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 2013  aprile 21 Domenica calendario

LE ULTIME 40 ORE DI JOYCE

Giovedì 9 gennaio 1941 James Joyce, l’autore dell’Ulisse, si trovava a cena in un ristorante di Zurigo con la moglie Nora e l’amico Paolo Ruggieri, e, come suo solito, aveva ecceduto nelle libagioni (alcol compreso). Alla fine però aveva cominciato ad accusare dolori molto forti allo stomaco. Così forti da richiedere, rientrato alla Pension Delphin dove viveva, l’intervento di un medico che gli somministrava della morfina e, il giorno seguente all’alba, stabiliva il suo ricovero in ospedale. Aveva 58 anni, ed era appena arrivato in Svizzera – al culmine della sua fama, ormai riconosciuto come uno degli autori più importanti del XX secolo – fuggendo da una Parigi in preda all’ccupazione nazista.
Come si legge nel referto sanitario di sabato 11 gennaio, «il paziente è stato sottoposto a raggi che hanno dato il seguente risultato: ulcera perforata, per cui è stata disposta consulenza chirurgica e l’intervento avrà luogo nella giornata di oggi in anestesia totale». A operarlo d’urgenza alle 10 del mattino fu il dottor H. Freysz e il paziente venne portato nella camera di degenza in condizioni subito definite «gravi», circondato dall’affetto di Nora e del figlio Giorgio (la figlia Lucia era rimasta in Francia, ospite di una casa per malati mentali da alcuni anni). Lì rimase fino alle 2.15 del lunedì successivo, quando, sopravvenuta un’altra emorragia interna, spirò.
Stando alle testimonianze e ai documenti sanitari, passarono 40 ore prima della sua morte, in cui Joyce alternò brevi momenti di lucidità e di sopore profondo. E questo periodo di semi-coscienza, in preda a uno stato di abbandono come quello tanto acutamente descritto nell’ultimo capitolo dell’Ulisse durante la veglia di Molly Bloom, ha stimolato la fantasia di Umberto Apice, scrittore e giurista (attualmente è avvocato generale presso la Corte di cassazione), che nel suo romanzo-verità Nelle stanze di Joyce indaga la psiche del grande dublinese immaginando che, in quel breve lasso di tempo, ripercorra le tappe più significative della sua vita, forse inconsapevole di essere accudito da una solerte e amorosa infermiera.
Ne è uscita una narrazione che si abbevera alla tecnica, sperimentata proprio dal dublinese, dello stream of consciousness (il flusso di coscienza che lo accomuna a Virginia Woolf) e che si avvale di un artifizio che dà un nome all’infermiera (la giovane Carlotta innamorata di un italiano) e la rende testimone e partecipe dell’agonia del suo paziente. Sfilano così davanti agli occhi di Joyce gli anni formativi nella capitale irlandese, l’incontro "folgorante" con Nora nel giugno 1904, il primo viaggio a Zurigo alla ricerca di un posto di lavoro alla Berlitz School, e gli altri soggiorni in Svizzera durante la Prima guerra mondiale e ora agli albori della Seconda. Non solo, ma emergono anche le fasi principali della sua vita, compresi gli "struggimenti" triestini, quando, nella capitale adriatica dove visse per undici anni e concepì i suoi capolavori (terminò Dubliners, scrisse il Ritratto dell’artista e il dramma Esuli, iniziò l’Ulisse), frequentava, oltre alla locale Berlitz, le famiglie della ricca borghesia e dava lezioni private alle fanciulle della Trieste-bene, tentando di sedurle.
Nelle stanze di Joyce getta luce sul lungo e difficile (ma anche gratificante) soggiorno a Trieste, dove nacquero i figli Giorgio e Lucia nonché fiorì l’amicizia letteraria con Italo Svevo. E lo fa evocando i nodi cruciali della sua vita sentimentale con Nora, a partire dall’ossessione per il tradimento riferita al "fedifrago" amico dublinese Cosgrave, che gli aveva fatto chiaramente capire di essere stato il primo a possedere fisicamente Nora (motivo al centro di Esuli). Con l’aggiunta dell’infatuazione per la zurighese Marthe Fleischmann, sua dirimpettaia a Zurigo nella Universitätstrasse durante la permanenza del 1915-19. Apice, nel mostrarci Joyce mentre passa in rassegna la propria esistenza prima del congedo finale, si attiene scrupolosamente ai suoi dati biografici, desunti da un’ampia bibliografia citata, inventando "realisticamente" la concitazione delle ultime ore attorno al capezzale dello scrittore, che involontariamente suscita la venerazione di Carlotta, messa ad accudire un personaggio così famoso (un’altra jeune fille en fleur che, nella finzione, entra nel suo universo emotivo). E la scrittura di Nelle stanze di Joyce sembra confermare un’accattivante consanguineità di Apice con lo stile "introspettivo" joyciano, specie attraverso l’uso di terminologie colloquiali molto pertinenti al mondo disincantato di Nora che sottolineano un ricorso all’ironia sempre presente nell’autore dell’Ulisse. Significativa, per esempio, l’attribuzione a Nora, che non si rassegna innanzi al marito immobilizzato in un letto d’ospedale, di questa considerazione rassicurante: «So che è capacissimo di saltare giù dal letto, abbracciarmi davanti a tutti, e lanciarsi in un attacco di loquacità, declamando versi osceni o esibendosi in qualche danza demenziale di sua invenzione».