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 2013  aprile 20 Sabato calendario

ALCOL DA RAGAZZA

Stiamo tirando su una generazione alcolica, una gioventù ubriaca. E stavolta non è questione di moralismi o inutili allarmismi, perché solo a leggere i dati che riguardano il rapporto fra i ragazzi italiani e i drink, l’hangover è assicurato. «Sì, l’emergenza è proprio nei numeri», ci spiegano dall’Iss, l’Istituto Superiore di Sanità che a fine mese comunicherà le ultime cifre del fenomeno. Che qui anticipiamo per la parte che riguarda il campanello d’allarme sull’alcol-dipendenza di minori, adolescenti e giovani-adulti. I punti critici sono molti. Primo: sono 300mila i minori italiani con comportamenti a rischio, ovvero il 7,3% della popolazione. Un dato destinato quasi a raddoppiare quando l’anno prossimo nel campione si considereranno gli under 18 (fino a settembre scorso la legge prevedeva il divieto di somministrazione e vendita per gli under 16). Secondo: si tratta della generazione più precoce d’Europa, con un’età-choc di iniziazione (prima assunzione di alcol), fissata a 11 anni. Tanto che oggi circa il 12% degli under 14 italiani è a rischio e un 70% ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno. Terzo: il 13% delle intossicazioni alcoliche riguardano minori e gli incidenti alcol-correlati sono la loro prima causa di morte. Quarto: la fascia più problematica è quella delle ragazzine sotto i 14 anni con il 12% di comportamenti a rischio, il doppio rispetto al 6% della media nazionale delle donne. Quinto: superare la dose massima di 12 grammi di alcol al giorno (ovvero un bicchiere di birra) fa aumentare nelle ragazze del 5% la possibilità di contrarre un cancro alla mammella a partire dal secondo bicchiere, dal terzo il rischio aumenta del 25%.
«Può bastare quest’ubriacatura di numeri per porre l’attenzione su un fenomeno troppo spesso sottovalutato?», chiede provocatoriamente Emanuele Scafato, presidente della Sia (Società italiana alcologia). «Di certo informare serve. E ricordiamoci che dobbiamo partire dall’alcol e non dall’alcolismo, che è già una seconda fase: quella che porta alla dipendenza». Sottolineare i rischi, secondo Scafato, serve per aumentare la sensibilità. «Dal Codice Rocco, del 1932, non si metteva in discussione l’età minima di divieto per somministrazione e vendita. Finalmente siamo riusciti a portarla a 18 e non per un capriccio, ma perché è scientificamente dimostrato che è la soglia minima per lo sviluppo dell’enzima che permette una migliore elaborazione dell’alcol e per non incorrere in danni cerebrali. Dovremmo insegnare ai nostri ragazzi che l’alcol non è un alimento, non è nutriente, il corpo non ne ha bisogno. E per loro è molto pericoloso».

UN BICCHIERE PER CENA
Forse basterebbe ricordare che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) consiglia l’astensione totale dal consumo almeno fino ai 15 anni. Per il presidente Sia comunque le ragioni di questa emergenza italiana sono molteplici. «Innanzitutto la più semplice disponibilità rispetto al passato: fra ingressi free-drink, happy-hour un po’ ovunque, formule assurde come drink as-much-as-you-can». C’è poi anche un aspetto generazionale, ovviamente: per i maschi è la sfida, la sperimentazione. Per le femmine una sorta di edonismo da emulazione.
«Tutte le minoranze tendono a conquistare quello che considerano appannaggio delle maggioranze, anche vizi e rischi. E così oggi le donne sono il nuovo target», sostiene Valentino Patussi, gastroenterologo e responsabile del Centro alcologico regionale toscano. Per le giovanissime vale anche una compensazione da effetto-dieta: magari non si mangia durante la settimana, per poi bere a volontà (e spesso a stomaco vuoto) quando si esce il weekend. Senza ovviamente arrivare agli estremi, seppur esistenti, della “drunkoressia”(sostituire il pasto con soli alcoolici).
«Purtroppo proprio il consumo lontano dai pasti è un’altra delle abitudini a rischio. È una delle caratteristiche dell’alcolismo giovanile», aggiunge Scafato. «Quando si beve a tavola almeno si è “protetti” dal cibo e l’alcol viene assimilato meno. Invece la quota di 14-17enni che consuma alcol fuori dai pasti è già al 18,8%, mentre fra i 18-24enni si registra un 15% record di “binge drinking” (la bevuta da gozzoviglia). Ovvero bere per la semplice (e assurda) finalità di socializzare ubriacandosi».

