Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 19 Venerdì calendario

COSÌ L’AMERICA CI HA CONTAGIATO E POI È USCITA DALLA GRANDE CRISI


NEW YORK. È un mondo divaricato e divergente, purtroppo gli europei stanno nella metà sbagliata. In America la Grande Contrazione è finita. In Europa la crisi si prolunga e peggiora, perché così impongono le politiche sbagliate che vanno sotto il nome di austerity. L’America ha tassi di crescita superiori al 2 per cento da ben tre anni. L’occupazione aumenta di mese in mese, da 37 mesi. Le potenze emergenti, dalla Cina al Messico, viaggiano a velocità di crescita ancora superiori. L’eurozona è attanagliata da una depressione «fabbricata a tavolino», frutto delle scelte dei governi.
Le politiche economiche non spiegano tutto, sia chiaro. I maggiori elementi di forza dell’America sono di tipo strutturale. Il boom energetico, per esempio: l’America, grazie a nuove scoperte e soprattutto al progresso tecnologico, si sta avvicinando a grandi passi all’autosufficienza, sorpasserà l’Arabia saudita nel petrolio e la Russia nel gas. Altro elemento strutturale è la demografia, un fattore di sviluppo legato ai poderosi flussi migratori. Strutturale si può definire anche la leadership delle università, fucine di innovazioni.
A questi elementi va aggiunto il fattore Barack Obama: un presidente che ha guidato l’America fuori dalla recessione anche perché si è ribellato all’ortodossia rigorista ed è tuttora impegnato in una dura battaglia contro la destra. Il segno delle politiche economiche di Obama è dato con chiarezza dall’ultima proposta di bilancio: sì a un’austerity molto moderata, con tagli sostenibili ad alcune spese sociali, ma solo se spalmati sul lungo periodo; a breve invece Obama vuole nuovi investimenti nella scuola e nell’innovazione. Il rallentamento nella crescita dell’occupazione che si è verificato a marzo (solo 88 mila nuovi posti di lavoro in quel mese, contro i 150 mila in media nei mesi precedenti) è legato ai tagli automatici di spesa: la controprova che l’austerity è una cura che uccide il malato.
La seconda economia più grande, la Cina, accelera il suo ritmo di crescita anche grazie alla vigorosa ripresa delle esportazioni. Ancora più importante è la svolta di Tokyo: la banca centrale ha deciso di «fabbricare inflazione» fissando un obiettivo di aumento dei prezzi forzato, per stimolare la crescita.
La Grande Rotazione, che occupa l’attenzione di Wall Street, è la conseguenza di questo ribaltamento di scenario. Con il prevalere dell’ottimismo, molti investitori istituzionali stanno «ruotando» la composizione dei loro portafogli. Alleggeriscono la parte di bond e incrementano la quota investita in azioni. I bond, soprattutto i titoli di Stato dello nazioni considerate più solide (Usa, Giappone, Germania), sono stati a lungo un bene rifugio per mettere i risparmi al riparo. Non solo dall’inizio della crisi del 2007, ma anche prima, il mondo ha attraversato un’onda lunga favorevole ai bond. Per questo alcuni esperti parlano di «svolta generazionale». Potrebbe aprirsi ora una fase nuova. La fine del Toro per i bond, l’inizio di un lungo periodo di Orso in cui obbligazioni e titoli di Stato perderanno valore. Specularmente, per gli investitori il mercato prediletto diventerebbe quello azionario. Questi fenomeni finanziari, se confermati, sarebbero il riflesso di cambiamenti nell’economia reale.
La terapia inflitta dalla cancelliera Angela Merkel all’eurozona si ritorce contro i suoi artefici. La produzione industriale è precipitata ai minimi da tre anni, torna negli abissi dove si trovava nel 2009, certifica Eurostat. Il gioco è nelle mani delle banche centrali. Sono loro a infilarsi, con un ruolo di supplenza, dove i governi non vogliono o non riescono ad arrivare. La politica in alcuni casi sembra relegata in secondo piano. In Italia lo spread scende anche senza un governo nel pieno delle sue funzioni. In America i mercati guardano all’ennesima sfida Obama-Congresso come a un side-show, uno spettacolo di secondo piano, la fiducia viene da altri indicatori di crescita.
L’Europa affonda nella recessione anche perché è penalizzata da un cambio troppo forte. È una delle ragioni per cui il Vecchio continente rimane ai margini da quella che gli americani battezzano la Grande Rotazione: il ribaltamento di scenari economici, il prevalere dell’ottimismo dopo tanti anni di depressione, il conseguente travaso di flussi di capitali dai bond alle azioni. Euro forte e «perma-austerity» sono i fattori che impediscono al Vecchio continente di agganciarsi alle locomotive della ripresa e cioè a Usa e Brics.
La forza eccessiva della moneta è meno dibattuta dell’austerity, ma non è meno importante. Il Giappone, reduce dalle elezioni e dalla vittoria di Shinzo Abe, sta copiando la ricetta vincente della ripresa americana: politiche keynesiane (90 miliardi di euro in grandi opere), più moneta debole. E le grandi manovre per svalutare lo yen sono già cominciate: comprando euro, per l’appunto. Cominciò la Federal Reserve con il suo quantitative easing, una creazione poderosa di liquidità che ha tra i suoi effetti collaterali (inconfessato ma molto desiderato) proprio l’indebolimento del dollaro a vantaggio della competitività del made in Usa. La Cina ha navigato cautamente a metà strada fra il dollaro e l’euro, ben guardandosi dal seguire la moneta unica nella sua traiettoria rialzista. In questa «guerra delle monete», come la definisce il ministro brasiliano dell’economia Guido Mantega, un perdente sicuro è il settore manifatturiero europeo: da una parte è schiacciato dalla domanda interna asfittica, per gli effetti dell’austerity sul potere d’acquisto delle famiglie; d’altra parte, si vede insidiate le sue quote di commercio mondiale da grandi potenze che manovrano spregiudicatamente il cambio. Se la politica della Bce non ha la possibilità di rispondere colpo su colpo alle offensive convergenti di Giappone e Usa, l’handicap resterà grave per l’industria europea. Tanto più che si aggiunge all’altra anomalia europea: la «perma-austerity», il rigore permanente. La Germania, la sola nazione europea che potrebbe trasformarsi in locomotiva, prepara un nuovo bilancio di austerity per il 2014, per rispettare l’obbligo costituzionale di pareggio strutturale del bilancio pubblico. Una rigidità sconosciuta a Washington, Tokyo, Pechino.
In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fondo monetario ammette di avere sbagliato sistematicamente le previsioni durante la crisi. E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione. Come si spiega? Secondo l’autodiagnosi del Fmi, sono stati «sotto stimati gli effetti moltiplicatori dell’austerity come freno alla crescita». Questi effetti sono tanto più pesanti se «l’austerity non è uno shock una tantum», bensì una terapia protratta su più anni. È esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: «Non si esce dalla crisi a colpi di tagli». I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d’acquisto e i consumi; la mancanza di domanda deprime investimenti e assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che «aritmeticamente» fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre. La controprova la fornisce proprio l’economia degli Usa. Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all’8 per cento del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti.
Federico Rampini