche meglio: gli avversari si sono auto-eliminati. In più è stata scongiurata l’elezione di Rodotà al Colle, dopo quella di Prodi, e i guai giudiziari sembrano meno minacciosi. Ora Berlusconi può tornare ad essere considerato un politico in corsa anziché un Caimano a cui tirare le monetine mentre se ne va, sconfitto, dal governo. Ride, e festeggia.

É lui il vero vincitore della settimana e gli si legge in volto. “Ma non dite che Berlusconi è soddisfatto – sostiene uno dei suoi uomini più fidati, Denis Verdini – lo sarebbe stato se al Quirinale ci fosse andato lui. É quello il palazzo che gli spetta”. Obiettivo che non perde affatto di vista. La speranza è di trovare la porta aperta al prossimo giro, magari tra un anno, se Napolitano dovesse dimettersi. Il “comunista” è diventato ieri “un riferimento per tutti noi” ma non “una mia vittoria”. Eppure l’accordo sulla rielezione lo riporta politicamente sulla breccia: è un patto complessivo su un governo di larghe intese da trattare con lui e su un pacchetto di riforme istituzionali, già studiate dai “10 saggi”, a partire dalla legge elettorale.

LA SOLUZIONE individuata in mattinata da Berlusconi e Napolitano era quella di un’elezione vincolata alla nascita di un esecutivo guidato da Giuliano Amato, con tutti i ministri politici. Perché l’ex premier non accetta l’idea di vedere trasformati i “saggi” in ministri, tra i quali non c’è neanche un berlusconiano doc, e il cui lavoro lo considera “inutile e da buttare”. Ma l’intesa sull’ex socialista è durata solo qualche ora. Appena l’ipotesi è stata prospettata a Roberto Maroni, il leader della Lega l’ha bloccata con una minaccia diretta: “Se il Pdl vuole rimanere in buoni rapporti con noi deve cancellare dall’alfabeto la lettera A. Come Amato”. La seconda scelta è quella di far nascere un “governo Letta” (Enrico, ndr) con Angelino Alfano vicepremier. A quel punto il Pdl potrebbe esprimere alcuni ministri. In pole position il “saggio” Quagliariello, il già vicepresidente della Camera Maurizio Lupi e Mara Carfagna. Ma Berlusconi dovrebbe accettare Mario Monti all’Economia o agli Esteri, un boccone amaro. “La partita del Colle e quella del governo sono completamente slegate – spiega Verdini – fare un accordo oggi è come firmare un assegno in bianco. Non avete visto con che tipo di Parlamento abbiamo a che fare? Come facciamo a sapere quanti franchi tiratori avrebbe un esecutivo di larghe intese?”. Insomma, la certezza della nascita di un governo non c’è, e nella telefonata di congratulazioni che Berlusconi ha fatto subito dopo l’elezione a Napolitano non si è risparmiato una battuta sulle urne: “Presidente noi siamo pronti a tutto”. Il Caimano lo sa che con il Pd in frantumi e la crisi alle porte il vantaggio andrebbe subito monetizzato. L’unica certezza è che ora tratterà da vincitore anziché da sconfitto. E i risultati, per i democratici, potrebbero essere molto simili a una “strage”.

Caterina Perniconi

COME TI RESUSCITO UN CAIMANO –
È un’onda che viene e che va. Soprattutto va. A inizio 2013, Pier Luigi Bersani aveva già vinto e Silvio Berlusconi era finito. Un’altra volta. La situazione, quattro mesi dopo, è appena diversa. Dopo le Primarie, Bersani non poteva non trionfare. Aveva un vantaggio abissale: lo squadrone, il giaguaro da smacchiare, Nanni Moretti a tirargli la volata. Eppure ce l’ha fatta. Rigori su rigori sbagliati, e tutti a porta vuota. Match point sprecati con precisione così fantozzianamente chirurgica da lasciar pensare che, dietro a quei disastri insistiti, ci fosse un metodo. Una collusione. Una connivenza.