CATTIVA PUBBLICITÀ
Per gli esperti l’alcol è oggi una sorta di “lubrificante sociale”, e per questo un grande business. Sarà un caso che su 310 milioni di euro di pubblicità del settore, ormai ben 65 milioni vengano veicolati da banner pubblicitari e pop-up sui più famosi social network? «D’altronde questo è uno dei pochi ambiti in cui la regolamentazione è delegata alle stesse persone che hanno interessi economici in materia». Aggiunge Patussi: «La Nazionale di rugby ha per sponsor un superalcolico che come tutti fa notoriamente malissimo agli sportivi, nei bar interni dei nostri ospedali trovi whisky e sigarette, la Caritas di Firenze regala a Natale agli indigenti bottiglie di vino e le chiama “scaldacuore”, un’importante compagnia aerea regala come gadget casette colorate che sono in realtà fiaschette di liquore, alle feste scolastiche di fine anno si consente di portare la vodka». Sorride amaro, Patussi, pensando alle tante volte che i suoi discorsi sono stati tacciati di “proibizionismo”. «E invece i giovani guardano a queste coerenze. Ed è su questo che poi ci chiedono conto». Quindi cosa bisognerebbe fare? «Nel 1913 Giolitti regolava il consumo di alcol per la prima volta in Italia. La legge stabiliva che gli operai non potessero essere pagati nelle bettole, che un parlamentare trovato per due volte in situazioni di ubriachezza non avrebbe più potuto essere rieletto... Sono passati esattamente 100 anni e abbiamo fatto pochissimi passi avanti in materia. L’alcol è una sostanza psicotropa, che altera lo stato fisico: perché non lo diciamo chiaramente urbi et orbi?».

LE COLPE DEI GRANDI
La responsabilità degli adulti è quasi un tabù, certo uno degli argomenti più difficili da affrontare. «La verità è che finora», aggiunge Patussi, «la società italiana non ha mai davvero voluto prendere di petto il problema. Per ragioni di tradizione (il vino per esempio è un’icona del nostro Paese), economiche (un giro d’affari notevole) e anche per ignoranza. A partire da noi medici, ovviamente. Inutile allarmarci per i comportamenti dei più giovani quando il controllo sociale non esiste. Gli energy-drink non li hanno mica inventati i tredicenni. E ci illudiamo che se il Pil è alto e lo spread è basso la salute della popolazione sia ottima, invece non riusciamo a insegnare neppure le regole minime di benessere ai nostri giovani».
C’è, poi, un altro effetto legato all’alcol: quello che gli esperti chiamano “droga ponte». Se oggi la fascia più interessata alle ospedalizzazioni è quella degli over 30, nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che avevano iniziato a bere in adolescenza. Ma il vero rischio è un altro: ubriacarsi in giovane età fa innalzare pericolosamente la soglia di tolleranza e quindi anche quella di percezione dell’ebbrezza. E questo spesso porta al consumo di altre droghe: cannabis prima, cocaina poi. In questo senso si parla di “droga ponte”, una sorta di passaggio da una sostanza dannosa ad un’altra ancora più pericolosa.
Infine, l’ultima emergenza: quella sui comportamenti correlati al consumo degli alcolici. Il pub’s crawl, il giro ossessivo di tutti i pub che alcune città (Londra, Glasgow) hanno istituzionalizzato in certe date particolari per poterli controllare meglio. O le piazze utilizzate per bevute pubbliche collettive, come il botellon (in Spagna). E ancora: l’eye balling (si svuota una bottiglia di un superalcolico e l’ultima goccia la si versa in un occhio per aumentare l’effetto-sballo) o il pericolosissimo balconing (tuffo in piscina direttamente dalle finestre delle camere d’albergo delle località di vacanza per giovanissimi). I riti in giro per il mondo sono tanti. Le conseguenze sono sempre le stesse.