In cento giorni o poco più, Bersani è riuscito a sbagliare tutto. Consegnandosi alla storia come il sicario (il più noto, ma non l’unico) del Pd. Una sorta di virus che ha distrutto dall’interno quel che restava del centrosinistra. Spolpandolo con bulimia certosina. Dall’altra parte, o per meglio dire dalla stessa, Berlusconi. Quello che a novembre sembrava un po’ rincitrullito, a gennaio riusciva a far sembrare financo Giletti un giornalista incalzatore (“Me ne vado? Me ne vado?”) e che due sere fa suonava allegramente il pianoforte alla serata dedicata ad Alemanno, dedicando canzoncine amene a Rosy Bindi e gioendo – con tutta la claque – per le dimissioni di Bersani. Ovvero uno dei suoi scudieri più instancabili. L’ennesima resurrezione del Caimano ha i connotati arcinoti.

UN MIX di talento mediatico, genialità del male e – soprattutto – insipienza degli avversari. Ogni volta che il centrosinistra lo ha visto in difficoltà, si è guardato bene dall’assestare il colpo definitivo.

Nel ‘97/98 fu la Bicamerale di D’Alema, nel 2007/8 il neonato (già morto) Pd di Veltroni, nel 2011 Napolitano, nel 2013 Bersani.

L’elettrocardiogramma di Berlusconi è irregolare. Ogni volta che sembra prossimo alla calma piatta, la presunta opposizione accorre – trafelata – col defibrillatore.

La trama non concede particolari variazioni. Funziona così: si arriva ciclicamente a un punto in cui, per mandare Berlusconi in fondo al precipizio, basterebbe una spinta. Una piccola spinta. Anche solo un refolo di vento. È però qui che, puntualmente, accadono due cose: la “sinistra” si intenerisce e – al contempo – Berlusconi recita la parte dello “statista responsabile”.

I primi, con fare pensoso, cominciano a straparlare di rispetto del “nemico” (quale nemico?) e propongono genericissime “larghe intese”.

Il secondo, con maestria consolidata, abbassa i toni. Naviga sottotraccia. Non appare. Si nasconde. Rilascia poche considerazioni che i soliti editorialisti cerchiobottisti definiscono (mal celando l’eccitazione) “altamente responsabili”. È avvenuto anche prima del Napolitano Bis. Per osmosi la finta moderazione colpisce anche falchi e colombe, droidi e fedelissimi. Al di là delle irrilevanti pasionarie caricaturali, ora una Mussolini e ora una Biancofiore, i Cicchitto e financo i Gasparri (per quanto possa un Gasparri) paiono meno invasati. Alludono al “paese che ha bisogno di essere governato”. Preconizzano “alleanze per il bene comune”.

SEMBRANO posseduti dal fuoco sacro della passione politica. La sensazione, vista con occhi minimamente smaliziati, è quella di tanti Jack Torrance (il protagonista di Shining) che a metà film si reinventano Richie Cunningham e ti offrono una gazzosa al bar di Happy Days. Un guasto narrativo che metterebbe in guardia persino Oldoini. Eppure, non si sa come (o forse si sa benissimo), la sinistra ci casca. Sempre. Dicendo e scrivendo: “Dai, Berlusconi in fondo non è poi così cattivo”. Ovviamente, un attimo dopo aver teso la mano (un Presidente, un salvacondotto, un inciucio), Jack Torrance spacca il locale e torna quello di prima. Tra le resurrezioni del Caimano, quella del 2013 è forse la più scombinata. La sceneggiatura è particolarmente forzata. Del resto è almeno la quarta saga del Lazzaro di Arcore, e anche Rocky IV era più debole del primo episodio. Ciò che non cambia mai è il finale. L’happy ending, però sui generis. In queste pellicole di cinema civile è sempre Jack Torrance che vince. Non tanto perché riesce a uscire dal labirinto, ma perché sono le vittime a indicargli la strada. A porgergli (con sussiego) l’ascia. Nel frattempo i processi restano. La polizia indaga. I testimoni giurano che “è stato lui”. Ma qualcuno, alla fine, un alibi glielo trova sempre. E quel “qualcuno” ha sempre la stessa faccia.

Andrea Scanzi